martedì 14 dicembre 2010

ACTING OUT E INTERPRETAZIONE

Voglio dire innanzitutto che l’acting out, come il passaggio all’atto, rientra nel campo dell’azione ed entrambi si distinguono da ciò che definiamo atto. Si può infatti parlare di un uomo d’azione, o di una donna d’azione, questo evoca il movimento, una grande attività o addirittura un’agitazione, ma non comporta necessariamente degli atti.
Non si dice un uomo o una donna “d’atto”. Si parlerà piuttosto dell’atto di un uomo, o di una donna. L’atto presuppone una logica, un tempo logico con le sue scansioni di attesa. Alcuni atti si fanno in un lampo, e sorpassano il loro autore. Questo li rende forse più prossimi al passaggio all’atto. L’istante di vedere si situa così dopo l’atto stesso, e serve allora un po’ di tempo per comprendere. Siamo in questo lontani dall’atto come viene concepito in psicoanalisi, l’atto che ha di mira il reale e che ha una portata simbolica.
L’azione dipende dalla soggettività, da ciò che chiamiamo “io”, e che Lacan designava come una soggettività immaginaria all’interno del fantasma.
Per il nevrotico la scriveva in questo modo,  partendo dalla formula del fantasma:
$   a
- phi
io
La losanga tra $ e a indica l’alienazione ma anche la separazione, ossia l’articolazione stessa del fantasma: da una parte c’è l’alienazione propria all’io, e dall’altra la separazione prodotta dall’oggetto a. Lacan ha scelto questa losanga per tradurre la proprietà di alternanza dei termini del fantasma, ossia la proprietà di essere “una catena flessibile e inestensibile ad un tempo”.[1]
- phi designa qui la funzione immaginaria della castrazione che “scivola sotto l’$ del fantasma, favorendo l’immaginazione che gli è propria, quella dell’io.”[2]
Si tratta dunque del nevrotico, che immagina la propria azione densa di trame.
L’atto, al contrario dell’azione, si stacca, si separa dal soggetto. In tal modo, l’atto analitico, come tale, non subisce la minima infiltrazione da parte dalla soggettività dell’analista. Dal lato dell’analizzante le cose vanno diversamente, e per questo non si parla di atto dell’analizzante.
Qui è in questione il soggetto, e ciò che si produce va piuttosto imputato al registro dell’azione, che poco a poco scarica la zavorra della castrazione immaginaria.
Si raccomanda tuttavia a chi si impegna in un’analisi di essere paziente: agens si oppone a patiens in latino. In effetti essere paziente implica, da parte dell’analizzante, una rinuncia all’atto.
L’analizzante deve piuttosto subire quest’atto, patirlo, e da qui lo definiamo “paziente”, e cioè colui che patisce. La due parole, paziente e patire, hanno la stessa radice etimologica. Il paziente è in effetti proprio colui che sopporta, se non addirittura colui che soffre.
Abbiamo l’esempio di un analista americano recatosi a Vienna per incontrare Freud e fare una tranche di analisi con lui, che chiede a un certo punto a Freud di fotografarlo. Freud rifiuta, dicendogli che avrebbe dovuto, prima di tutto, analizzare questa pulsione. Giunse poi un giorno, quello del compleanno di Freud, in cui Freud lo autorizzò infine a fotografarlo. Freud dovette ritenere che in quel momento il suo paziente era andato abbastanza avanti nell’analisi della sua pulsione a fotografare. Si potrebbe dire, in questo caso, che l’azione venne tenuta in sospeso per lasciare spazio all’atto, quello di Freud all’occasione.
L’atto e l’acting out sono dunque nozioni correlate con un tempo differente. Queste nozioni sono state sviluppate nella dottrina analitica, e particolarmente da Lacan, ma non vengono osservate clinicamente solo nella cura analitica. Al di fuori di questa è tuttavia difficile capirne qualcosa, o addirittura analizzarle e coglierne il senso reale.
