venerdì 11 maggio 2012

La monotonia del sintomo e le invenzioni della cura – Lezione del 17 marzo 2012


Prima parte
Vi parlerò del Seminario XXIII, dandovene un percorso, per come vedo il seminario di Lacan su Joyce. Questo seminario segna una trasformazione nella clinica di Lacan, o trae le conseguenze di una sua evoluzione che va dal Nome-del-Padre ai Nomi-del-Padre, al plurale, e viene infine ampliata al Sinthomo. Il Nome-del-Padre sapete cos’è: Lacan lo definisce nel Seminario III, e soprattutto in “Su una  questione preliminare”. J-A. Miller ha dato una formula semplificata della metafora paterna: la metafora paterna consiste nel fatto che un significante del padre barra il godimento. Barrare il godimento significa barrare il godimento dell’Altro, quello che nel seminario Lacan chiama il godimento della madre. Il desiderio della madre va regolato nella misura in cui funziona fuori norma, fuori luogo. Il Nome-del-Padre è il significante che regola il desiderio dell’Altro. Alla fine di questa operazione restano per il soggetto “frammenti di godimento”, che Lacan scrive “a” minuscola, ma è un godimento completamente inserito nel significato fallico. Il Nome-del-Padre costituisce quindi una “clinica binaria”: o per il soggetto è inscritto,  e ci si trova nella nevrosi, oppure non si è inscritto, e ci si trova nella psicosi, dove il significato non è “ancorato”. La funzione paterna ha infatti l’effetto di ancorare il significato per il soggetto. Nella psicosi manca proprio questo ancoraggio. Ci muoviamo dunque all’interno di una clinica binaria.
Quando parliamo invece di Nomi-del-Padre, al plurale, quel che si pluralizza è la funzione del padre. Se ci pensiamo, il padre come significante è uno, ma come funzione è piuttosto molteplice. Quali sono le funzioni del padre? C’è in particolare la funzione di “dare un nome”, di “denominare”. C’è poi la funzione di denominare i “godimenti legittimi”. Si possono quindi declinare diverse funzioni del padre, e quando Lacan parla dei Nomi-del-Padre – faccio mia un’osservazione di Laurent che trovo molto pertinente – parla di una pluralizzazione della funzione. Lacan ne offre un bell’esempio ne “Il risveglio di primavera”, una piece  teatrale di Wedekind, dicendo che l’Uomo Mascherato – personaggio che appare alla fine della storia – è un Nome-del-Padre. Di quest’Uomo Mascherato si può dire  che, cosa piuttosto originale, l’autore gli dedica la propria piece, facendone un nome proprio, e Lacan lo sottolinea. Cosa fa l’Uomo Mascherato nel testo di Wedekind? Il testo racconta una storia dove alcuni adolescenti scoprono la sessualità incontrando, come succede a tutti, momenti felici o infelici. Alla fine uno degli adolescenti sta per suicidarsi, mentre un altro l’ha già fatto. Sta per suicidarsi di fronte al proprio senso di colpa e di fronte alle difficoltà del legame sessuale. È a questo punto che sul suo cammino appare l’Uomo Mascherato. Il modo in cui l’Uomo Mascherato interviene è molto semplice. Prima dice a Melchiorre, l’adolescente in questione: «Stai tremando, non sei in grado di giudicare se va bene per te suicidarti oppure no». Poi aggiunge: «Prima di decidere è bene tu abbia consumato un buon pasto caldo». Al che Melchiorre risponde: « Non sarà una cena a restituirmi la voglia di vivere». L’Uomo Mascherato replica: «Dipende dalla cena». Sembra un po’ ridicolo, fa un po’ sorridere, ma che cos’è una figura paterna? È l’uomo che sostiene la vita, e soprattutto il desiderio. Sostiene quel che potremmo chiamare “i godimenti legittimi”. Lacan, beninteso, propone altre cose che non mangiare, ma questo breve esempio basta a cogliere una delle funzioni del padre, che non è di introdurre la legge, ma piuttosto di introdurre al desiderio, denominando il godimento, aiutando il soggetto a tradurre ciò in cui è preso. Quando dico tradurre ciò in cui è preso, non è più la stessa cosa che un significato universale, non è il significato fallico. È, piuttosto, ogni volta, il significato dei godimenti in gioco in quel momento, è la loro traduzione. Un testo di Eric Laurent, uscito nei Feuillets du Cortil, si intitola: “Trattamento delle psicosi”. Laurent parla dello “sforzo di traduzione”, di uno sforzo incessante di tradurre il godimento che sorge per il soggetto. La pluralizzazione delle funzioni del padre riguarda in particolare proprio questo. Con il seminario XXIII la pluralizzazione si estende al sintomo. A partire dal seminario XXIII Lacan considera che il Nome-del-Padre può essere sostituito da qualcos’altro, che è la metafora delirante. Il Nome-del-Padre è la metafora paterna, e Lacan che, come Freud, considera il delirio come un processo di guarigione, chiama il delirio metafora delirante. 
Grazie a questa semplice espressione capiamo che il delirio viene al posto del pezzo che manca. Quando ascoltate uno psicotico che delira ciò è abbastanza evidente: il suo delirio serve a ristabilire un significato. Tutto il delirio di Schreber può essere letto in questo senso: si tratta di ristabilire i significati del mondo e del suo rapporto col mondo, e con il seminario XXIII non è più soltanto la metafora delirante a venire al posto del Nome-del-Padre. Nel caso della pluralizzazione sono tutta una serie di figure paterne che possono venire a questo posto, e con il seminario “Il sinthomo” è un sintomo, particolare per ciascuno, che può venire al posto del Nome-del-Padre per ancorare il significato del soggetto. 
