martedì 28 febbraio 2012

Seminario dell’Istituto freudiano di Milano. Lezione del 21 gennaio 2012. L’esilio di Joyce

Ho scelto  di dare come titolo al mio intervento: “L’esilio di Joyce”. Perché l’esilio? Perché Lacan, nel seminario, nota che se Joyce ha acquisito una posizione particolare in rapporto alla letteratura, l’ha pagata con il suo esilio. È vero che Joyce non ha vissuto solo a Dublino, ma anche a Parigi, a Trieste. Lacan considera ci sia in questo una nota d’autenticità. Si tratta di esilio e non castrazione. Per un altro artista si potrebbe dire che ha pagato la propria arte con la castrazione ma, per Joyce, Lacan non parla di castrazione, bensì di esilio. 
Per introdurre il mio discorso di oggi parlerò del nodo. Perché il nodo? Metterò poi l’accento su quattro punti. La mia tesi è che Lacan, nel seminario su Joyce, abbia introdotto concetti nuovi che rimandano a strumenti della vita quotidiana. Questi strumenti sono: l’appendiabiti e lo sgabello. Sono a favore del fatto che la clinica della psicosi sia rinnovata grazie a questi due nuovi concetti lacaniani. 
 In secondo luogo, bisogna senz’altro evocare il nome che Lacan dà a Joyce: Joyce-il sintomo. Lacan articola questa denominazione con una nuova nozione introdotta nel corso del seminario, una nozione che ha sorpreso gli ascoltatori, che è: “Essere disabbonati dall’inconscio”. Cosa vuol dire?
Terzo punto: bisogna parlare del rapporto che Joyce ha con il padre, perché Lacan evoca, a proposito, quella che dice essere una preclusione di fatto. Ciò significa che c’è una differenza tra preclusione di fatto e preclusione di diritto.
Quarto punto, che ha particolarmente attratto l’attenzione nei dibattiti, il rapporto di Joyce con il proprio corpo. Lacan sostiene che il corpo di Joyce si è staccato da lui nel momento in cui gli è successo qualcosa nell’infanzia.
Infine, per concludere, bisognerà parlare del sintomo. Lacan chiama sintomo precisamente quel che ha fatto valere come lapsus del nodo, ovvero un errore commesso nell’annodamento del nodo.
Devo disegnare il nodo? Ci vuole coraggio, ma non ci mancherà. Il trucco di Lacan, perché c’ero quando lo faceva, era questo: quando disegnava i nodi lasciava dei punti d’interruzione. Son questi punti d’interruzione che creano il nodo borromeo. Si distribuiscono poi reale, immaginario, simbolico, lasciando un punto centrale. Nel suo seminario, Lacan aveva l’abitudine di usare tre matite di colore diverso, il reale era marcato in blu, il simbolico in rosso, l’immaginario in verde. 
L’anno scorso, al suo corso, J-A Miller ha fatto notare una cosa molto semplice: quel che Lacan chiama anello di spago costituisce un buco. Allo stesso modo in cui il nodo articola il simbolico, l’immaginario, il reale, articola anche, al tempo stesso, tre buchi. Ho trovato chiarificatrice questa osservazione. Lacan stesso portava ai suoi seminari degli anelli di spago. Lo dico tra parentesi, non voglio approfondire questo punto, ma lo trovate se leggete la terza conferenza che Lacan ha tenuto a Roma nel 1974, (la prima è nel  1953, la seconda nel 1967). Il testo della conferenza è stato stabilito da J-A Miller e pubblicato nell’ultimo numero della Causa Freudiana (in italiano è ne “La psicoanalisi”). Detto per inciso: Lacan situa al centro l’oggetto “a” minuscola , poi situa il godimento fallico, poi il godimento così detto dell’Altro, e per finire il senso. 
Perché il nodo? Per farmi capire, userò una formula provocatoria. Per Lacan  la differenza tra la logica del significante e quella del nodo borromeo è che il nodo non è paranoico. Quando oppone le due logiche, J-A Miller va valere l’idea che, nella logica del significante, il significante primo può essere qualunque. Se infatti in un sacco abbiamo un certo numero di biglie, ogni biglia può essere il significante numero uno, in quanto è la prima biglia tirata fuori dal sacco, poi se ne tira fuori un’altra, e sarà la seconda. Quel che è importante, per definizione, è che il significante uno sia diverso dal significante due.  È un’idea che si spinge molto lontano. Se riprendiamo il logico Frege, vuol dire infatti che ogni significante è diverso da se stesso. Perché mi riferisco a Frege? Perché Frege parla dei numeri interi, e considera quel che non è identico a se stesso, che definisce il numero zero. Il primo significante implica necessariamente un secondo significante, diverso dal primo. Farò ora parlare il significante primo come un paranoico: “Io sono il primo, sono la prima biglia del sacco, e tu sei soltanto il secondo”. È quel che faceva osservare J-A Miller commentando questa logica: la logica del significante presuppone  un ordine,  una disuguaglianza,  una gerarchia. Nel seminario XVII la logica del significante è ripresa  da Lacan  a partire della dialettica tra S1, che è il significante padrone , e S2 che è lo schiavo. 
Nel cuore del nodo, invece, non c’è disuguaglianza, ordine, gerarchia. Le tre dimensioni all’interno del nodo hanno uno stesso statuto, sono indipendenti l’una dall’altra. Non c’è relazione tra simbolico e immaginario, tra simbolico e reale. C’è tuttavia una relazione tra i registri simbolico, reale, immaginario, nelle misura in cui sono considerati come consistenze indipendenti. Si tratta di una relazione di puro annodamento. In questo senso c’è dunque relazione solo tra tre dimensioni, non tra due. La logica del nodo è per questo all’opposto rispetto alla logica del significante. Quando parliamo della dimensione del nodo non troviamo dunque né inizio né fine, non c’è una prima parola né un’ultima. Da questo punto di vista possiamo dire che la paranoia è assente dal nodo. Lacan ha molto insistito su questo aspetto nel seminario R.S.I. tenuto nell’anno precedente da quello di cui parliamo oggi.  Avrei potuto scrivere il reale, l’immaginario e il simbolico in posizioni diverse, e questo vuol dire che la sola consistenza è quella dell’anello di spago. Ciò che distingue un anello dall’altro è soltanto il colore che gli si attribuisce. C’è profonda equivalenza tra i tre anelli, ed ecco perché parliamo del nodo. 
Primo punto: Lacan  introduce due nuovi concetti: quello di appendiabiti e quello di sgabello. C’è una cosa che, pur avendo tenuto lezioni per un anno sul seminario XXIII, non avevo notato: è che prendevo prima il seminario XXIII, e poi commentavo la conferenza di Lacan “ Joyce il sintomo”.   Questo è il testo che Lacan ha scritto per un simposio su Joyce nel 1975. Prendevo i testi in quest’ordine: prima il seminario, poi la conferenza, che è un testo scritto sullo stesso argomento. Credo invece che occorra iniziare con la conferenza. Nel  giugno 1975 Lacan  viene invitato da Jacques Aubert a fare la conferenza d’apertura al simposio alla Sorbona, e dà come titolo “Joyce il sintomo”.  Non avevo notato che qui inizia con il “Finnegans Wake”. Lacan inizia a parlare del “Finnegans Wake” e lo riprende poi nel testo scritto. Nel seminario Lacan prende un’altro avvio, e affronta Joyce a partire dall’Ulisse. Quando invece parla del rapporto di Joyce con il padre, o del rapporto di Joyce con il corpo, lo fa con  il “Ritratto dell’artista da giovane”. Ciò vuol dire che Lacan non ha preso le cose in ordine cronologico: ha parlato prima di “Finnegans Wake”, poi dell’Ulisse, e poi del “Ritratto dell’artista”. È andato dunque da quel che è più incomprensibile a quel che è più comprensibile. 