Per parlarne, è opportuno riferirsi a un concetto, il transfert, del quale Lacan dà la seguente definizione: una messa in atto della realtà dell’inconscio. In altri termini, senza il transfert, senza quest’appello a un Altro che si situa al di là dell’interlocutore, e da dove al soggetto ritorna il proprio messaggio in forma rovesciata, senza questa messa in atto, non c’è modo di apprendere alcunché della realtà dell’inconscio. La messa in atto relativa al transfert non è tuttavia un automaton, del quale, una volta partito il meccanismo, non ci sarebbe più da preoccuparsi. La messa in atto può subire ogni sorta di destino: delle sospensioni, una precipitazione, degli arresti, tutta una serie di effetti dei quali fanno parte l’acting out e il passaggio all’atto, che va distinto dall’atto.
Queste due nozioni sono state a lungo confuse, e per molti aspetti lo sono ancora. Dobbiamo a Lacan il fatto di averle a più riprese distinte e articolate nel suo insegnamento, in un certo numero di Seminari e negli Scritti.
La confusione tra le due nozioni ha nuociuto alla loro reputazione nell’ambito analitico, e sono state spesso interpretate come una conseguenza di una cattiva conduzione della cura da parte dell’analista e particolarmente della sua interpretazione. Questa messa in causa dell’interpretazione ci può tuttavia guidare e può gettare luce su una difficoltà o addirittura uno scacco che possono presentarsi.
Lacan ha dimostrato, partendo dall’esempio di casi, come quello di Ernst Kris con l’ “uomo delle cervella fresche” e quello di Ruth Lebovici con l’ “uomo dell’armatura”, come alcuni atti avessero a che fare con ciò che chiamiamo acting out e indicassero all’analista che era fuori strada per quanto riguardava l’interpretazione formulata all’analizzante.
L’acting out non è dunque da prendere tanto come un errore dell’analista, quanto piuttosto come un’insufficienza della sua interpretazione. In altri termini, l’acting out è un appello del soggetto a un’interpretazione meglio fondata di ciò che è realmente in causa per lui.
Lo vediamo nell’esempio che fa Lacan a partire da un caso di Melitta Schmideberg,  di un acting out, un esibizionismo reattivo, che è stato confuso con un passaggio all’atto perverso.
Si tratta del caso di un uomo[3] la cui moglie ha il doppio della sua età e della quale lui è lo zimbello. Tentando di fare del suo meglio nell’orribile situazione in cui si trova, l’uomo viene a sapere che diventerà padre. Si precipita allora in un giardino pubblico e esibisce il proprio organo a un gruppo di bambine.
La Schmiderberg, l’analista, si dedica allora a ogni sorta di analogie con il padre del paziente, che era a sua volta una sorta di vittima della moglie e che era stato scoperto da lei con una prostituta. La Schmidenberg, della situazione che gli porta il paziente, fa insomma una perversione. Lacan considera quest’analisi un po’ sbrigativa, salvo il fatto che di analisi non se ne è vista proprio.
L’azione avrebbe dovuto essere analizzata come se fosse stata provocata da quanto si presentava nel reale come simbolicamente inassimilabile. Il soggetto era stato spinto a mostrare sul piano immaginario ciò che era in questione sul piano reale e che dunque non era avvenuto su quello simbolico. In altri termini, il soggetto, con l’acting out, fa il proprio ingresso in scena. Nel passaggio all’atto invece, come soggetto, lascia la scena. Quest’uomo mostra in effetti l’equivalenza simbolica tra bambino e fallo dopo che, saputo della gravidanza della moglie, è stato messo di fronte a un reale. Lui, di solito così sminuito dalla moglie, ha probabilmente stentato a credere di esserne l’autore, di avere la paternità di questa gravidanza. Diciamo che deve aver avuto qualche difficoltà a simbolizzarlo. Mostra dunque nel posto giusto, dice Lacan, l’equivalente del bambino, cioè quel che gli rimane, in quel momento, dell’uso del fallo”[4].