Dove prima si aveva una clinica binaria, nevrosi o psicosi, abbiamo ora invece una clinica modulata, una clinica che potremmo chiamare “continuista”. C’è tutta una serie di aggiustamenti, di bricolage possibili, al posto del Nome-del-Padre, e il limite tra nevrosi e psicosi si cancella un po’. Non bisogna però cancellarlo completamente, credo che la ripartizione sia da prendere piuttosto in modo dialettico. Un po’ si cancella perché ciascuno trova il bricolage che serve alla propria esistenza. Al tempo stesso però, è diverso se questo bricolage è fatto con il padre o con un sintomo al di fuori del padre. Si tratta di introdurre nella clinica un po’ di sfumature, perché da una parte possiamo considerare che qualsiasi bricolage va bene, ma dall’altra c’è comunque una differenza. È una contraddizione perfettamente sopportabile. 
Ne avete un esempio nel testo di J-A. Miller sulla psicosi ordinaria, testo che è stato pronunciato in inglese nel seminario anglofono a Parigi qualche anno fa, che è stato pubblicato in francese in un numero di Quarto sulla psicosi ordinaria e che è stato tradotto anche in italiano. In questo testo potete vedere che, malgrado Miller presenti una posizione continuista, sottolinea tuttavia che in rapporto alla psicosi ordinaria bisogna porsi la questione di una diagnosi differenziale rispetto alla nevrosi. In questo testo Miller si chiede quali siano le condizioni per dire che cos’è una nevrosi, quando ci si trova con una nevrosi. Fra le varie condizioni ne ricordo in particolare due: in primo luogo occorre rilevare un segno di castrazione, o di impotenza, o di impossibilità, occorre cioè rilevare un segno che c’è una barra; in secondo luogo bisogna vedere che il Nome-del-Padre dia testimonianza di essere presente. Miller aggiunge che non si tratta di constatare uno dei Nome-del-Padre, ma il Nome-del-Padre. 
Vedete quindi, in fondo, che qui c’è una posizione dialettica: da una parte occorre verificare che si tratti di nevrosi, e per diagnosticare una nevrosi bisogna trovare gli effetti del Nome-del-Padre. Non vediamo infatti direttamente il Nome-del-Padre, ma ne vediamo gli effetti. Al tempo stesso la posizione di Miller è continuista, perché i bricolage possono svolgere la stessa funzione. Nel seminario XXIII Lacan disegna il nodo borromeo. In Italia non si può non conoscere il nodo borromeo perché è il blasone di una grande famiglia italiana, la famiglia dei Borromeo.
Cosa c’è nel nodo borromeo? Quale idea persegue Lacan quando lo introduce? Lo introduce per far vedere che le consistenze Reale, Simbolico e Immaginario sono annodate, che stanno insieme; ed è questo, farle stare insieme, quel che fa il Nome-del-Padre. Cosa vuol dire? Vuol dire che il simbolico e l’immaginario stanno insieme, e vuol dire anche, per dirla in modo semplice, che c’è un ancoraggio tra il significante e i significati. Che il reale sia annodato vuol dire che è limitato e localizzato, che è circoscritto dall’annodamento, dalle sue “traduzioni” nell’immaginario e nel simbolico. Quel che appare a Lacan, con la lettura di Joyce, è però che nel nodo, se ci sono tre consistenze, c’è quanto meno anche una quarta funzione, consistente nel fatto che il nodo è annodato. È la funzione borromea in quanto tale, la funzione di essere annodato. 
Lacan dall’inizio del seminario descrive il nodo a quattro, che consiste soltanto nel mostrare l’annodamento. Ci sono per un verso le tre consistenze che non sono annodate: Reale, Simbolico e Immaginario. Lacan introduce allora una quarta consistenza per scrivere il nodo in quanto tale, per scrivere la funzione di annodamento. Ne risulta il nodo a quattro, e il quarto anello ha come unica funzione quella di annodare gli altri anelli. Il quarto anello Lacan lo chiama Sintomo.
Nel nodo a tre il fatto che sia annodato vuol dire che le tre consistenze sono ancorate, agganciate l’una a l’altra. Questo implica che il significato fallico sia al suo posto, che il significato funzioni. Separare i tre anelli, facendo sì che l’annodamento avvenga attraverso un quarto anello, permette di scrivere il fatto che  l’annodamento potrebbe avere più di una forma. Detto altrimenti: l’annodamento può fallire in diverse maniere, e quando riesce, si ha la situazione ideale. Il sintomo è il padre, Lacan lo dice dall’inizio del seminario, e lo ripete in diversi punti. A pag. 19 dell’edizione francese “[…] il padre è un sintomo […]”, più avanti dice “[…] il complesso di Edipo in quanto tale è un sintomo […]”.
  
L’annodamento attraverso il quarto anello è quindi il padre stesso. Il padre è un sintomo, ma se non è inscritto, altri sintomi possono venire al suo posto. 
In Joyce, per esempio, dove il nodo fallisce, dove il nodo si scioglie, quel che viene al suo posto è un evento di corpo, ed è soprattutto il suo lavoro di scrittura. Ci sono però altre situazioni oltre a quella di Joyce. Ne trovate alcuni esempi nello stesso volume di Quarto sulla psicosi ordinaria, dove si discute un caso di un uomo che aveva dolori di tipo “monosintomatico”.  Aveva dolori monosintomatici, impossibili da eliminare. In questo caso i dolori apparivano come un evento di corpo che faceva tenere il rapporto del soggetto con il mondo. Che cos’è in un caso simile l’evento di corpo? È qualcosa che si verifica soprattutto in forma monosintomatica. Il sintomo che colpisce il soggetto gli serve in fondo a leggere il proprio significato nel mondo, o i significati del mondo.  