Nella conferenza il punto in questione è sapere se Joyce è comprensibile o no. J-A Miller segnala  che Lacan parla molto con Philippe Sollers, e che – cosa che per l’appunto non avevo notato – Lacan inizia dal punto più difficile.  Il fatto che chiami “Joyce il sintomo” e non, per esempio, “Joyce un sintomo”, riecheggia uno dei primi importanti libri di Joyce il “Ritratto dell’artista da giovane”. Non è il “Ritratto di un artista”. Vuol dire che  Lacan considera Joyce, a tutti gli effetti, il paradigma di tutti i sintomi, è il sintomo per eccellenza. Cosa vuol dire? Penso riguardi il fatto che Lacan inizia con “Finnegans Wake”, il testo più difficile di Joyce. Ciò significa che il sintomo viene dal rapporto di Joyce con il linguaggio, rapporto caratterizzato da quel che Lacan, nella sua conferenza, definisce l’inintelligibile. Considera  infatti che ci sia in Joyce la volontà di essere inintelligibile, di non essere capito. Per questo Lacan mette Joyce in relazione con se stesso. È vero che negli anni ’70 molti scrittori cercavano di essere incomprensibili, soprattutto quelli che venivano pubblicati nella rivista di Philippe Sollers “Tel quel”.  Questo ci permette di capire l’espressione inventata da Lacan “Joyce disabbonato dall’inconscio”. Lacan, come Sollers, si domanda cosa si provi aprendo un libro di Joyce nel tentativo di leggerlo. Questo quesito aveva suscitato un dibattito tra gli intellettuali all’epoca, Barthes, Sollers, Lacan, ed era un quesito che riguardava anche Sade. 
La fonte a cui s’ispira il “Finnegans Wake” è il “pun”, termine inglese. Il pun è lo stesso principio di scrittura adottato da Lewis Carroll. In “Alice nel paese delle meraviglie”, Carroll inventa una parola che condensa più parole. Ciò significa che le parole inventate da Joyce, o da Lacan, non si capiscono quando le si legge. Sia la scrittura di Lacan sia quella di Joyce si caratterizzano per gioco di parole, per il piacere di giocare con le parole. Lacan  stesso parla di godimento. Quel che dunque si legge quando si apre “Finnegans Wake”  è sul piano del godimento, e non del senso. 
Proporrei un esempio di una parola costruita come un pun, e che Gilles Deleuze chiama “appendiabiti”. È l’esempio di una parola creata da Lacan. Lacan dà molta importanza a quel che chiama l’”osceno” . Perché? In francese si scrive obscène. Possiamo scorporare la parte finale, e viene fuori scena (la “scene” in francese). Lacan gioca a fare Lewis Carroll. Lacan scrive “obscène” in modo diverso:  condensa tre parole, scrive un pun alla Lewis Carroll. Ci sono tre parole : eau (acqua), beau (bello), scène (scena). Potete sempre inventare parole che contengono altre parole. Lacan prende da Joyce un esempio che gli piace tanto (p. 162 edizione italiana del Seminario XXIII). Si trova nel “Finnegans Wake”:  “Who ails tongue coddeau, a space of dumbillslly?”  In francese questo suona: “Où est ton cadeau, espèce d’imbécile?” (Dov’è il tuo regalo, razza d’imbeille). Questo è quel che risulta traslitterando in francese. Se, si legge “Finnegans Wake”, e si capisce l’inglese, si ride, è divertente.
Il pun è dunque principio di scrittura del “Finnegans Wake”, e questo fa sì che a prima vista sia  illeggibile. Se n’è molto parlato a Parigi con François Regnault, con Jacques Aubert. È possibile tradurre “Finnegans Wake”? In francese esiste una traduzione di Philippe Lavergne, ma non piace molto a  Jacques Aubert. Lo dico per fare capire che, con questa passione per l’inintelligibile, in grado però eventualmente di far ridere, secondo Lacan, Joyce  è salito sul proprio “sgabello”. Con la sua arte si è costruito il proprio “sgabello”, l’artista è diventato artigiano. Dice infatti Lacan, agli ascoltatori della sua conferenza, che l’opera principale di Joyce è “Finnegans Wake”. Lo troviamo a p. 162 (dell’edizione italiana) : “Bisognerebbe continuare a interrogare l’opera maggiore, nonché ultima di Joyce, alla quale egli ha riservato la funzione di fargli a sgabello.” Ecco il punto in cui introduce lo “sgabello”. C’è un rapporto tra il pun e lo sgabello, tra la pratica del pun e quella dello sgabello. 
Una domanda appassionante è quale sia il rapporto tra il pun e il joke. C’è infatti equivoco ed equivoco. Il pun, la parola appendiabiti gioca con l’equivoco, ma non penso che l’equivoco del Witz sia le stessa cosa che l’equivoco del pun, o della parola appendiabiti. La tesi di Lacan è che il Witz , il joke, tocca l’inconscio, cosa che non fanno il pun, o la parola appendiabiti. Per questo Lacan sostiene che Joyce è disabbonato dall’inconscio. Il termine “disabbonato” evoca l’abbonamento telefonico. Ricordo che a Barcelona,  nel 1988, Pierre-Gilles Gueguen, appena nominato AE, disse che alla fine di un’analisi doveva accadere qualcosa del genere, che doveva verificarsi una sorta di disabbonamento dall’inconscio. Nel nostro contesto è un concetto che viene spesso utilizzato. 
L’anno scorso, J-A  Miller, per spiegare questa nozione, diceva di aver tentato di leggere l’Ulisse, ma dopo qualche pagina il libro gli cadde dalle mani: è riuscito a leggerlo solo una volta in treno. Lacan  esprime molto bene l’idea, nella sua conferenza, quando dice: essere disabbonati dall’inconscio. Lacan sullo sfondo, è una lettura personale che faccio, ha in mente l’isteria, quel che succede con le donne. Quel che appassiona una donna è il sintomo dell’altro. Il partner scelto da una donna è il sintomo dell’altro, e lei ne fa il proprio sintomo. Per parlare del sintomo isterico, Lacan evoca il sintomo dell’altro, lo evoca a partire da Socrate. Dice che il sintomo è un evento del corpo, parla di sintomo come evento. Mentre si sta rivolgendo a degli universitari che leggono Joyce da tanti anni,   gli  viene in mente di parlar loro delle donne, dell’isteria.
La frase importante che sottopongo alla vostra riflessione è a p. 162: “Il sintomo in Joyce è un sintomo che non vi riguarda per niente, è il sintomo in quanto non c’è nessuna possibilità che agganci qualcosa del vostro inconscio. È questo, credo, quel che voleva dire la persona che mi ha chiesto perché Joyce abbia pubblicato “Finnegans Wake”. Trovo questa frase  assolutamente importante, perché presenta un paradosso: dal momento in cui Lacan dice a Joyce: “Tu sei il sintomo”, giacché precisa più tardi che Joyce è l’incarnazione stessa del sintomo, passa poi a dire: “Non vi riguarda per niente, non riguarda per niente il vostro sintomo, non tocca il vostro inconscio”. Lacan pensa che quando si legge Joyce, la lettura può essere sgradevole. È un dibattito tra Barthes, Sollers e Lacan. Roland Barthes ha scritto un libro dal titolo “Sul piacere del testo”, e leggendo Joyce non si prova questo piacere, quello che provate per esempio leggendo Dante oppure, per me, Stendahl, Flaubert, Balzac, Colette. Per “Finnegans Wake” si tratta di un godimento che non riguarda l’altro. 