Se ci riferiamo all’osservazione di Ruth Lebovici, “l’uomo dell’armatura”[5], anche qui ci troviamo di fronte a una perversione reattiva, nel senso di un acting out. È una distinzione molto importante, in un momento in cui, come oggi, si sa che si comminano condanne e si sbatte la gente in carcere, senza più curarsi della diagnosi. Ed è qui che si fa molto presto a parlare di passaggio all’atto perverso o addirittura di atto criminale.
Nel caso dell’uomo dell’armatura, che si rivela essere una fobia, cosa che dall’analista, la Lebovici, è colta molto rapidamente, quest’uomo ha ridotto fino a quasi annullarla la propria attività. Teme di essere troppo alto e si presenta tenendosi curvo. Detto in breve, la sua vita si limita all’ambito familiare e a un’amante più anziana di lui, procuratagli dalla madre. Non è questo tuttavia a costituire la sua fobia, che è una paura di uscire. La sua fobia è completamente circoscritta, giacché sorge un oggetto fobogeno, un’immagine fantasmatica, un uomo con l’armatura provvisto di uno strumento: un flacone di insetticida che distrugge tutti quei minuscoli oggetti fobici che sono gli insetti.
Il soggetto teme di essere braccato e soffocato nel buio da quest’uomo con l’armatura.
Abbiamo allora una prima interpretazione dell’analista: quest’uomo con l’armatura, cui è stato assegnato uno strumento, è la madre fallica. In seguito a quest’interpretazione si sviluppa un fantasma perverso in più fasi e nel corso di un periodo d’analisi durato non meno di tre anni. Eccone le fasi:
1)   La prima: il soggetto si immagina intento ad urinare e guardato da una donna che, molto eccitata, lo sollecita per avere dei rapporti sessuali.
2)   La seconda: è il rovesciamento di questa prima posizione, ossia questa volta è il soggetto che osserva, masturbandosi o meno, una donna mentre urina.
3)   La terza fase, infine, dove abbiamo la realizzazione effettiva di questa seconda posizione: il soggetto si trova un piccolo ambiente in un cinema degli Champs–Elysèes, da cui può vedere i bagni delle donne mentre queste urinano, e intanto può, o no, si masturbarsi.
L’autrice del caso, come dice Lacan, afferma, con una certa autenticità, di essere in qualche modo coinvolta in quel che capita al suo paziente. Sostiene cioè di essere coinvolta nella cristallizzazione fantasmatica di un elemento che fa parte delle componenti del soggetto e che è non la madre fallica ma, cosa diversa, la madre nel suo rapporto con il fallo. Ruth Lebovici constata infatti di intendersene molto più della madre del paziente la quale, come abbiamo visto, giunge fino a procurare un’amante al figlio.
Nel Seminario Le formazioni dell’inconscio Lacan, ricordando questo caso, sottolineava come si tratti della “brusca esplosione di qualcosa che, escluso sotto l’influenza della domanda, faceva ritorno qui sotto forma di un atto isolato nella vita del soggetto, con la forma compulsiva dell’acting out e assicurando la presentificazione di un significante in quanto tale”. [6]
Abbiamo dunque la formula del fantasma scritta da Lacan, che si legge in questo modo:
                                                         $  a
il soggetto in evanescenza rispetto a……………………….­
Al posto di questo a avremo quindi la domanda, che si scrive D. È, in questo caso, la domanda dell’analista.
Si tratta della “produzione forzata del rapporto con a attraverso la riduzione alla domanda, indotta dal modo di dirigere l’analisi”.[7] L’acting out è dunque il “prodotto artificiale” degli interventi dell’analista, o dei non interventi, fatti, o non fatti, nel momento giusto e al punto giusto.
Ritorniamo al caso dell’uomo dell’armatura, e al fatto che Ruth Lebovici, pur rendendosi conto di essere forse un po’ fuori strada – Lacan parla di passi falsi analitici – fa, nel prosieguo della cura, altri interventi che non sistemano le cose e che, devo dire, sono molto istruttivi.