A partire da un monosintomo si può costituire una comunità, negli USA accade spesso. Conosciamo bene il fenomeno anche qui. C’è stato tutto un movimento in Italia a partire dall’anoressia. Non è stato solo in Italia, ma è stato in particolare in Italia, dove c’è una associazione di anoressiche che funziona come una comunità. In questi casi gli americani sono particolarmente forti: alcuni hanno innalzato il caso della sordità, di chi ha difficoltà di udito, al rango di monosintomo. Si costituisce allora una comunità di sordi, e poiché si comunica attraverso i segni si forma un’altra cultura, che è poi da proteggere. La comunità dei sordi è allora una comunità culturale, una comunità di significati. Alcuni spingono le cose talmente in là, fino a proporre che sordi per cause genetiche si sposino tra loro per essere sicuri che i bambini siano a loro volta sordi, per perpetuare l’esistenza della comunità. Questi esempi mostrano come un monosintomo possa venire al posto di quel che dà i significati al mondo e il posto al soggetto. In questo caso sono proprio gli eventi del corpo a essere partner del soggetto. 
Per Joyce il partner è piuttosto un moto di scrittura, anche se Joyce ha incontrato tuttavia un evento di corpo particolare: si tratta della famosa sequenza raccontata ne “Il ritratto dell’artista da giovane”  
Faccio un breve inciso a proposito de “Il ritratto dell’artista da giovane”
. Vorrei, con Lacan, fare due osservazioni su questo titolo. Nell’espressione the artist, il “the” in inglese, è più forte che l’articolo definito in francese, e anche in italiano. Se in inglese diciamo “the artist”, parliamo dell’Artista, con la a maiuscola. Si tratta , in un certo senso, dell’unico artista. In altri termini l’espressione diventa quasi un nome proprio, basta solo la presenza dell’articolo. “As a young man” è un “come se”, evoca cioè la dimensione di una personalità limite, di una personalità nel senso dell’io, vale a dire dell’immaginario, dell’io corpo o “dell’immagine corpo”, per esprimersi come Dolto. Vale a dire che il “come se” riguarda il rapporto del soggetto con il proprio corpo e con l’immagine del proprio corpo. 
È proprio ciò di cui si tratta nel breve evento di corpo che capita a Stephen, l’eroe di questo breve romanzo, che è Joyce. Sta con alcuni compagni all’uscita di scuola e si parla di poesia. Quando si legge questo dettaglio appare come qualcosa difficilmente situabile nella nostra epoca: vedete nel romanzo una banda di adolescenti che discuto e litiga su dei poeti e degli scrittori; si fa fatica a immaginare degli adolescenti oggi che discutano e si picchino su questioni di poesia e di scrittura. Potremmo immaginarlo però con delle star della canzone.  A questo punto Stephen viene attaccato dai compagni perché lui considera che Byron è un grande poeta, e gli altri gli dicono: «[…] ma Byron è un eretico», «[...] non me ne importa […]», risponde Stephen: «[…] è la stessa cosa che sia eretico, tu sei un eretico[…]». A questo punto Stephen viene preso, picchiato, buttato contro un cancello avvolto di filo spinato; i compagni gli intimano di dire che Byron non valeva niente, lui nega più volte. Allora lo picchiano e poi lo lasciano lì, sul lato della strada. 
Sono cose che capitano anche oggi tra gli adolescenti, piccole risse. Non è questa la cosa particolare, la cosa significativa è invece il modo in cui Joyce-Stephen l’eroe qui rappresentato, prova l’esperienza nel momento subito dopo. Nel momento successivo pensa a quello che è accaduto, il senso dell’episodio gli torna in mente continuamente, non ne ha dimenticato nessun particolare, ma non riesce a prendersela con quelli che lo avevano torturato, non sente nessun affetto nei loro confronti, positivo o negativo. Non prova collera, e subito si dice che le descrizioni dell’amore e dell’odio che ha letto in alcune opere sono prive di realtà. Quel che è capitato al suo corpo lo lascia senza alcun affetto, e per di più, tornando in modo titubante in sé, sente «[…] una certa potenza spogliata, spogliata di questa colera istantanea subito tessuta». Si è quindi spogliato immediatamente di questa collera, come un frutto si spoglia della propria buccia. Lacan fa di questo episodio un piccolo evento di corpo, e vorrei dire una parola sull’eretico prima di tornare al corpo. 
Lacan sottolinea la dimensione dell’eretico e dice in sostanza: « Joyce in effetti era un eretico […]» e aggiunge: «[…] come me». Perché lo fa? Che cos’è in fondo un eretico? Lacan dà una definizione dell’eretico che trovo formidabile: l’eretico è quello che sceglie la propria via per riprendere la verità. Se ci pensiamo è proprio così: il non eretico è quello che segue la via della verità detta dall’altro. Questo è al fondamento dei principi della Chiesa. C’è un’eresia quando voi stessi volete cercare la verità per un’altra via. È ciò che ha costituito il punto di rottura con i protestanti, che in fondo volevano solo tornare ai testi originari della Bibbia. Avevano un lato un po’ fondamentalista, nel senso buono del termine. “Torniamo ai testi”, dicevano, ma era una posizione eretica, perché sceglievano una nuova via per riscoprire la verità. Joyce, in fondo, è radicalmente un eretico perché sceglie una sua via per riprendere la verità. In realtà, la verità la distrugge, ma è un’altra questione. 
Notate che lo psicoanalista è fondamentalmente un eretico, perché in ogni cura sceglie una via specifica per riprendere la verità. Lo psicoanalista non fa come Lacan. Citerei piuttosto questa frase di Lacan che dice: «[…] fate come me, non imitatemi», cioè scegliete ogni volta la vostra via per la verità. 