È J-A Miller che ha messo l’accento su questo aspetto, si tratta del godimento dell’Uno, un godimento egoista. Forse egoista non è la parola giusta, tanto più che Joyce voleva essere letto, ed è tanto più illeggibile quanto più vuole essere letto. Se per essere letto si rende illeggibile, diventa inafferrabile, non può essere preso. Lacan si domanda se in questo vi sia un’identificazione femminile o qualcos’altro. C’è comunque la nuova nozione di Lacan: essere disabbonati dall’inconscio. Alla fine del suo insegnamento Lacan dice che il mezzo utilizzato dall’analista – l’analista in quanto s’interessa al sintomo dell’altro – il mezzo di cui dispone è l’equivoco come motto di spirito, l’equivoco nel senso del motto di spirito. L’interpretazione dell’analista non è necessariamente un motto di spirito. A una collega analista dell’Ecole, per esempio,  in un’interpretazione il suo analista ha detto che era una coureuse, il termine contiene l’idea di correre, ma anche c’è il senso di correre dietro alle gonnelle, di darsi da fare, è una parola appendiabito. Da quel momento la vita della nostra collega è cambiata, perché il suo analista ha messo il dito nella piaga, l’equivoco dell’interpretazione le aveva toccato l’inconscio. Lacan torna spesso sull’idea  nel seminario su Joyce: il solo mezzo di cui disponiamo per  dire qualcosa del sintomo del soggetto è l’equivoco. Per concludere con quel che Lacan dice sull’equivoco mi voglio riferire al suo seminario “L'insu que sait de l'une bévue s'aile à mourre“ , titolo intraducibile nel suo intreccio di significati, che dice sostanzialmente: ”L’insuccesso dell’inconscio è l’amore”. In questo seminario Lacan riprende la sua tesi secondo cui l’analista agisce con l’equivoco, e per Freud l’equivoco è il motto di spirito. L’equivoco non riguarda il bello, l’equivoco è separato dall’estetica. Analogamente a Kierkegaard, Lacan considera che il motto di spirito sia attinente all’etica. Bisogna leggere in questo senso quel che Kierkegaard  ha scritto sul Don Giovanni di  Mozart.
Terzo punto: Joyce e suo padre. Dopo aver parlato dell’Ulisse Lacan, nella sua conferenza e negli atti del simposio, ha parlato effettivamente di “Finnegans Wake”, che è il libro dell’ironia di Joyce, dove  Joyce deride Freud e Jones, sotto le mentite spoglie della coppia Fred and Shine. Il riso dà tono del Finnegans Wake. Lo dà un po’ meno nell’Ulisse, e non lo dà affatto nel “Ritratto dell’artista”, dove Joyce racconta la propria infanzia e adolescenza. È un libro drammatico e tragico. L’Ulisse è un po’ diverso. Quando nel suo seminario Lacan si riferisce all’Ulisse, evoca in realtà il primo e l’ultimo capitolo del libro, e parla della relazione di Joyce con  suo padre attraverso quella di Stephen Dedalus con Leopold Bloom.  “C’è per forza un padre da qualche parte, un padre che si cerca un figlio”, ma Stephen gli dice: “No grazie, dopo il padre che ho avuto, ne ho fin sopra i capelli”. Soprattutto, aggiunge Lacan, per il fatto che il Bloom in questione non è una tentazione. Il primo capitolo s’intitola Telemaco, e l’ultimo Itaca. Il punto di vista di Lacan è che l’Ulisse di Joyce non abbia nessun rapporto con l’Odissea di Omero. Semplicemente Lacan dice a p. 168 del seminario francese che Stephen Dedalus è il Joyce che Joyce immagina di essere e, poiché Joyce non è uno sciocco, non lo adora affatto. Lungi da questo: basta che parli di Stephen per fare del sarcasmo. Joyce tiene dunque una certa distanza dal personaggio di Stephen Dedalus. Bisogna tenere presente che, nella relazione tra Stephen Dedalus e Joyce, Stephen è Joyce nella misura in cui decifra il proprio enigma. Lacan non ha  mai ascoltato Joyce di persona, e per parlare della relazione tra Joyce e il padre lavora dunque deduttivamente in base a quel che Joyce ha scritto nei suoi romanzi.  Vedremo che Lacan si riferisce in particolare al “Ritratto dell’artista”.  
Lacan inizia il suo seminario parlando dell’Ulisse, evocando una precisa scena alla fine dell’Ulisse, nell’ultimo capitolo. Ve la riassumo: Leopold Bloom e Stephen si sono incontrati per caso. È notte, vanno in un pub a bere, e Leopold Bloom mostra a Stephen una foto della moglie Molly Bloom, che tira fuori del portafoglio.  Dopo questo capitolo c’è il monologo di Molly.
 Leopold sa che la moglie lo tradisce con un altro e il pomeriggio, camminando  per le vie di Dublino, e mostrando la foto a Stephen Dedalus, mostra la propria moglie come oggetto di desiderio. È una cosa che troviamo spesso nelle lettere di Joyce a Nora, sua moglie. Lo stesso tema compare anche in “Exiles”, gli esuli, pièce teatrale scritta da Joyce, testo appassionante che tratta il tema a rovescio, parlando della gelosia femminile per un uomo.  Offrire la propria moglie a un altro uomo sollecita il desiderio correlato alla gelosia, ed è quel che succede quando Leopold Bloom mostra la foto di sua moglie a Stephen Dedalus, invitandolo a venire a prendere una tazza di caffè a casa sua. È una scena molto divertente: quando arrivano a casa Molly sta dormendo, ed è qui che tiene il suo monologo, nel cuore della notte. Leopold  Bloom invita Stephen a lavarsi le mani, ma Stephen rifiuta: sono mesi che non si lava, e anche Joyce aveva orrore di lavarsi – sembra anche che non avesse un buon odore: ne parla nel carteggio con la moglie.
 Lacan prende questa scena nel testo di Joyce, quella di un padre che offre ospitalità. La frase di Joyce è: “La proposta d’asilo fu accettata subito, inspiegabilmente con gentilezza, con riconoscenza, fu rifiutata”. Questa frase, che compare nell’Ulisse, spiega perché Stephen non voglia suo padre. Io credo che ogni volta che Lacan dice qualcosa a proposito di Joyce nel suo rapporto con il padre, si riferisca a qualche preciso passo negli scritti di Joyce: bisogna quindi cercare la frase che sostiene l’argomento di Lacan, perché è ogni volta fondato su un testo. 
Quando Lacan parla di una preclusione di fatto, bisogna cercare nel testo di Joyce il riferimento. Mi sembra che Lacan si riferisca a questo proposito a una frase che si trova nel “Ritratto dell’artista”. Ci sono due passaggi, nel “Ritratto dell’artista”, in cui Joyce evoca la propria relazione con il padre (Joyce, Romanzi, Mondadori, p. 300)  “Stephen sedeva su uno sgabello accanto al padre, ascoltando un monologo lungo e incoerente. Da principio ne comprese poco o nulla, ma poco a poco si accorse che suo padre aveva dei nemici e che ci sarebbe stata una lotta, che un qualche dovere gli stava per cadere sulle spalle. L’improvvisa fuga dalla comodità e dalla fantasticheria di Blackrock, la traversata della cupa città nebbiosa, il pensiero della casa nuda e sconsolata in cui ora avrebbero vissuto, gli faceva il cuore pesante, e di nuovo lo sorprese un’intuizione, un presentimento del futuro. Comprese anche perché i servi avevano tante volte bisbigliato tra loro nel vestibolo e perché tante volte suo padre in piedi sul tappeto, colla schiena al fuoco, aveva parlato ad alta voce allo zio Charles, che lo sollecitava a sedersi e a mangiar cena”. “Si accorse poi che anche lui veniva arruolato per la lotta”: è qui che Lacan è andato  a pescare la parola “sgabello”. In questa frase si capisce bene che il padre non gli parla. Joyce ha avuto un padre che non gli parlava, mentre per altro verso suo padre parlava continuamente. Vediamo quindi dove Lacan va a cercare la preclusione di fatto. Potete avere un padre chiacchierone, e che tuttavia non vi parla. È quel che chiama “i monologhi interminabili del padre”. La preclusione di fatto sta dunque in questo, nell’avere avuto un padre che non si rivolge a lui, che non gli parla. È una questione importante nella clinica: vostro padre vi ha parlato? Lacan, nel suo seminario, parla delle dimissioni del padre di Joyce, dimissioni che hanno portato a una carenza paterna. La prova? Nel Ritratto dell’artista qualche pagina  più in là (p. 300): Il padre e la  madre di Stephen Dedalus, hanno dovuto traslocare, perché il padre spende tutti i soldi che guadagna nei pub. Se andate a Dublino potete rintracciare la caduta della famiglia di Joyce, seguendo i passaggi da una casa bella per finire poi in una casa sempre più miserabile. Il padre di Joyce era un personaggio, il pub era per lui una scena teatrale, gli piaceva dare spettacolo nei pub. Siccome hanno traslocato, Stephen deve cambiare scuola e c’è una discussione tra i genitori, con un dialogo importante : “‘Gli sono capitato dritto sui piedi’ disse il signor Dedalus per la quarta volta ‘proprio all’angolo della piazza’. ‘Allora, spero’ disse la signora Dedalus ‘che potrà combinare qualcosa. A Belvedere naturalmente’. ‘Ma certo che riuscirà’ rispose il signor Dedalus. ‘Se ti dico adesso che è provinciale dell’ordine’ [...] Il signor Dedalus si piantò il monocolo nell’occhio e guardò fisso i due figlioli. Stephen biascicava  il pane senza rispondere allo sguardo del padre”(p. 307). Ecco il passaggio dove Lacan nota la dimissione del padre: egli mette l’educazione del figlio nelle mani dei gesuiti. Lacan può allora dire che questa educazione, i testi che Joyce ha letto, è l’armatura del suo pensiero. Il padre di Joyce ha rifiutato di assumersi la storia del figlio. È qui che Lacan dice che Joyce era pazzo: c’è una preclusione del Nome del padre, quando per altro verso il padre era molto presente con le sue chiacchiere. Questo secondo Lacan spiega la disavventura capitata a Joyce quando era piccolo. È una disavventura famosa e di cui si è molto discusso, è l’episodio della bastonata, come l’ha chiamata da Lacan. Un compagno, alle elementari, gli chiede quale sia il suo poeta preferito. Lui risponde Byron.  Ridono allora di lui, e due compagni gli spaccano la faccia, mentre un ragazzo lo picchia con un cavolo.  Dedalus torna a casa piangendo, e racconta quel che è successo:  ha avuto l’ impressione che il suo corpo si staccasse da lui, come la buccia di un frutto. Lacan traspone questo sul nodo, nell’ultimo capitolo del seminario, dove disegna quello che J-A Miller ha chiamato il nodo sbagliato. L’errore avviene tra il reale e il simbolico. L’anello del simbolico passa normalmente sotto il reale, ma se sbaglio disegnando, e metto il simbolico sopra il reale, allora questo è l’errore: il nodo si disfa e resta attaccato all’anello del reale, mentre l’immaginario non è più tenuto e si sfila. Lacan illustra così la sensazione di Joyce che il proprio corpo si staccasse. Lo sostiene a  partire da quel che dice Joyce nel “Ritratto dell’artista”, dove descrive questa impressione che il corpo si staccasse da lui, come una buccia., L’ira di Joyce è poi svanita, après-coup la sua collera è sparita. 