L’interpretazione seguente viene fatta dopo che il paziente porta un sogno: si trova in presenza di una persona facente parte della sua storia, di fronte alla quale ha degli impulsi amorosi, ma si trova impedito a manifestarli dalla presenza di una figura femminile che ha svolto anch’essa un ruolo nella sua storia, e che, all’età di tredici anni, ha visto urinare. L’analista gli dice: “Indubbiamente lei preferisce interessarsi a una donna guardandola urinare che fare lo sforzo di andare all’assalto di un’altra donna che può piacerle, ma che è sposata.”[8]
Mettiamo subito in risalto l’ingiunzione velata che questo intervento implica: il paziente non fa lo sforzo di andare all’assalto. L’accento è posto sulla sua impotenza e, in effetti, questa è imputabile a una domanda dell’Altro di “fare lo sforzo”.
L’interpretazione è quindi forzata. Il personaggio maschile, il marito della signora, non compare nel sogno, viene solo evocato nelle associazioni. Si vede poi come sia lo schema edipico a risultare forzato. Quando l’analista insiste sul marito, Lacan parla anche di provocazione, perché è stato il marito dell’analista a indirizzarle quest’uomo per un trattamento.
Dopo questo intervento si produce dunque la svolta verso la seconda fase del fantasma, verso la cristallizzazione del fantasma, dove il soggetto dalla posizione di osservato passa a quella di osservatore.
La tappa successiva, dove viene fatta un’altra interpretazione, si ha quando a una domanda del soggetto di rallentare il ritmo della sedute, l’analista risponde: “Lei manifesta qui le sue posizioni passive poiché sa benissimo che, in ogni caso, questo non l’otterrà.”[9]
Osserviamo ancora che qui l’analista mette l’accento sull’impotenza, sulla passività del suo paziente e pone un veto: “Questo non l’otterrà”, senza cercare di sapere che cosa è in gioco in questa domanda, e soprattutto senza permettere all’analizzante di interrogarsi.
La cristallizzazione del fantasma fa in modo che il soggetto, rendendosi almeno conto di come gli sia impossibile raggiungere l’oggetto femminile, giunga, all’interno del trattamento, a sviluppare i propri fantasmi: timore di urinare sul divano, spiare le gambe dell’analista, cosa che quest’ultima nota con una certa soddisfazione.
C’è qualcosa che sfiora i bordi della situazione reale, al punto che il soggetto si dice: “Mio Dio, l’unica soluzione sarebbe andare a letto con l’analista.”[10] Lo dice a lei e questo innervosisce l’analista, che replica: “Per ora, lei si diverte a spaventarsi con qualcosa di cui sa benissimo che non succederà mai”[11].
Dopo essersi espressa così, si chiede però se ha fatto bene a dirlo.
Non è la madre fallica a essere qui messa in questione per il paziente, è la madre a-fallica. Ogni volta infatti che si avvicina a una donna, si ferma a un certo stadio della sua indagine sulla donna come portatrice, o meno, dell’organo messo in questione.
L’ultimo intervento dell’analista rivela comunque un certo grado di abilità e di certezza: “Sa bene che non succederà mai”. Constatiamo subito che l’intervento ha la stessa struttura del precedente e ha di mira l’impotenza.
Dopo quest’intervento il soggetto passa definitivamente all’atto, è la terza fase della cristallizzazione del fantasma, in cui va realmente a spiare le donne nei bagni. È la madre a-fallica allora che va a spiare, e non quella fallica. La soddisfazione così ottenuta sospende d’altra parte, per il soggetto, ogni attività erotica. Non accede dunque alla castrazione, cioè alla sua simbolizzazione.
Si fa operare a una varice, poi riprende la relazione con l’amante. Non parla più della sua alta statura ma pensa solo a una cosa: alla misura delle proprie scarpe, a volte troppo grandi, altre volte troppo piccole. Questo raggiunge l’apice nel momento in cui il soggetto, in presenza della sua analista, percepisce un odore di urina, da non confondersi ovviamente con l’odor di femmina.
L’analista farà la considerazione che quello è “il momento in cui la distanza dall’oggetto reale (…) è finalmente adattata alla sua esatta portata”[12].
Questo tipo di perversione è un artificio, fa notare Lacan, che perviene a designarsi in un modo abbastanza brusco. L’uomo si farà sorprendere da una dipendente del cinema, cosa che gli farà cessare da un giorno all’altro di frequentare quel luogo.