Torno al fenomeno di corpo di Joyce. Qual è il fenomeno di corpo? È che la sua immagine, il suo io-immagine, resta confusa. Questa immagine, dice Lacan, non va senza comportare degli affetti, ma si stacca da lui. Gli affetti se ne staccano. Il momento subito dopo essere stato picchiato non riesce più a provare collera, e l’immagine progressivamente si stacca da lui, come la buccia da un frutto, con una sorta di “reazione di disgusto”, dice Lacan. In questo Lacan vede il segno di un “lasciar cadere il corpo proprio”, vede in Joyce una difficoltà con l’Ego. Per dire l’“Io” Lacan qui usa il termine “Ego”. l’Ego è narcisistico, ma al tempo stesso è quel che dà l’idea di sé come corpo, cioè che “attacca” il soggetto al corpo. In questa breve scena si vede che il soggetto Joyce si stacca dal corpo. Parliamo del soggetto Joyce che ha i suoi pensieri, il soggetto che si formula attraverso i pensieri, che si dice qualcosa di quello che ha vissuto. Quindi si stacca dal corpo come immagine, ed è quello che Lacan chiama il fallimento del nodo in Joyce. L’immagine non è più annodata al simbolico, è un’immagine del corpo che “si slega”. 
Joyce tuttavia non diventa completamente psicotico, non delira. Il collegamento tra l’immaginario e il simbolico, tra quello che chiamavo il corpo e il soggetto, che in questo momento si separano, è quello che J-A. Miller situa nell’incontro tra la lingua e il corpo. L’incontro tra la lingua e il corpo è quello che costituisce l’Ego. Joyce reagirà dunque a questo incontro con un lavoro di testi, un lavoro di scrittura. Prima di entrare nei meccanismi di questo lavoro vorrei fare un’osservazione a proposito di Joyce e dell’autismo.
Sapete che sono molto coinvolto attualmente, come molti altri francesi d’altra parte, nelle polemiche sull’autismo - ci torneremo forse nel dibattito più tardi - e quindi necessariamente l’autismo è un po’ il mio sintomo del momento. Quando leggo il seminario Joyce penso dunque al tempo stesso un po’ all’autismo. Senza questa contingenza non ci avrei pensato, ma stante la situazione mi sono chiesto: quale è la differenza tra Joyce e un autistico? Joyce è psicotico, su questo non c’è dubbio; ma quale è la differenza con l’autismo? Anche gli autistici costruiscono dei sintomi, e quando non ci riescono da soli vengono a trovarci. L’essenziale di quel che si può fare con loro è aiutarli a costituire dei sintomi, o aiutarli, a volte, a sostenere il sintomo che costruiscono. 
Avete qualche esempio degli autistici con grandi prestazioni, gli Asperger, che spiegano bene il loro sintomo. C’è per esempio Temple Grandin con la sua “macchina di contenimento”. Questa persona, autistica, ha fatto una scoperta in una fattoria di famiglia negli USA, se ricordo bene da sua nonna. C’erano delle mucche e ha si è accorta che non era facile calmarle quando si portavano al mattatoio. Quando si portano le mucche al macello è però lo stesso problema di quando si portano al posto dove vengono marchiate. La mandria viene condotta in un posto che si restringe man mano, finché entra in un corridoio più stretto dove le mucche passano una a una. Temple Grandin ha notato che quanto più le mucche entravano nel corridoio dove erano più contenute, tanto più si calmavano. Nel momento in cui la mucca arriva al punto finale, poco prima di morire, è completamente calma, perché ben contenuta tra due barriere. Temple Grandin ha avuto allora l’idea di costruirsi una macchina di contenimento per riuscire a calmarsi lei stessa, e ha funzionato. Il suo lavoro non si limita a questo perché dopo ha fatto un grosso libro, completamente delirante, in particolare sul rapporto tra le mucche e Dio. L’essenziale è però vedere come è riuscita a individuare un evento di corpo utilizzabile, una macchina che permette di delimitare il corpo.
Cosa vuol dire in fondo “essere senza Ego”? In Joyce vuol dire uno scollamento tra il soggetto e il corpo, ma per certi schizofrenici, ebefrenici, è uno “scollamento” di tutti i pezzi del corpo, è “l’esplosione” del corpo; in altri casi è la presenza di un doppio, è dell’incertezza di “dove si trovi il corpo”. Sono tutte forme comunque di scollamento tra il soggetto e il corpo. C’è lo straordinario esempio del poeta Gerard De Nerval che racconta il proprio delirio in Aurèlia - è il solo delirio raccontato in poesia - dove spiega bene come, portato all’ospedale, ha visto gli amici che venivano a trovarlo e hanno sbagliato corpo: sono andati a parlare con un altro e poi sono andati via con l’altro. Lui cercava di gridar loro: vi sbagliate, sono qua io… Sono tutti fenomeni dove vedete come il soggetto resti staccato dal proprio corpo: possiamo cercare altri esempi. Per esempio Prost, il pilota di auto, che è venuto alle giornate dell’École due o tre anni fa, ha spiegato come il suo collega e rivale Senna era completamente pazzo, perché Senna gli diceva: vincerò io perché nella corsa io non sono in macchina, io sono sopra. Poi alla fin fine si è ammazzato. 
Conosciamo bene tutti questi fenomeni di “scollegamento” tra soggetto e corpo, e il sintomo serve a rimetterli insieme. Per Temple Grandin si trattava di costruire una macchina che tiene insieme il corpo, che dà una certa unità al corpo con delle barriere, e si collega a tutto un significato delirante che può aggiungersi a questa pratica. C’è tuttavia una grande differenza tra Joyce e gli autistici: Joyce crea un’opera. Anche Temple Grandin realizza un’opera in forma di macchina, ma la differenza verte sull’enigma: per gli autistici l’enigma è ridotto. L’enigma principale per ciascuno è l’enunciazione, l’enigma principale è: “Chi l’ha detto?”, “Perché hai detto così?”. Gli autistici cercano di delimitare l’enunciazione. Su questo si possono leggere dei testi di Claude Maleval, che mostra bene la difficoltà che l’autistico prova nei confronti della voce, nella misura in cui la voce “porta” l’enunciazione. 