Ricordo che a scuola una volta alcuni compagni mi hanno picchiato. Mio padre allora mi ha insegnato a picchiare, e il giorno dopo ho spaccato la faccia a questi compagni. Lacan è stupito dalla reazione di Joyce. Vediamo che Joyce fa salire sullo sgabello il proprio ego, ed è  a partire da questo che ha voluto diventare un artista, uno scrittore, un grandissimo scrittore. Per dirlo Lacan, a p. 148 edizione italiana, disegna l’ego correttore, come lo ha chiamato Miller, l’anello aggiunto è l’ego di Joyce. C’è un rapporto tra il sintomo, l’ego e il nome, il fatto che Joyce abbia voluto farsi un nome: nel nostro ambiente lo chiamiamo “supplenza”.  Il nodo non terrebbe, per colpa del lapsus del nodo, se per Joyce non ci fosse l’arte. Lacan la chiama “l’artgueuil” termine costruito con “arte” e “orgoglio”, che in francese  suona simile a orgueuil . 
Ecco a p. 147 il nodo sbagliato. Per Lacan il nodo è contingente, il nodo si determina in occasione di un evento, non è un nodo scritto una volta per tutte, è vivo, si piega, si sforma secondo le svolte della nostra storia, segue gli incidenti, le casualità che ci capitano, è strettamente legato al caso, alla questione dell’amore, perché in fondo, quel che crea l’amore è il caso. Nel momento in cui Joyce ha avuto l’impressione che il suo corpo si staccasse da lui, Lacan scrive il nodo in questa maniera. La scrittura del nodo è articolata con un instante, e questo dà l’idea a Lacan di scrivere il sintomo come evento di corpo, perché l’impressione, avuta da Joyce, di sentire il corpo staccarsi come la buccia di un frutto maturo, è un evento di corpo. Questo è molto interessante per parlare dello schizofrenico. L’impressione che lo schizofrenico ha di non avere un corpo, è quello che Lacan – nel suo omaggio a Margerite Duras, a proposito de Il rapimento di Lol V. Stein – dice che Lol V. Stein non ha un corpo.  All’occasione, è nell’altra donna che trova un corpo. Lacan dà molta importanza al fatto che un soggetto abbia l’impressione di perdere il corpo, di non avere corpo. J-A Miller ha scelto questo modo  di rappresentare le cose, nel momento in cui l’immaginario cade. Tornando a Joyce, nel momento in cui Dedalus è in una chiesa per meditare,  si accorge che la sua collera è svanita. Il suo ego coglie di nuovo il nodo, l’ego di Joyce ripara l’errore che si è verificato subito prima. Lacan di questoa oscillazione fa il principio di costituzione di un sintomo: in quell’istante si è formulata in Joyce una decisione dell’essere: ha deciso che sarebbe stato lo scrittore del XX° secolo, che sarebbe stato l’artista per  antonomasia. Lacan scrive l’arte di Joyce in forma di sintomo, come ciò che permette di tenere insieme il simbolico, l’immaginario, il reale.  Il sintomo di Joyce è l’Ulisse, è il Finnegans Wake, è il Ritratto di un artista, è gli Esuli,  le Lettere alla moglie. Il sintomo è dunque quel che permette al nodo di tenere, senza di esso il nodo non starebbe fatto.
 Possiamo domandarci, e J-A Miller se lo è chiesto, se questo valga per tutti. Miller se lo è chiesto nel momento in cui stava sviluppando il tema della preclusione generalizzata, mettendo in opposizione  la preclusione generalizzata e quella ristretta. È una contrapposizione che ha fatto per evocare Einstein, alludendo alla relatività ristretta e generalizzata. 
Se vogliamo esprimerci dunque in termini freudiani, il sintomo condensa quel che Freud chiama  sintomo e quel che chiama fantasma, e diventa per Joyce: essere lo scrittore del XX° secolo. Essere lo scrittore del XX° secolo è l’idea che Joyce si fa di se stesso , del proprio rapporto con il reale. Realizzare questo, passa attraverso l’appendiabiti e lo sgabello. 
Pierre Naveau
Traduzione di Sonia Persello

lunedì 13 febbraio 2012

Seminario dell’Istituto Freudiano di Milano, 16 dicembre 2011. Lettura del Seminario XXIII: Il sinthomo.


Uno strano disagio
Voglio ringraziare i miei colleghi milanesi, specialmente Marco Focchi, per avermi invitato a inaugurare il lavoro su questo straordinario seminario. È per me un onore e una sfida tentare di trasmettervi ciò che ho appreso delle tantissime – non le ho contate – letture che sono riuscita a fare dalla sua pubblicazione nel 2005 e, prima di quella data, dalle poche lezioni pubblicate e dell’edizione pirata, la versione non era ancora stabilita da Jacques-Alain Miller. Devo dire che da quando ho iniziato a leggere Lacan, ho accettato la sua difficoltà: leggevo e leggevo, anche se capendo poco… e, da quelle letture, alcune frasi rimanevano come segnate a fuoco nella mia memoria. Finché, a volte molti anni dopo, e sempre come conseguenza della mia analisi, riuscivo a accorgermi del motivo per cui avevo scelto, senza saperlo, inconsciamente, quelle parole, rivelandosi quindi, après-coup, il suo valore trasferale.
Nonostante ciò, alla lettura del seminario XXIII si sarebbe aggiunta uno strano disagio. Grazie al nostro mediatore nella lettura di Lacan, Jacques-Alain Miller, sono riuscita ad alleviare un po’ la sensazione di debolezza mentale che mi invadeva ogni volta. Nel suo corso 2004-2005 del titolo Pièces detachèes, dice che questo seminario ha qualcosa di “disturbante” e che un buon metodo per la lettura è “lasciarsi prendere”: cito la lezione del 1 dicembre del 2004: “Se non vi lasciate prendere dal modo in cui cerco con fatica di darvi esempio – incluso il tono che adotto, che non è quello abituale  – lo giudichereste [il seminario XXIII] dal lato del senso comune e quindi sarà giudicato incoerente (…) quando entrerete nel Seminario lasciate fuori la speranza e anche l’ordine, il principio e la dimostrazione. Leggetelo come si leggono le Scritture, con la S maiuscola. Lacan invita a farlo con la sua “sfrontatezza”, invita a confrontare ciò che lui proferisce col Libro della Saggezza, dandosi il vantaggio. Anche alle Scritture potremmo rimproverare l’assenza di ordine.