Si potrebbe anche dire che l’acting out è un sintomo, soprattutto quando si tratta di una situazione durevole. Lo potremmo dire, per esempio, del caso commentato da Freud, quello della giovane omosessuale, che si comporta come un cavalier servente della sua Signora. È una situazione che dura per qualche tempo, in effetti, e la ragazza non presenta altri sintomi. A differenza di un sintomo, tuttavia, l’acting out richiede un’interpretazione. È d’altra parte, in fin dei conti, il motivo per cui il padre invia la figlia da Freud.
Possiamo dire che il sintomo, invece, basta a sé stesso, non domanda nulla. È un godimento, e cioè qualcosa di cui il soggetto si soddisfa, seppur con la sofferenza che ne deriva. Il sintomo aiuta, anche, il soggetto a vivere bene.
Il sintomo può esistere senza transfert. Non si può dir lo stesso dell’acting out, che si rivolge a…, fa appello a…, che mostra a un altro in grado di interpretarglielo, ciò che è in gioco per lui.  E non soltanto in analisi. Nel caso della giovane omosessuale, per esempio, questa si espone agli sguardi passeggiando per le strade con la Signora, e finisce per mostrarsi a suo padre. Lacan definisce d’altra parte l’acting out come un transfert selvaggio.
Se il passaggio all’atto, in analisi, deve essere evitato dal soggetto, è proprio per privilegiare il posto dell’acting out, di cui l’analista “deve farsi carico, e mantenerlo”[13]. Senza questa posizione dell’analista, l’acting out rimarrà, in effetti, un transfert selvaggio, e cioè un transfert senza analisi.
Interpretarlo, dargli un senso, è un intervento destinato a scarsi effetti, perché non è il senso, non è ciò che l’analista potrebbe interpretare che conta. Ciò che conta è il resto, quel che l’acting out mostra. Abbiamo visto, tra l’altro, nei casi precedenti, come interpretare conduca a situazioni problematiche.
Paradossalmente quindi, da una parte è bene non interpretare, non cercare un senso, soprattutto un senso a partire dai pregiudizi analitici, e d’altra parte è bene non lasciar cadere. E tuttavia è ciò che Freud fa con la giovane omosessuale: non sopporta la menzogna del sogno che lei gli porta e lascia cadere, senza interessarsi al piccolo resto, che ostacola, che inceppa la situazione, che – sottolinea Lacan – è lì come “ciò che viene in questione”[14].
Si tratta in effetti, per l’analista, di non lasciar cadere, affinché il soggetto possa accorgersi della sua relazione con quel che possiamo assolutamente designare per lui come oggetto a minuscola.
$  a
Per la giovane omosessuale si pone la questione del bambino, che il padre dona a sua madre. Quel che esibisce dunque, durante tutta l’avventura con la Signora, riguarda la dimostrazione paradossale di ciò che non ha, il fallo, ma mostrando che ce l’ha, e ce l’ha donandolo alla Signora, adottando dunque un atteggiamento virile per strada, girando in città. “Si comporta di fronte alla Signora come un uomo, come un cavalier servente, come colui che può sacrificarle ciò che ha, il suo fallo”[15], come dice Lacan.
Questo atteggiamento di fronte alla Signora equivale alla dimostrazione artificiosa che lei ha ciò che in realtà non ha.
Invece di simbolizzare la mancanza, ovvero la sua femminilità, invece di rappresentare ciò che può mancare a suo padre, come oggetto a o, detto altrimenti, come donna, la ragazza mette in scena il sacrificio di ciò che ostenta di avere, invece di mostrare che del fallo è stata privata. Ora, questo fallo è piuttosto ciò che il padre ha e dona alla madre sotto forma di bambino.