Ricordo di aver ricevuto nel mio studio un autistico ad alte prestazioni; quando l’ho visto era un ragazzino di diciassette anni, e riusciva in tutto. Riusciva bene a scuola, era al penultimo anno della scuola secondaria e solo a partire da quell’anno il francese cominciava a diventare un po’ difficile per lui. In Belgio infatti negli ultimi due anni i programmi riguardano soprattutto testi di poesia e letteratura. Fino a quel momento si era trattato di ortografia e grammatica, e in tutto quel che riguardava le regole lui entrava molto bene. Matematica e scienze erano perfette, e se aveva accettato di venire a vedermi era perché aveva due problemi. Il primo: molti ragazzi nella sua classe avevano una fidanzatina e lui no, e si domandava se fosse necessario averla, ed esprimeva con questo il suo imbarazzo. La seconda cosa che lo metteva in difficoltà era che nell’anno successivo avrebbe dovuto scegliere un corso di studi per andare all’università, e il fatto di dover scegliere lo metteva in grosso imbarazzo. Qui avete la testimonianza di una posizione che dice: “Soprattutto no all’enunciazione”. Tutto quel che riguarda le regole, la matematica, va benissimo. Analizzare un testo letterario richiede invece di metterci un po’ della propria enunciazione, e questo per lui era più difficile. Fare una scelta implica un’enunciazione, e questo gli sembrava insuperabile. Per quanto riguarda le ragazze poi, si tratta del massimo dell’enunciazione dell’altro, e implica quantomeno la domanda: “Cosa vuole da me?”. Si vede bene quindi qui la riduzione massima dell’enigma, e l’ho visto solo qualche volta d’altra parte. Per quanto riguarda le ragazze gli ho detto subito che non era necessario, che nel mondo di oggi non è assolutamente necessario. Oggi ci sono mille modi di essere normale: eterosessuali, omosessuali, asessuati, sono tutti modi che vanno bene.
Il mondo di oggi aiuta un ragazzo così a normalizzarsi. Penso che sua madre si fosse in parte preoccupata perché non aveva fidanzatina. Glielo ho detto di fronte alla madre e penso che questo abbia molto tranquillizzato tutti. L’ho visto due o tre volte, ma vedo ogni tanto la nonna, dopo ancora cinque anni, e so che da questo punto di vista è completamente calmo, non ha bisogno di ragazze. Si tiene a distanza dall’enunciazione più difficile, quella del desiderio dell’altro. Per quanto riguarda la scelta degli studi era un po’ più complicato, ma ha deciso di orientarsi sulla stessa via del padre, che era uno scienziato di buon livello. L’ho visto una volta e, francamente, devo dire che è autistico anche lui, stando al modo in cui si presenta. Sviluppo questi aspetti per mostrarvi come nell’autismo il fatto  cruciale è mettersi a distanza dall’enunciazione, si tratta cioè di evitare l’enigma enunciativo. 
Joyce, invece, nel suo lavoro fa il contrario. Joyce è per eccellenza lo scrittore dell’enigma. Lacan lo afferma nel seminario: l’enigma è una questione di enunciazione, l’enunciazione è l’enigma portato alla potenza della scrittura. Joyce è quindi per eccellenza lo scrittore dell’enigma. 
Come fa Joyce? Come si fa un sintomo e in cosa consiste il suo lavoro di scrittura? Per svilupparlo partirei da un’osservazione di J-A. Miller, in un testo che si chiama “Joyce il sintomo”, uscito in italiano ne La Psicoanalisi. L’osservazione di Miller è questa: non ho mai sentito qualcuno dire “Joyce mi angoscia”. O interessa o lascia indifferenti, annoia, addormenta, ma non angoscia. Ci si può a volte angosciare di non riuscire a capire il testo di Joyce, perché noi vogliamo cercare di capirlo, ma il testo di Joyce, di per sé, non causa angoscia. Mi sembra un’osservazione molto azzeccata, e mi domandavo: cos’è che nella letteratura provoca angoscia? È quando ci si può un po’ identificare. Ricordo di aver letto Dracula, quello vero, quello di Bram Stoker, quando avevo diciotto anni. Lo leggevo di sera e poi mi infilavo a letto. Più volte ho fatto degli incubi. La letteratura può angosciarvi, è così; ma non Joyce. 
In Joyce c’è infatti un fenomeno letterario molto particolare: è impossibile identificarsi. Qui, parlando della scrittura di Joyce, parlo essenzialmente di Finnegans Wake, come Lacan e come Miller. Certo “Il ritratto dell’artista” non fa lo stesso effetto, lo si può leggere con interesse, con noia o essere un po’ angosciati, ma il punto di mira di Joyce, ciò a cui tende tutta la sua opera, l’opera della sua vita, è Finnegans Wake, è giungere a scrivere questo. Quindi quando parlo del lavoro di scrittura di Joyce, evidentemente, si tratta di Finnegans Wake. Per capire il lavoro di scrittura di Joyce pensiamo a che cosa è per noi la scrittura: il significante è equivoco. A partire dal suono si producono una molteplicità di sensi, e la scrittura è in grado di fissare il senso. Se, per esempio, dico in francese […]
: la prima frase dice che si mente nella propria lingua, la seconda che si gusta con la propria lingua. È la stessa parola, in francese come in italiano, che serve ad esprimere l’organo del gusto e il luogo per ciascuno della parola nella propria cultura. È dunque la scrittura che fissa il senso, la scrittura o la grammatica. I bambini, che non hanno ancora la scrittura, sono a volte perduti nel senso, spesso in modo divertente. Fuori scrittura perché? Ci sono persone che non scrivono, e allora è la grammatica che fissa il senso. 
In Joyce, al contrario, abbiamo una scrittura che non fissa l’equivoco, che non lo limita; è al contrario una scrittura del fonetico. La scrittura di Joyce dice tutti i sensi possibili, e così facendo resta un po’ fuori dal senso. È una scrittura che non fissa il senso, che non determina punti di ancoraggio. Per questo la scrittura joyceiana ha un certo effetto metonimico. Come funziona il procedimento joyceiano? A partire da una parola, Joyce cerca una serie di altre parole che la seguono, legate alla prima per vicinanza fonica e che producono, con questa, certi effetti di senso. Il senso ritorna poi sulla prima parola. È quel che Miller chiama:  costruzione di un neologismo puro. 