[…] Non sognate di cominciare, di progredire, ne immaginatevi di concludere …(…), lasciatevi prendere e abbandonate ogni idea di dominio, è preferibile sovrapporvisi. In particolare, dobbiamo sovrapporci alla straordinaria enunciazione di questo seminario.” Miller ci invita a “fare di Lacan”, quel che lui, Lacan, “fa di Joyce”: “bisogna arrivare a quell’enunciazione, inscriversi nel suo filo.”
Sicuramente risuona in questo consiglio quello che, a un certo punto, enunciò Lacan stesso nella conferenza dal titolo La Terza: “Seguite il mio esempio, non imitatemi”.
  Il reale nell’enunciazione
Esporrò, per proseguire, quel che risulta dall’aver applicato questo metodo, i “pezzi staccati” della mia lettura del seminario. I miei pezzi staccati, ottenuti a partire dei miei inciampi, del mio rinnovato incontro con la mancanza della mia comprensione, lasciandomi guidare, consegnandomi, tentando di scrivere la mia enunciazione in quella corda, in quel filo, quello del discorso analitico. La metafora del filo è freudiana: Freud parlava del filo del desiderio con cui si tesse la nostra vita. La metafora della corda è lacaniana, il filo ha preso la forma del nodo.
Dove è il nodo il modo in cui Lacan si sforza di provare il proprio reale, specifico della psicoanalisi: “Il reale è il referente della psicoanalisi”, afferma Miller.  Lo è nella misura in cui la nostra pratica deve orientarsi verso il reale del sintomo, per riuscire ad estrarre da esso quel che vi è di più singolare in ciascuno. In questo caso, il discorso di Lacan risulta all’altezza del proprio tema: Lacan parla come ciò di cui parla, parla a partire della falla del linguaggio per nominare il reale. Più volte ci trasmette i propri inciampi. Più volte dice senza dire, lasciando zone opache. Ombre. Enigmi. Lacci sciolti. Confessa anche di provare la sensazione  “di rischio assoluto” sul terreno che sta esplorando, e che nomina,  qua e là, come il suo territorio, il suo pensiero. Aspira a trasmettere una nuova maniera di pensare, una nuova maniera di parlare,  è quindi a partire dalla sconfitta, dalla falla, che “si trasforma nel significante padrone del seminario”.
Scrive questa novità introducendo un equivoco nel proprio sostantivo: invece di ma pensée, parla di mon pen-se: cioè una maniera di pensare che non ignora questa falla ma che l’incorpora nel riflessivo, per cui l’agente del pensiero non è l’io o la coscienza ragionante ma la falla. Questa nuova maniera di pensare ci invita – dice Miller – a unirci al nodo, ad abbandonare il pensiero come riferimento al corpo (…) a pensare fuori dalla forma, fuori dal riferimento all’immaginario.” Il nodo è presentato come illustrazione del reale, di ciò che resiste all’immaginazione e al pensiero, e la scommessa di Lacan è dimostrare il reale mediante il nodo. “Si tratta – dice Miller – di una pedagogia, di una dolorosa educazione dell’occhio, quell’occhio che ha fatto del corpo e proprio tramite l’astrazione, una sfera che è, per eccellenza, la buona forma.”
Se la tendenza “normale” del pensiero ci rende inclini a comunicare un’idea rotonda, senza difetti, chiara, chiusa, in cui le cose pensate abbiano un senso compiuto, è perché la tendenza normale spinge a ignorare la falla, a coprirla. Lacan ci invita a esercitarci nel pensiero rigoroso che si attiene alla difficoltà strutturale, cioè, il reale della struttura, senza ovviare gli inciampi: è un fatto che con i fili ci aggrovigliamo continuamente, ci imbrogliamo. Da qui l’importanza di aprire bene gli occhi, di non addormentarci quando maneggiamo i fili per annodarli come si deve, non valgono tutte le mancanze ma solo quelle che si corrispondono  alla logica della struttura.
“…Ma per quanto riguarda quello che chiamo il reale ho inventato, giacché mi si è imposto. (…) il reale fornisce quell’elemento che può  farli stare insieme [ l’immaginario e il simbolico].
Si tratta di qualcosa che posso dire di considerare ne più ne meno come il mio sintomo. Voglio dire che questo è il mio modo di portare al suo grado di simbolismo, alla seconda potenza, l’elucubrazione freudiana. (…) è nella misura in cui Freud ha veramente fatto una scoperta – supponendo che questa scoperta sia vera – che si può dire che il reale è la mia risposta sintomatica.” 
Non è che Freud non avesse un’intuizione del reale, l’essenziale perà di ciò che Miller denomina “l’interpretazione freudiana” della psicoanalisi, e che Lacan denomina elucubrazione, conferisce al sintomo un valore di verità, il cui senso inconscio sarebbe intrappolato nei significati rimossi. Essendo la rimozione equivalente a un “giudizio che rifiuta e sceglie”, l’analisi, orientata a togliere la rimozione e ad accedere all’inconscio, permette di rivelare quel senso e farsi responsabile di quel giudizio, fin’ora ignorato, che si trova all’origine del sintomo.
Una nuova versione del sintomo
In questo seminario Lacan presenta una nuova versione del sintomo che scrive con i latina [la scrittura abituale in francese è con la y greca] e la h: sinthomo. Questa nuova denominazione del sintomo è la sua risposta particolare alle impasse della psicoanalisi freudiana. Un nuovo nome del sintomo, che recupera una sua antica scrittura e per la quale Lacan si autorizza attraverso Joyce: “…l’iniezione del greco in ciò che io chiamo lalingua mia, vale a dire il francese. Se mi sono permesso questa modifica ortografica, è perché Joyce, nel primo capitolo dell’Ulisse, formulava  l’auspicio  che si ellenizzasse…”

 non si tratta in nessun modo di separarsi da Freud, si tratta di essere, come Joyce, “eretico nel modo giusto”, per scegliere la via giusta d’accesso alla verità.
Grazie a quel che Lacan scopre nella singolarissima scrittura di Joyce riesce a imprimere alla psicoanalisi un passo da gigante, superando il modo in cui Freud si è incagliato con la sua elucubrazione, come possiamo leggere in Analisi terminabile e interminabile. Nella struttura del sintomo – al di là del suo senso inconscio, derivante dal fatto di essere una formazione dell’inconscio “strutturato come un linguaggio” – si tratta di riuscire a estrarre il reale, il modo particolare di godimento, l’osso, il nocciolo attorno al cui si è formato il sintomo. La cura analitica deve orientarsi verso quel reale, e questo cambiamento ha portato con sé un cambiamento nella concezione dell’interpretazione, corrispondente anche a una nuova versione del simbolico. Fino ad ora il simbolico è presentato come luogo dell’ordine, delle leggi che strutturano il campo della parola. La funzione del linguaggio, secondo questo seminario, viene dal fatto di bucare il reale, di “mangiarlo” attraverso la funzione della denominazione. E questa funzione è correlativa di una nuova concezione dell’umano, il trouman
: un essere bucato e vincolato al godimento del corpo: l’essere parlante, parlêtre, parla e gode di lalingua, - che si scrive tutto attaccato, per indicare che si tratta di un concetto analitico, non linguistico. La versione freudiana del sintomo è correlativa al soggetto dell’inconscio, al soggetto rappresentato dai significanti. La versione del sinthomo lacaniano, ottenuta a partire da quello joyceano, è correlativa al parlêtre. La sua definizione è essere un “evento del corpo”. E solo la psicoanalisi può rivelarne la logica interna.