Mi è venuto un altro esempio di acting out, quello di una giovane donna piuttosto avanti nella sua analisi con un collega, analisi che tuttavia si trova, come dice venendo da me, in un punto d’arresto. Sostiene che il suo analista non fa nulla, che dorme, e che in fin dei conti non si interessa alla sua analisi e la lascia stare male, la lascia nell’impotenza, nell’incapacità di prendere la parola e addirittura di scrivere. Lei – aggiunge – non è mai stata dotata per la scrittura, non è un’intellettuale, è una persona pragmatica. In breve, non è una donna. Da quel lato non combina nulla, e resta nella sua isteria. Inoltre non riesce a dire più nulla al suo analista, e in questo momento il suo transfert è negativo. “Vengo da lei, mi dice, perché lei è una donna, un’analista donna.”
Ho subito costatato che la sua venuta aveva la struttura di un acting out, e che la dimensione del transfert era, in effetti, ben presente. In questo spostamento da un analista uomo, che non si interessa a lei, a un’analista donna, che si interessa alla questione della femminilità, mostrava effettivamente quel che restava un po’ in disparte nella sua analisi, e cioè la sua femminilità.
Scrivere, parlare, nell’ambito della psicoanalisi, le era impedito, e questo proprio perché il suo analista la spingeva in tal senso. Parlare per lei era come mostrarsi nuda, non metaforicamente, ma nel senso della sua femminilità corporea, cosa che le risultava insopportabile. Sembra fosse proprio questo ciò di cui non si era tenuto conto nella sua analisi. Ovviamente, dopo averla ascoltata, le ho detto che era importante lo dicesse al suo analista, che gli dicesse anche quel che pensava di lui. Non si trattava, in effetti, per lei di trovare un senso in quel che le succedeva, ma di far valere lo sguardo designato nel suo spostamento, quello agito da un analista all’altro, come ciò che contava. Non poteva dunque costringersi a salire in scena per far brillare la scintilla fallica che non aveva, e che le avrebbe fatto solo rivestire un ruolo, lasciando in giacenza, cioè in disparte, il suo corpo. Con lo sguardo o con il corpo, abbiamo qui una messa in rapporto del soggetto con un resto, che si scrive $® a. Questa ragazza, salendo sulla scena dell’acting out, mostra la mancanza problematica, enigmatica, mostra la causa di desiderio che nell’acting out potrebbe trovare solo una falsa soluzione. In altri termini, lei va a vedere altrove. Non è quindi ciò che le manca, il fallo, che importa qui. Importa invece il fatto che è lei come mancanza, come donna, nel campo dell’Altro, a essere lasciata in disparte, e ciò la porta a sentirsi lasciata cadere dal suo analista. Non si tratta dunque di promuovere il fallo al posto dell’oggetto a, cosa che, immediatamente, accentuerebbe l’acting out.  A meno che l’analista, quello messo in causa, non resti sordo.
Sono situazioni che possono d’altra parte virare al passaggio all’atto.  Per esempio, nel momento in cui la giovane omosessuale incontra il padre in città, passeggiando con la Signora, e quando lui le getta uno sguardo corrucciato invece di avere un gesto d’amore, il padre appare come fallo assoluto, al posto di ciò che lei è come mancanza. Nello sguardo del padre si presentifica la legge. Ne deriva, in quel momento, l’assoluta riduzione della ragazza ad a. Lei si sente definitivamente identificata con questo a, con questo rifiuto, con questo scarto che cade fuori dalla scena. Si verifica allora il lasciar cadere. Si tratta di una messa in rapporto brutale con a, cioè con lo sguardo. In altri termini la ragazza si trova messa in un rapporto radicale con ciò che lei è come oggetto, come oggetto rifiutato. Ne consegue che si lascia cadere realmente, saltando nel vuoto da un parapetto.
***
Prenderò ora il caso di una donna che ha fatto una lunga analisi, in seguito al lutto per il marito. La fine della sua analisi è stata segnata da un acting out. Sorge allora la seguente questione, presente anche nelle domande che un cartello della passe di una Scuola psicoanalitica può porsi di fronte a certe fini dell’analisi: non ci sono più analisi di cui si potrebbe credere finiscano con una falsa soluzione riguardo al desiderio?