Prendo due esempi: il primo da Lacan, che nel seminario e nella conferenza si esercita ai giochi joyceiani. Abbiamo una molteplicità di sensi che si apre con un ritorno sul primo termine. C’è un gioco di scrittura che non fissa l’equivoco ma apre ancora più sensi che non il solo significante equivoco. Nessuno può angosciarsi, tutto quello che potete fare è chiudere il libro dopo qualche frase, perché ci vuole tempo per comprendere la molteplicità dei sensi, e ancora non si capiranno tutti, ci si potrà ritornare più volte. 
La scrittura normalmente fissa il senso, ma lo fissa sempre con un po’ di allusioni. Un testo letterario in parte è allusivo. Nella bellezza del testo c’è una parte allusiva che è il semidire della verità. In Joyce il senso invece non è allusivo, è piuttosto un iperdire, perché dice quanto più senso possibile, al punto d’essere una via singolare per la verità, per dirla tutta e quindi, alla fin fine, per non dirne nessuna. A questo titolo, Joyce realizza non soltanto una distruzione della lingua, come ha scritto Philippe Sollers. C’è in Joyce un’impresa di distruzione della lingua ma, al di là di questo, c’è anche un’antiletteratura. Secondo Miller Lacan pensava che Joyce sognasse di mettere fine alla letteratura, come Hegel ha messo un punto finale alla filosofia. Il sogno di Joyce era che dopo di lui non ci sarebbe stata più letteratura, poiché tutto ormai sarebbe stato detto in tutti i molteplici sensi possibili. Questo modifica profondamente l’esercizio della lettura. Leggere fa sempre entrare in un senso, e quando si legge un romanzo, nella storia, nel racconto, troviamo qualcosa che ci fa un po’ sognare. Con Joyce non ci sono sogni e non ci sono racconti, Joyce è da studiare per decifrarne la polifonia dei sensi. Non c’è angoscia se non ci sono sogni. 
Prendo una frase che è stata spesso commentata "Who ails tongue coddeau aspace of dumbillsilly?". Vediamo qui un’impresa di distruzione della lingua inglese. In questa frase non tutte le parole sono inglesi, ci sono alcuni neologismi, e non c’è nessuna parola francese. Se però leggiamo la stessa frase fonetizzandola in francese, allora prende senso: "Ou est ton caddeau, espece d'imbécile?" Che significa: dov’è il tuo regalo, razza d’imbecille? Si tratta di un gioco fonico interlinguistico, ma cosa significa? Secondo Miller si tratta del “regalo da imbecilli che turba la specie umana”, cioè il rapporto con la lingua, ed è  questa l’interpretazione giusta della frase. 
Per concludere, in cosa possiamo dunque dire che questo lavoro, l’opera di Joyce, è un sintomo? In primo luogo questo lavoro gli costituisce un nome proprio. Ho già evocato The Artist, possiamo dire anche che Finnegans Wake è il suo nome proprio. Lacan gliene dà un altro, Joyce il Sinthomo. Nella sua conferenza su Joyce dice: è il nome proprio di Joyce che gli do, e considera anche che Joyce ne sarebbe stato contento. Farsi un nome proprio è il progetto esplicito di Joyce, quando dice di voler ritrovare la coscienza increata della sua razza, cosa che evoca un Nome-del-Padre, l’idea forgiarsi un Nome-del-Padre increato. In fondo non gli riesce male, perché con il suo lavoro di scrittura, come dice lui stesso, darà da lavorare agli universitari per almeno trecento anni. Sicuramente ci è riuscito, li ha impegnati già da un pezzo e non è ancora finita. C’è quindi nell’impresa di farsi un nome proprio e nella scrittura qualcosa che fa di Joyce un nome nella letteratura, il nome di quello che definitivamente è diventato per noi. In secondo luogo si tratta di un lavoro che lo fa godere. Se ne hanno diverse testimonianze, e si può di tanto in tanto sorridere leggendo Joyce. Personalmente non sono mai arrivato a scoppiare dal ridere. In Joyce non ci sono davvero dei motti, si tratta piuttosto di enigmi da decifrare uno per uno, e non è quindi poi così sicuro che il lettore ne goda, se non del sapere e di poterne parlare. Sicuro è invece che il corpo di Joyce ne godeva. Ci sono testimonianze di Joyce che sta traducendo Finnegans Wake in francese a Parigi divertendosi enormemente delle sue trovate. Possiamo quindi essere d’accordo con Lacan quando dice che il corpo di Joyce ne godeva. In terzo luogo la scrittura gli costruisce un corpo, un corpo fuori corpo, una statua, uno sgabello, come dice Lacan, cioè il piedistallo di una statua. Si può scrivere: nome proprio, che è S1; plusgodere, a minuscola, che gli da un corpo, cioè un ego; e questa è la formula lacaniana del sintomo. 