Del mistero all’enigma
Mi sono formata nella tradizione cattolica. È stato necessario un lungo percorso analitico per decifrare il modo in cui quel discorso mi aveva influenzato. Da brava cattolica non ho letto la Bibbia, il catechismo è bastato per chiudere quella porta con i significati assoluti del bene e del male. Grazie a Lacan l’ho ripresa, grazie all’affascinante Joyce di Lacan, e leggo Le Sacre Scritture cercando di essere eretica “nel modo giusto”. È molto divertente, come lo è Joyce e, a volte, Lacan. Hérésie fa equivoco in francese con R.S.I.
 Arriva da Haeresis che significa “opinione singolare”, e di solito viene intesa come  messa in questione dell’ortodossia. Capisco che il modo giusto di essere eretica presuppone siano distinti i tre registri per orientarsi nell’esperienza. Non basta dichiararsi ateo per destituire Dio, e Joyce lo dimostra molto bene, bisogna usare il potere dell’equivoco per fare esplodere il senso assoluto dei significati religiosi dalle parole che danno consistenza ai fantasmi.
Nel seminario, è chiaro che il Joyce di Lacan non è quello degli universitari, ai quali il geniale irlandese considerava di dover dar da fare per trecento anni. Per il momento si può dire che ci sta riuscendo.  Joyce, l’illeggibile, lo scrittore di enigmi, è battezzato da Lacan: Joyce, il sintomo, il sinthomo.
Nell’introduzione al seminario Lacan ci spiega che Joyce ha scritto in un inglese, e aggiunge qualcosa dicendo che bisognerebbe scrivere l’elangues, termine in cui troviamo lalingua, come scrive Lacan, e l’elan, lo slancio vitale
, l’esaltazione propria della mania, definita in questo caso come sinthomo. Vale la pena metterlo a confronto con un passaggio successivo del seminario dove troviamo una definizione della vita:”…si crea una lingua nella misura un cui in ogni istante le si dà un senso. La si dà un ritocco, senza il quale la lingua non sarebbe viva. È viva in quanto viene creata in ogni momento. Di conseguenza non c’è inconscio collettivo. Ci sono solo inconsci particolari, in quanto ognuno, in ogni momento, dà un piccolo ritocco alla lingua che parla.”
 La psicoanalisi ci invita a un effort de poésie, a approfittare del ritocco che abbiamo fatto alla nostra lingua, senza saperlo, per  creare il nostro sintomo in cui dimora il nostro “slancio vitale”, il nostro godimento.
Denominare Joyce le sinthome fa già parte di questa notevole eresia lacaniana, perché sin  significa, in inglese, “peccato”. Nel seminario XXIII assistiamo a un nuovo Genesi, la nascita, non dell’uomo, ma del sinthuomo, come scrive Miller, nella misura in cui non c’è parlêtre senza sintomo, senza il mistero dell’incarnazione del sintomo.
Se Lacan ha sempre considerato la Chiesa Romana come l’unica vera, è perché, a differenza di altri miti o teorie, essa è riuscita a costituire una di-mensione (dit-mension) sul godimento del corpo in cui è presente una struttura trinitaria, la mancanza costitutiva dell’essere umano, (sebbene con il senso del peccato), e l’assenza di rapporto sessuale. Leggiamo in Encore che Gesù vale per la storiella della passione, dove racconta la via crucis del corpo. Le immagini barocche, afferma Lacan, distillano godimento, catturano lo sguardo con le sue scopie corporee, e danno senso ai fantasmi, ma non danno  forma all’impossibile rapporto tra i sessi.
Sempre nel seminario XX Lacan definisce il reale come “il mistero del corpo parlante, è il mistero dell’inconscio”. In questi tre termini: il reale, il corpo parlante e l’inconscio, dice Miller,  sorge come una condensazione dell’insegnamento di Lacan, che supponiamo deciso a dar forma logica a un’altra di-mensione del corpo, cioè, quella analitica, giacché non si è riusciti a produrre un mito meno cretinizzante sulla falla del godimento di quello della mela maledetta.
Ci viene detto che nei cosiddetti “misteri del Rosario”: i gaudiosi, dolorosi e gloriosi, a cui Giovanni Paolo II aggiunsi un quarto, i luminosi, “si meditano i misteri della nostra fede”. Sono vincolati alla incarnazione di Dio nel corpo, e si suppone, in verità, che la passione sofferta in questa persona sia stata il godimento per un'altra”.
Il mistero dell’incarnazione della parola, il mistero del godimento della parola nel corpo, gli affetti, il pathos del sintomo, possono snodarsi nell’esperienza analitica, una volta trasformato il mistero in un enigma da decifrare, una volta ottenuto il voler dire dell’evento del corpo, cioè, l’inconscio. (Miller).
L’analisi deve operare in modo tale che si possa distinguere la peculiarità del quarto anello, il sintomo, che si appoggerà ai tre (R, S, I), tre supporti (…) soggettivi, cioè, personali.
 Perché cosa? Per poter, allora, fare uso del sintomo. Senza questo, sintomo mantiene il suo carattere di pezzo staccato, di cui si soffre, che funziona male, che è qualcosa di cui non è possibile trovare una funzione.
L’importante è capire che questo pezzo racchiude in sé “una logica segreta” che l’analisi permette di rivelare, perché il soggetto possa con questa spingersi per andare nel mondo, per funzionare in un modo diverso. Questo pezzo staccato sarà la lettera del sintomo, la cui affinità con il reale si dimostra in virtù della sua identità, del suo essere lo stesso, di ciò che non cambia, a differenza del significante che è, per definizione, differenza.
Dalla mano di Joyce
Crediamo a Lacan quando dice che “grazie a Joyce, tocchiamo qualcosa a cui (lui) non avevo pensato”. 
 Di cosa si tratta? Forse, della sentenza che, in parole di Buck Mulligan riceve Stephen all’inizio di Ulisse: “…porti dentro il maledetto marchio dei gesuiti, solo che iniettato al rovescio”.
 Il testo di Joyce è interamente costruito come un nodo borromeo, afferma Lacan, cosa che a lui sfuggiva. Lacan da un esempio di una frase di carattere borromeo: “Ti domando rifiutare ciò che ti offro, perché non è questo”. Nella costruzione della frase si percepisce la torsione, il nodo di tre buchi, R, I, S,: ti domando, rifiutare ciò che ti offro, non è quello.
A differenza di Freud, che aspettava di veder cadere il mito religioso, il metodo dei nodi, secondo Lacan, ci si presenta “privo di una speranza di rompere in qualche modo il nodo costitutivo del simbolico, dell’immaginario e del reale. A questo riguardo, diciamolo con lucidità, esso rifiuta qualcosa che costituisce una virtù, perfino una cosiddetta virtù teologale”. E qui comincia una dichiarazione affilata e sorprendente: “la nostra apprensione analitica del nodo costituisce il negativo della religione”.
In Stefano eroe possiamo seguire la metodica messa in questione da parte di Joyce della religione, la composizione della sua particolare hérésie, che prende forma nel personaggio di Stephen. “Stephen è Joyce in quanto  decifra il proprio enigma”
. In un appassionante scambio dialettico con i suoi amici, con i preti e con i suoi famigliari Joyce-Stephen abbandona la credenza in Dio, – ciò non vuol dire che abbandona quei significanti, perché questi costituiscono “la materia del suo pensiero, la sua armatura”. Nel suo percorso Joyce comincia a credere nel suo sintomo di artista. Lacan riprende l’argomento di Stephen:” Non è stato Dio a commetter quell’affare che chiamiamo Universo. Si imputa a Dio qualcosa che pertiene all’artista, il cui primo modello è, come tutti sanno, il vasaio.”
, il fare che racchiude il vuoto, come ha dimostrato nel Seminario VII. Qualcosa a cui Lacan non aveva pensato …e che riesce grazie a Joyce… Credo si riferisca al simbolico nella sua funzione di denominazione. Ha trascorso il suo insegnamento sostenendo il potere del simbolico nella sua funzione di comunicazione, di creazione di senso. L’incontro con Joyce  lo porta a disfarsi del suo insegnamento anteriore.
Nella struttura borromea, trinitaria del parlêtre, il simbolico svolge la funzione di buco, e non è più importante dell’immaginario e del reale. L’immaginario costituisce il corpo, gli dà consistenza, e il reale, ex-siste agli altri due, è il parassito la cui intrusione permette di distinguere gli altri due.