Un esempio può essere un’analisi la cui un’uscita ha luogo quando la paziente dà alla luce un bambino. Su questo Lacan non esitò a  dire che quando una donna rimane incinta durante l’analisi, si tratta sempre del baluardo di un ritorno al più profondo narcisismo.
Poiché ai giorni nostri le analisi sono piuttosto lunghe, sembra difficile ratificare che un’analisi sia terminata per il fatto di avere partorito un figlio. Ma questo non dovrebbe impedire a un soggetto di interrogare il proprio percorso analitico.
Ritorniamo al caso della donna che iniziò il percorso analitico in seguito a un lutto. Questa donna vedova è e vedova resta, mentre conduce una vita che lei stessa definisce molto seria e calma, appena scandita da rari e brevi incontri con uomini che non le chiedono nulla, a parte gli amplessi che le danno comunque un certo piacere.
La donna aveva una madre alla quale era fortemente legata, e che scompare improvvisamente dopo che lei ha fatto già diversi anni di analisi. Questo la gettò nuovamente in un lutto dal quale emerse a stento.
Sollevata tuttavia da questa scomparsa, si rivolse al padre, mettendo molto impegno nel nuovo investimento. Di nuovo vi fu un decesso. La constatazione della propria identificazione con l’oggetto perduto, in questo lutto raddoppiato, non poteva bastare. Cercava un’attenzione del padre che poteva trovare ormai solo cercando nel passato, e che la madre ostacolava
Il soggetto in effetti non poteva identificare in questo lutto quale mancanza fosse per l’Altro.
In questo contesto, la paziente incontrò una donna con la quale intrecciò una relazione amorosa e omosessuale, per la prima volta in vita sua. Si trattò per lei della realizzazione di un desiderio a lungo soffocato, che si era sempre vietato. Si definiva omosessuale senza saperlo.
La paziente ne fu come rianimata. Divenuta oggetto di grandi attenzioni da parte dell’amica, tutto filava liscio nel perfetto amore. Acting out? La questione si poneva in modo serio. Impedirlo? Siccome l’acting out deriva dall’impedimento, questo non avrebbe fatto che rafforzarlo.
Se l’acting out fa appello all’interpretazione, questo non vuol dire che vi si debba procedere tramite spiegazioni. Come, allora? Rinviando la paziente al lutto impossibile di una madre fallica? Errore! Sarebbe mettersi fuori strada rispetto a ciò di cui si tratta, cioè la mancanza, il reale, il resto, come abbiamo già visto. In tutto questo non c’era nessuna domanda da parte sua, solo qualcosa che si metteva in mostra. Lacan definiva l’acting out in uscita come imbavagliato dal simbolo. In questo senso si tratta di una sorta di forzatura della domanda nella modalità dell’exploit, della performance, come una sorta di falso fantasma: “Essere il fallo che manca alla madre”, fantasma che aveva fatto di lei la testimone silenziosa della propria miseria di donna.
Essere questo fallo per la madre, e in seguito per il marito, poté solo dare luogo, nel momento della loro scomparsa, a effetti di svalutazione. Di punto in bianco lei non era più niente, non capiva più niente. L’oggetto cadeva, appariva il niente che la  posizione dell’io nel fantasma fino a quel momento aveva velato. Il percorso analitico fu in effetti accompagnato da alcuni successi nello studio, qualcosa che lei offriva all’analisi, all’analista, in una sorta di lutto maniacale.
Due sogni permisero al soggetto, non certo di capire questo niente, giacché che lei non capiva niente, ma di riportare il fantasma all’angolatura giusta
Il primo sogno: “ Una bambina vestita di rosso sta annegando. La chiamo, chiedo chi sia sua madre?” L’analizzante associa sulle mestruazioni, la maternità, questa maternità impossibile per quel che la riguarda. “Guardavo senza affetto la forma che galleggiava sull’acqua – aggiunge – senza esserne toccata. Rinviavo il problema alla madre responsabile del figlio, responsabile della sua morte.” Associa nuovamente sulle mestruazioni: “Sono un fatto che contrassegna – dice – la morte di un bambino possibile.” Evoca allora un bambino del quale ha dovuto fare il lutto per via di un aborto.