Un’analisi, dice Lacan, non avrebbe potuto portarlo più lontano. È vero che l’identificazione con il sintomo è di questo tipo – posso citarvi un certo numero di testimonianze di AE a questo proposito – ma vorrei concludere con quel che Lacan un giorno ha detto a François Cheng. François Cheng è uno specialista di civiltà orientali, cinesi in particolare. Ha scritto un opera di riferimento fondamentale che si chiama “Il vuoto e il pieno”, ed è stato interrogato su Lacan, in un’intervista uscita nel primo numero de L’Âne non so se questa intervista sia uscita in occasione della morte di Lacan o qualche anno dopo, per qualche anniversario - che testimonia di come ha conosciuto Lacan. Lacan lo ha incontrato spesso perché si interessava alla poesia cinese. Cheng ricorda una giornata nel 1977 trascorsa nella casa di campagna di Lacan: è un momento in cui entra un po’ in temi confidenziali, incoraggiato dal silenzio attento di Lacan, e racconta la propria vita, le sue esperienze della bellezza e dell’inferno, dell’esilio, della doppia lingua, cinese e francese. Poi Lacan gli dice: «Vede, il nostro mestiere è mostrare l’impossibilità di vivere, al fine di rendere la vita quanto più possibile vivibile. Lei che si è affacciato all’estrema apertura, perché non allargarla ancora al punto da identificarsi con lei? Perché non mettersi in una scrittura vuota, incrinata, bucata?». Lacan non dice di cosa si tratta, ma dà a Cheng un orientamento nel sintomo, un orientamento del sintomo di François Cheng: qui è “François Cheng l’apertura”. È l’orientamento del sintomo, e lo troviamo in questo Seminario dove Lacan rende omaggio a Joyce. Certo per noi Joyce è il nuovo modello della psicosi, ma è anche chi ha scritto un’opera di tale dimensione da realizzare un’identificazione con il sintomo.
Seconda parte
Oggi, nel campo psichiatrico, il termine psicosi non è più inteso come al tempo in cui ne parlava Lacan. Quando parlo con colleghi psichiatri negli ospedali sono colpito dal fatto che quando non c’è delirio esplicito considerano difficile pensare si tratti di una psicosi. Ci sono tante forme e modalità di psicosi: persone completamente disancorate, tossicomanie, sganciamento dal lavoro, sganciamento dalle amicizie e dalla famiglia, persone che hanno idee bizzarre. Gli psichiatri ospedalieri oggi non li considerano psicotici. Quando dico che l’autismo è una psicosi mi riferisco ai nostri punti di riferimento lacaniani, ma non so se occorra battersi sul termine, su questo sarei piuttosto pragmatico. La differenza tra l’autismo e le altre psicosi va tuttavia in direzione piuttosto della questione dell’enunciazione. 
Su un certo piano l’effetto è lo stesso del bricolage di Joyce e del bricolage che fa Temple Grandin. Utilizzo la parola bricolage per entrambi. Bisogna dire che Temple Grandin è un bricolage, Joyce è un’opera. C’è una differenza di dimensioni, ma c’è qualcosa di più. Joyce costruisce un’opera che risponde alla sua problematica nel suo insieme, è un sintomo che di Joyce fa Joyce, e che al tempo stesso gli dà il corpo che non aveva. Per Temple Grandin è un bricolage che pacifica il suo corpo, ma a partire dal quale è obbligata a costruire un delirio, che certo ha un suo valore, ma che non possiamo certo confrontare con l’opera di Joyce. Quando ci interroghiamo sull’effetto della costruzione di un sintomo nella psicosi, vediamo che l’effetto è sempre di permettere al soggetto di riparare il suo rapporto con il godimento e con gli altri: si tratta di riparare o pacificare, nominare, tradurre. Quel che cambia è la costanza dell’effetto. È vero che in Joyce la scrittura gli ha permesso di non avere mai un esordio. In Temple Grandin il bricolage le ha permesso di pacificare il suo rapporto autistico con il corpo, ma ha disinnescato la necessità di un delirio. Ci sono altri casi, per esempio Jean-Jacques Rousseau. Lui non distrugge la lingua, fa una grande letteratura, scrive nella bella lingua francese, la più classica, e vediamo come nelle “Confessioni” tiene a distanza il rischio di un esordio. Finisce tuttavia per avere un esordio ugualmente. Nelle “Riflessioni di un passeggiatore solitario”, che è una sequenza di confessioni, si situa un passaggio a un delirio un po’ in sordina, ma che è comunque un delirio. L’effetto è lo stesso, ma non tiene. 
È difficile sapere prima quando può tenere e quando no, e ogni volta mi pongo la questione. Me la pongo per esempio con i bambini: che cosa tiene come bricolage e cosa invece è troppo fragile e non terrà? Si ha comunque qualche punto di riferimento: quanto più la costruzione è immaginaria tanto più è fragile. Le stabilizzazioni che passano attraverso la costruzione di un doppio sono fragili perché passano attraverso la presenza dell’altro. Le stabilizzazioni che si realizzano attraverso il sapere o una scrittura sono invece più stabili, ma tutto dipende da quel che un soggetto incontra poi nella vita, che può richiedere un nuovo sforzo di costruzione di un bricolage o di un testo. Fondamentalmente quindi l’effetto è lo stesso, ma non va necessariamente nella stessa direzione. Se si vuole riflettere in termini di “nodo”, Joyce riaggancia l’immaginario e il simbolico. Di Temple Grandin direi piuttosto che riesce a pacificare il reale agganciandoci l’immaginario, la sua  “macchina” è fondamentalmente immaginaria, perché dà l’immagine di un corpo immediatamente stretto tra due barriere. È la differenza che farei sulla struttura teorica dell’effetto.
Per quanto riguarda la questione politica, innanzitutto voglio dire che ho firmato anche il Manifesto italiano, e l’ho mandato a tutti i miei colleghi del Cortile sperando che molti firmino. Il problema dell’autismo esiste in tutta l’Europa latina, in Inghilterra e per il resto d’Europa non so tanto, ma laggiù le terapie cognitivo-comportamentali sono insediate più saldamente e la battaglia è diversa. 
Sono stato negli USA qualche anno fa, invitato da un ospedale, nel centro degli USA, nella grande pianura. Era un ospedale organizzato da terapeuti cognitivo-comportamentali: ho fatto con loro conferenze, discussioni, dibattiti clinici. Sono persone molto pragmatiche, e non avevano necessità di lottare, avevano già il dominio sulla situazione. Dominando la situazione hanno anche dei problemi. Un certo numero di bambini hanno difficoltà, alcune cose non funzionano, e così via. Avevano voglia di discutere e di ottenere i chiarimenti che potevo dare loro. Qui, in Italia, in Francia, in Spagna e in Belgio, siamo in una posizione diversa: i cognitivo-comportamentali tentano di entrare in scena e di acquisire una posizione monopolistica. Sulla questione dell’autismo in tutti i nostri paesi certi gruppi di pressione vogliono far definire l’autismo come un handicap, cioè come un problema che riguarda l’educazione e non come un problema sanitario. 