Freud inaugurò il discorso analitico con il peculiare dialogo con i nevrotici. La radice inconscia dei sintomi mostra che essi funzionano come difesa di fronte al reale. Ciò avviene mediante l’operazione della rimozione, nella cui struttura si scopre il senso edipico. Lacan riesce a smuovere questo edificio freudiano grazie a quel che insegna Joyce, che definisce come “disabbonato all’inconscio”. In questa operazione il concetto stesso d’inconscio esce indenne. (Miller).
Ciò vuol dire che Joyce non si interessa al suo sintomo per produrre senso, ma che la sua arte illustra un uso del simbolico tale che, grazie al potere dell’equivoco, riesce a fare esplodere il senso unico, moltiplicando i sensi. Si tratta del uso di lalingua nella sua dimensione di suono più che di senso, giungendo anche a giocare con l’equivoco interlinguistico, fino a distruggere la lingua inglese con il suo testo intraducibile, Finnegans’ Wake.
L’Ulisse è stato scritto iniettando senza-senso nel racconto religioso. Per esempio, quando dice che Adam era una M’Adam, o quando ironizza toccandosi il fianco: La mia duodecima costola non c’è più. Sono il “Ubermensch”.
In Stefano eroe e nel Ritratto dell’artista da giovane leggiamo diversi passaggi in cui possiamo seguire i momenti di creazione, la genesi del suo sinthome, a partire della carenza della funzione paterna.
Joyce non ha avuto un padre rispettabile, ha avuto un padre indegno, ubriacone, irresponsabile, che non gli ha insegnato niente, che lo ha trascurato in tutto tranne che inviarlo dai buoni padri gesuiti, la Chiesa Diplomatica. Lacan situa il desiderio di essere un artista di cui si occupi il mondo intero come compensazione di tale carenza paterna.
In vari passaggi appare chiaro che Joyce non credeva nel padre e che si dà conforto, si appoggia “al nome che gli è proprio - ecco ciò che Joyce valorizza a spese del padre.”
 Con il suo Ego d’artista, il suo piccolo piedistallo costruito per elevarsi, il suo S.K.Beau, che fa giocare nell’equivoco con sgabello (escabeau), riesce a riparare la fallacia del nodo per via della quale l’immaginario restava slegato come si vede nel episodio delle botte. Questo errore di annodamento lascia slegato l’immaginario per via della preclusione del fallo. Lacan lo descrive dicendo che “aveva il pisello un po’ moscio”. Joyce riuscirà a raddrizzarlo con la sua arte.
Ciò non significa che lo scrittore non parli del padre, al contrario, l’Altro di Joyce “è carico di padre”, è “radicato nel padre”. Joyce ne esplora la mancanza e indaga nel modo particolare la sua versione, la sua per-versione.
Alla fine di Ritratto… Stephen conclude la sua ode alla vita con una preghiera: Odl father, old artificier, stand me now and ever in good stead. Lacan ci dice che è diretta al padre. La traduzione italiana riporta: ”Antenato mio” e permette di pensare che potrebbe trattarsi di una invocazione al potere del simbolico, del sapere-fare proprio del artista.
Nell’Ulisse, dice Lacan, andrà a cercare il padre in diversi modi, senza mai trovarlo, anche se, precisa: “… evidentemente un padre c’è da qualche parte, ed è Bloom, un padre che si cerca un figlio, ma Stephen gli oppone un non fa per me. Dopo il padre che ho avuto non ne posso più. Basta con i padri.”
Echi nella terra freudiana
Queste frasi del seminario risuonano nella nostra terra freudiana. Hanno una enorme portata. Con questo seminario infatti Lacan diceva di poter andare a passo da gigante grazie all’aiuto di Joyce. Basta padre con il seminario XXIII. “Sono, nonostante mio pesare, erede di Freud” dice ad un certo punto, ma questo non lo obbliga a sostenere la tradizione freudiana del padre nella psicoanalisi. E questo si concretizza nell’assioma: “Del nome del padre si può fare a meno a condizione di servirsene”. È un altro modo di dire che si tratta di essere, come Joyce, eretici nel modo giusto.
La clinica lacaniana offre agli esseri parlanti, uno per uno, la possibilità esplorare il carattere singolare della mancanza del padre, fino a estrarre la logica del sinthomo. È un invito a smettere di credere nel padre per credere in ciò che ognuno ha creato, in ciò che si è inventato nel quadro della sua falla, come risposta a questa. È un invito a usare del proprio sinthomo, a sostenersi su esso per muoversi, per ottenere rispettabilità, per riuscire a situarsi in un discorso. È il sinthomo-roule, el sinthomo eretico, che si distingue, seguendo Miller, del sinthomadaquin, che gioca sull’equivoco con San Tommaso d’Aquino, la cui teoria estetica fu valorizzata da Joyce come base della sua dottrina sull’artista.
Miller differenza, il sinthomo slegato dalla struttura e preso nel suo reale, da quello che considera il sinthomo ortodosso, perché lo innalza a parvenza, lo rende manichino, velato dagli accessori: il buono, il bello, il vero. Il primo, invece, il sinthomo-ruota-che-ti-spingo priva il sinthomo del suo madaquinismo, della sua idealizzazione, della sua sublimazione. Ciò non impedisce che il corpo implicato voglia elevarsi con l’opera d’arte a un S.K. Beau. 
 L’etica del seminario si accompagna con una estetica della lettera.
Ezer kegnedo
L’eresia lacaniana si completa con una trovata formidabile nel testo del Genesi. Nella Bibbia leggiamo: ” L’uomo ha dato nome a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e a tutti gli animali dei campi, però per l’uomo non trovò un aiuto adatto a lui”. La Creazione, dice Lacan, è chiamata divina solo perché si riferisce alla denominazione, che si raddoppia con la chiacchiera del parlêtre. Eva, L’Evie, che in ebraico significa la madre dei viventi, usa la chiacchiera per parlare con il serpente, successivamente designato come mancanza, il sin, il primo peccato, la funzione fallica, che svolge la funzione di limite, perché manca, è necessario il “non devi”. In questo si rivela la logica della cosa, perché per orientarci nella struttura abbiamo bisogno della negazione, un impossibile che ordini il possibile. Se tutto è possibile, il godimento diventa erratico, porta al delirio.
Secondo la traduzione di Andrè Chouraqui – nella cui si riferisce Lacan – il testo dice qualcosa molto diverso: “Dio crea un aiuto contro di sé”: ezer kegnedo. Da questo passaggio Lacan estrae una nuova definizione del pensiero, l’apensiero, derivato della tesi che, in realtà, si pensa contro un elemento che prende il valore di reale. La donna come oggetto a è, quindi, un prodotto del discorso, e la sua funzione reale avviene con questa operazione. La donna resiste al pensiero poiché non c’è un significante per La donna.
Un nuovo cogito ironico si enuncia nell’equivoco: Je le panse, (omofono a je le pen-se, donc je le suis), donc je l’essuie: “Io lo guarisco, quindi lo sudo”. Questo pensiero infatti, – sorto dall’esperienza dell’inconscio, non prodotto dalla contemplazione, né dall’armonia tra l’essere e il pensiero, ma che si annuncia come risultato di un sapere che stenta ad arrivare – resiste al pensare. Da qui nasce il suo valore, quando può essere nominato qualcosa di questo reale.
Il nodo funziona, su questo piano dell’apensiero, come ostacolo e, al tempo stesso, come sostegno. È un miscuglio di oggetto e ostacolo che Lacan nomina obsjet. Si inaugura così un nuovo sapere che Lacan denomina folisofia, “meno sinistra del cosiddetto Libro detto della Sapienza contenuto nella Bibbia, sebbene questo sia dopotutto il meglio che si possa fare per fondare la sapienza sulla mancanza, che è l’unico fondamento che essa possa avere”.
Sorprendente è la nuova definizione dello psicoanalista: “È un aiuto che può considerarsi come l’inversione dei termini del Genesi, l’ipotesi dell’inconscio si sostiene su questo buchino solo se può fornire un aiuto. L’ipotesi dell’inconscio, come sottolinea Freud, solo può sostenersi se si suppone il Nome del padre. Supporre il Nome del padre, è Dio”.