Ora, quel bambino è anche lei, come confermerà qualche seduta più tardi un secondo sogno: “Una bambina con le calze rosse sprizzava un getto di urina come fosse un ragazzo. Provo grande compassione per questa bambina. Mi rivedo bambina con uno sguardo triste e un sorriso completamente rassegnato. Eppure non ero una bambina sfortunata, né picchiata. È come se, a posteriori, soffrissi enormemente di non essere stata coccolata, di non essere stata ascoltata. Ho l’impressione di ritrovarmi in questo momento, mentre sono una bambina che accetta le gentilezze di M., la mia amica.”


Questi due sogni mostrano la sovrapposizione prodottasi sul piano del fantasma: il bambino ridotto al silenzio, quell’a, al quale si sostituisce l’immagine che la paziente ha di sé mentre emette un getto di urina, una ragazzina triste per il fatto di non essere un ragazzo che si fa coccolare da una donna, e cioè:
$
- phi
Nell’acting out è lasciato in disparte il bambino ridotto al silenzio, e quindi morto. Si tratta, in altre parole, del bambino silenzioso che ascolta la madre mentre gli racconta le proprie storie di donna.
Si trattò solo di interpretare questi sogni, e determinante fu la comunicazione di un’assenza. Sui motivi per cui se ne andava, l’analizzante restò evasiva. Mise avanti quel che secondo lei era il proprio desiderio, tacendo così la causa, per evitare che si cogliesse la menzogna. L’analista non cedette, dicendole che contava su di lei per non restare lì, su ciò che mostrava senza saperlo, invece di articolarne qualcosa. L’analista si spinse fino a dirle  che si trattava di ciò che mancava per la fine della sua analisi.
Era un po’ giocare a lascia o raddoppia, mettersi sul filo del rasoio. E l’analizzante decise di non fermarsi alla menzogna del suo acting out.
Ciò che ne seguì aprì lo spazio all’orrore della femminilità attraverso il corpo dell’amica. La paziente donò allora la propria angoscia, ciò che al nevrotico ripugna donare, e quindi donò quel niente che legava alla comprensione o addirittura al proprio essere. Il dono dell’angoscia prese il posto del dono del fallo che non aveva. Questo mise così fine all’avventura con l’amica. In altri termini, la testimone silenziosa e rassegnata aprì gli occhi su ciò che occludeva la castrazione femminile: bambino, morte, sangue, getto d’urina, ragazzina coccolata.

(Traduzione di Michele Bottali, revisione di Marco Focchi)

Lilia Mahjoub




[1] Lacan, Jacques “Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano”, in Scritti, Einuadi, Torino, 2002, p. 830.
[2] Lacan, Jacques,ibidem, p.829
[3] Lacan, Jacques, Il seminario. Libro IV. La relazione oggettuale. Einaudi, Torino, 2007, pp.161 - 162
[4] Lacan, Jacques, ibidem, p.162
[5] Lacan, Jacques, ibidem, pp. 83 - 87
[6] Lacan, Jacques Il seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio. Einaudi, Torino, 2004, p. 457.
[7] Lacan, Jacques, ibidem, p.458
[8] Lacan, Jacques, Il seminario. Libro IV. La relazione oggettuale. Einaudi, Torino, 2007, p. 85
[9] Lacan, Jacques, ibidem, p.85.
[10] Lacan, Jacques, ibidem, p.85
[11] Lacan, Jacques, ibidem, p.85
[12] Lacan, Jacques, Il seminario. Libro IV. La relazione oggettuale. Einaudi, Torino, 2007, p.86
[13] Lacan, Jacques, Le Sèminaire. Livre XVI. D’un Autre à l’autre, Editions du Seuil, Paris, 2006, p.350 (traduzione mia).
[14] Lacan, Jacques, Le Sèminaire. Livre X. L’angoisse. Editions du Seuil, Paris, 2004, p.152 (traduzione mia).
[15] Lacan, Jacques, Le Sèminaire. Livre X. L’angoisse. Editions du Seuil, Paris, 2004, p.146 (traduzione mia).