In Belgio, se vi è esplicitamente una diagnosi di autismo, il caso non può allora essere accolto in un’istituzione sanitaria. La difficoltà è che, al tempo stesso, con il DSM la diagnosi di autismo si è ampliata. Non è che ci siano più autistici, è che se un bambino non è proprio proprio normale allora, per quel che riguarda il DSM,  o è autistico o iperattivo, con qualche margine per le disgrafie, le discalculie, le dislessie, e anche queste sono prese dal versante dell’handicap, come problema scolastico. Se questo tipo di patologie va preso molto presto, ed è vero che un certo numero riguarda l’educazione, e con qualche intervento logopedico. ortofonico, migliora rapidamente nell’ambito della scuola stessa. Il problema si pone quando la dislessia è più marcata, e in questi casi non riguarda più esclusivamente l’aspetto educativo, o non concerne più prevalentemente il piano educativo. Testimonia piuttosto di un piccolo sintomo che serve al soggetto per dire qualcosa della parola, per dire la propria difficoltà a prendere la parola. 
Siamo allora di fronte a un vero e proprio attacco contro la psicoanalisi, perché da una parte si dice che gli handicap non riguardano l’aspetto sanitario, e d’altra parte si dice che i bambini disturbati sono un problema di handicap. Nessun bambino è quindi preso sul versante sanitario, se non aggredisce l’educatore. Vengono dunque trattati dal punto di vista sanitario solo i bambini violenti. È un grosso problema sul quale bisogna battersi, e battersi qui implica diverse cose: si può firmare un manifesto di protesta, ci si può battere sul piano politico, si possono convocare uomini politici perché rendano conto delle loro scelte. Questo funziona, non c’è una cosa che dia tutti i risultati ma tutto insieme funziona. 
La presidente del partito socialista francese, per esempio, è stata invitata alle nostre giornate, e recentemente, sui servizi, ha firmato una promessa: hanno promesso di prendere delle misure contro il packing. Il packing si pratica nella psicoanalisi, è praticato da alcuni analisti dell’IPA.  È un trattamento che è stato messo sotto accusa dai partigiani del cognitivismo-comportamentismo, che fanno cose molto peggiori.  Per i servizi la presidente del partito socialista ha firmato questo impegno, ma il giorno dopo hanno emesso un comunicato stampa sostenendo che si trattava di un errore, che non voleva firmarlo e che non vuole prendere posizione in un dibattito che riguarda temi scientifici. Abbiamo da un lato un deputato francese che propone di proibire la psicoanalisi nel trattamento dei bambini autistici, e immediatamente abbiamo messo in gioco altri deputati che si sono opposti a questa posizione. 
Nel contesto politico in quanto tale ci sono cose che si possono fare, e si può cercare di toccarlo. Quando c’è un manifesto internazionale firmato da più di diecimila persone, sono diecimila elettori, e questo per i politici conta. Bisogna anche coinvolgere gli ambienti amministrativi e burocratici che fanno andare avanti le cose. Poi bisogna animare dibattiti, bisogna pubblicare i nostri casi e se possibile – Miller lo diceva l’altro giorno alla conferenza stampa – bisogna pubblicare casi dove si dimostra come sono le cose prima dell’intervento, e come sono dopo. Abbiamo una ricca casistica di questo tipo, ed è utile presentare quelli in cui si hanno scenari nuovi molti anni dopo, dove ci sono sintomi che hanno tenuto. 
Colpisce che i gruppi cognitivo-comportamentali abbiamo mobilitati i genitori – noi non lo faremmo mai nello stesso modo – ma non bisogna esitare a a domandare e a far valere le testimonianze. 
Siamo in un mondo liberale, dove la voce del consumatore conta, e bisogna dire alto e forte che noi non vogliamo che ci sia soltanto la psicoanalisi, che esigiamo la libertà per tutti, la libertà di scelta. Io ho sempre fatto funzionare così le cose, e non ho mai cercato di dissuadere i genitori che domandavano se non fosse meglio orientarsi verso il cognitivo- comportamentale. Ne ho parlato con loro, e nel momento in cui ho visto che erano convinti fosse meglio, li ho lasciati andare, dicendo che se un giorno volevano tornare la porta era aperta. 
La nostra è una piccola istituzione che funziona nei fine settimana, a Bruxelles, ed è stata fondata dalle persone dell’Antenna 110. Ci sono genitori i cui parenti, in una associazione cognitivo-comportamentale, li iscrivono lì per il fine settimana, sapendo che siamo orientati dalla psicoanalisi. Questo dà una certa libertà, e non cerchiamo di convincerli a lasciare le loro istituzioni cognitivo-comportamentali. Lo scandalo oggi non è che esistano possibilità di trattamento cognitivo-comportamentale, lo scandalo è che certi gruppi di pressione vorrebbero obbligare i genitori a scegliere solo questo, quindi a non scegliere. Dietro questi gruppi di pressione ci sono gruppi finanziari, ci sono soldi per farmaci, test genetici, programmi ABA e così via. Praticamente e pragmaticamente, al tempo stesso in cui occorre battersi per questo, bisogna riceviate bambini che non hanno diagnosi di autismo, perché altrimenti non li potere ospitare in una struttura sanitaria. Bisogna in fondo utilizzare il linguaggio dell’Altro per farlo funzionare nel modo giusto, e il linguaggio dell’Altro, in questo caso, è quello degli amministratori che redigono i regolamenti.

Alexandre Stevens
Trascrizione di Andrea Vignolo