In francese no (come negazione) ha lo stesso suono di Nom (come nome). Il “buchino” è la mancanza che, si suppone, deriva della proibizione paterna. La negazione, cui operazione fonda il simbolico per il soggetto, coincide con l’operazione del nome del padre. “… la psicoanalisi prova che del Nome-del-Padre si può fare a meno”. 
 Se il Genesi conclude istituendo il Padre, Dio, lo psicoanalista aiuta a concludere la sua destituzione metodica fino a arrivare all’A barrato, fino a mostrare il suo carattere di finzione, intessuta come un bordo, come un ricamo del reale. Il nome limita, fa buco nella massa informe del godimento.
Lo psicoanalista lacaniano deve poter sostenere questa corda con fermezza, è ciò che lo lega alla logica della struttura, per legarsi alla sapienza della falla, che rende possibile l’orientamento verso il reale, verso il modo della falla singolare che abita il sinthomo di ciascuno. Occorre tenersi a questa corda che è, in realtà, un buco, per non sbandare versi altri discorsi, per non coprire la falla con il senso. Questo,  infatti, dice Lacan, porta a farfugliare , a scivolare nel bla bla.
La clinica continuista, la clinica del sinthomo, presuppone si prendano in considerazione le strutture per aiutare il soggetto a orientarsi nella struttura. Il sinthomo, nella nevrosi, è il risultato delle analisi che durano, secondo gli sviluppi di Miller in Sottigliezze in psicoanalisi (Choses de finesse en psychanalyse). Lo sappiamo dai testimoni della passe. La nevrosi è una struttura consistente e ci vuole un lungo percorso perché le finzioni possano costruirsi e ridursi. Ci vuole tempo perché possano operare i necessari spostamenti nel godimento, la sua riduzione. L’inconscio stesso assumerà carattere di finzione nell’ultimo insegnamento di Lacan. Il concetto di finzione o parvenza allude a una fabbricazione , sul piano della poiesis, della produzione, del fare.
 Finzione simbolica che il soggetto costruisce a partire da che cosa? Dal reale, il godimento opaco, ciò che non ha struttura di finzione.
Arrivati al nocciolo, al modo del godimento più particolare, si tratta di spegnere la sete di senso del sintomo. Nel caso dell’isteria, spegnere la sete del padre, per riuscire a destituirlo nel modo giusto.  A differenza della psicosi, infatti, nella nevrosi la difesa rivela la credenza nel padre, e si coltiva piuttosto la sua impotenza, la sua idealizzazione, il suo disprezzo.
“Il sinthomo è ciò che rimane una volta interpretato, una volta attraversato il fantasma, una volta che è conquistato il disessere. Il sinthomo non è dialettico, rappresenta, ripercuote il Una sola volta, e quando è colto, appare che la totalità è uguale a una delle parti”. (Miller Corso del 04/05/2011).
In definitiva, il sinthomo è il nome più proprio perché è il nome del godimento. È l’antitesi della certezza fantasmatica di chi afferma: “Sono come sono” istituendo così l’essere, trionfo della difesa per cui il sintomo si manifesta egosintonico all’io, come dimostrò Freud.
La psicoanalisi ci aiuta a abbandonare l’opposizione al reale, al godimento, il cui rifiuto riporta solo  sofferenza e costituisce, dunque, un notevole svantaggio come fonte di felicità, cioè, come risorsa per realizzare la nostra finalità vitale” (Freud, Il disaggio nella civiltà.)
Per concludere, riprendo le parole di Freud nelle quali trovo l’essenziale dell’etica che orienta la nostra clinica del sinthomo.
“La felicità, considerata in senso limitato, la cui realizzazione sembra possibile, per ogni individuo è semplicemente un problema di economia libidica. Nessuna regola, al riguardo, vale per tutti; ognuno deve cercare il proprio modo di essere felice. La scelta del cammino da seguire sarà influenzata dai più diversi fattori. Tutto dipende dalla quantità di soddisfacimento reale che ci si può aspettare dal mondo esterno e dal grado d’indipendenza rispetto a esso e, per finire, dalla forza di cui l’individuo dispone per modificarlo secondo i propri desideri.” (Sigmund Freud: Il disagio nella civiltà).
Vilma Coccoz
Traduzione di Florencia Medici

giovedì 2 febbraio 2012

Richiesta di riapertura delle linee guida su ‘Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti’


Il 26 gennaio sono state presentate a Roma le linee guida per l’autismo che raccomandano alle Regioni, come unico strumento terapeutico, l’adozione della tecnica neo-comportamentale ABA (Applaied Behaviour Analysis) derivata dal metodo Lovaas.
Nella metodologia utilizzata dal panel sono stati presi in considerazione unicamente gli studi appartenenti all’ambito neo-comportamentale a favore del metodo ABA, soprattutto in Scozia e negli Stati Uniti, escludendo tutta la bibliografia riguardante approcci diversi sia delle stesse nazioni che di altre. Sono state, quindi, escluse tutte le esperienze cliniche italiane ed estere che si rivolgono all’individuo nella sua complessità e che utilizzano metodologie diverse per validare i propri studi. Da ciò deriva, ovviamente, il fatto che in ambito clinico si imporrà l’attuazione di una sola linea di trattamento senza possibilità di scelta né da parte del paziente, né dell’operatore.
Tale posizione unilaterale, totalmente carente sia sul piano scientifico che su quello clinico, non appare adeguata ad affrontare un problema complesso come quello rappresentato dall’autismo e non tiene conto della pluralità che anima lo scenario culturale.
Appare irrispettoso, oltre che scorretto, escludere dal dibattito tutti gli approcci diversi da quello neo comportamentale, definendo scientifico il solo metodo preso in esame perché utilizza strumenti di tipo quantitativo e parcellizzato che consentono più facili catalogazioni.
Senza entrare nel merito delle carenze riscontrabili nella metodologia utilizzata e apprezzando comunque l’intento di fare un po’ di luce su una situazione clinica tanto discussa, è doveroso riaprire il dibattito per includere i recenti risultati della ricerca nell’ambito della psicologia dell’età evolutiva che pongono l’affettività alla base dello sviluppo cognitivo e per consentire a tutte le autorevoli voci scientifiche italiane di esprimere la propria posizione teorica e clinica in materia di autismo.
E’ inoltre fondamentale affrontare e non eludere il problema della diagnosi per poter accertare la reale presenza del disturbo, le sue diverse manifestazioni e la gravità della sintomatologia all’interno della disomogenea categoria dei disturbi dello spettro autistico. Ciò al fine di identificare l’intervento più proficuo in base alle potenzialità del singolo bambino e non agli strumenti dell’operatore e per definire realmente l’efficacia della terapia, tenuto conto che modalità diagnostiche non omogenee non consentono conclusioni scientifiche adeguate.
Se non si apre un dibattito che favorisca un confronto tra i vari approcci teorico-clinici, si assisterà all’esercizio di un monopolio che minerà alla base la libertà dell’operatore di scegliere la cura in base al proprio orientamento e alla gravità del disturbo, e quella del paziente di condividere il progetto terapeutico.
In riferimento a tutto ciò, viste le dichiarazioni rilasciate da molti esponenti del mondo scientifico e in considerazione di tutti gli anni che la nostra formazione, sia pur nella sua diversità, ha richiesto, abbiamo deciso di non far passare inosservato tale avvenimento e di chiedere lo stesso rispetto per tutte le altre linee di pensiero che tanto hanno contribuito all’evoluzione di costrutti teorici e al raggiungimento di risultati clinici.
Tale unità di intenti, che sappia andare oltre la singola specificità per garantire un approccio completo all’individuo, si rende necessaria in questo momento storico non solo per l’autismo ma anche per tante diverse patologie che si troverebbero ad essere affrontate con la stessa unica tecnica validata con la medesima modalità.
Per avviare il procedimento di riapertura delle linee guida si richiedono, dunque, i consensi di tutti coloro che, pur nella specificità della propria formazione, riconoscono la centralità degli affetti, delle emozioni e della relazione nello sviluppo e nella strutturazione di una patologia tanto complessa.