giovedì 7 giugno 2012




Sulla scuola e sul concorso per dirigerla


Riceviamo e volentieri pubblichiamo la seguente testimonianza

Sono iscritta da diversi anni alla Sezione Clinica dell'Istituto Freudiano. Come clinico dell'area “psico”, mi occupo di disagio, riconducibile a  tutto ciò che di mentale mi viene portato sotto forma di domanda, spesso si tratta di domanda ad essere come le testimonianze lacaniane mi hanno insegnato. Studio le cause sintomatiche, le più profonde per quanto sia possibile, una per una, perché ogni soggetto possa trovare la propria risposta alla sua domanda (non sono quindi i manuali i miei maestri, ma, i maestri, sono i miei manuali, da Freud a Lacan e ritorno). Detto questo, un quesito, importante, mi interroga negli ultimi tempi. La sua area è la scuola e la questione si riferisce specificatamente e significativamente ai risultati del concorso per dirigenti scolastici.
Mi interroga, come alla ricerca di una verità dicibile che, tuttavia, questi risultati sembrano ribadire, attraverso formule eliminatorie, e non attraverso il simbolismo ragionato della parola che, in chiave allargata si definisce dialettica.
Tutte le mie conoscenze dell’area scolastica, amici e compagni di lavoro, sono stati “bocciati” alle prove scritte di questo concorso. Davvero un gran numero di persone esperte,  grandi intellettuali, capaci di analisi ad ampio spettro, per i quali l’idea filosofica della scuola al servizio delle risorse umane a cui è rivolta, nel rispetto delle regole vigenti, rimane imprescindibile e non subalterna alla soverchiante normatività talvolta imposta da luoghi comuni, che, in quanto tali, si espandono in modo massificato stabilendo classificazioni dai significati espulsivi e tutt’altro che integrativi.
Eppure, mi interroga proprio l’enorme quantità di esclusi, tutti docenti, che, come coloro che hanno superato la prova preliminare, sono stati sottoposti ad altre due prove scritte le cui tracce, almeno in Lombardia, davano indicazioni imprecise e confusive. Con tali tracce mi chiedo come possa essere stato tanto preciso il criterio di valutazione.
Molti di loro mi hanno raccontato lo svolgimento di questo concorso, peraltro preceduto da due o più anni di studio, ai quali qualcuno ha aggiunto masters costati migliaia di euro, nella prospettiva di prepararsi al meglio per il suo superamento.
La prova preliminare, consistente nella capacità mnemonica di ricordare la giusta risposta nei 100 test in 100 minuti (un minuto a test), selezionati tra 5000 a risposta multipla, aveva già eliminato una percentuale di partecipanti al concorso, oscillante in una media nazionale tra il 70 e l’80%.
Le prove scritte sono state due, della durata di otto ore ciascuna e si sono svolte in due giorni consecutivi. 
L’esclusione dalle prove orali per il mancato superamento delle prove scritte, ha lasciato me, come  tutti coloro che conosco, sgomenti e, soprattutto, ha consegnato alle post-comunicazioni il sospetto che “qualcosa” non abbia funzionato. Questo “qualcosa” certo non è riferito agli scritti degli esclusi,  elaborati secondo schemi e strategie di un certo modo di pensare, pur sempre mantenendo fede all’applicazione della vigente normativa scolastica, materia questa, peraltro, della quale i “bocciati” di mia conoscenza, da anni, so, essere perfetti conoscitori. Per inciso, proprio a queste conoscenze e competenze attingo, sovente, per le mie necessità professionali, guidata dal pensiero che esse stiano a loro, per puro intellettualismo, come il sapere sta alla scienza (non intesa come scientismo). A questo, aggiungo, che un cospicuo numero di presidi, appartenenti al “giro intellettuale” decisamente diverso dal “cerchio magico” ha potuto attingere a tale sapere riferito sia alla normativa che alla gestione istituzionale scolastica. 
Tornando a riflettere su ciò che non ha funzionato, quest’idea si insinua anche in una lettura dei comportamenti tenuti dai commissari durante le prove che è parsa  sottintendere il  loro rapporto con i candidati-docenti in un : noi siamo i “maestri” voi coloro che “non sanno”; ipotesi questa che ha trovato conferma, in seguito, proprio nell’enormità numerica degli esclusi a fronte di tracce dai riferimenti generici e poco precisi,  per le quali, tuttavia, il criterio di valutazione deve essersi svolto con  precisione direi “chirurgica” considerata l’alta percentuale di eliminazione.
Detto ciò, torna quindi il sospetto, condizione questa che,  per definizione, apre sempre ad una verità altra rispetto a quella appena svelata: una sorta di apertura nella direzione di una verità,  meno evidente ma pulsionalmente più pregnante. Nel caso specifico di questo concorso il sospetto si sarebbe diffuso intorno all’idea che si sia trattato di una strategia eliminatoria di una certa categoria di pensiero, una vecchia categoria, il cui pensiero è circolante, va in giro, si dialettizza funzionando quindi come motore costruttivo e creativo a dispetto dell’ipnotico effetto che alcune formule sono, attualmente, in grado di ottenere all’interno di alcuni grandi sistemi pubblici come la scuola. Mi riferisco per esempio agli effetti ottenebranti che un significante come “bullismo” riesce ad ottenere una volta detto.
Parole come questa, segnano tracce, percorsi, agendo un po’ come la propagazione di un virus in un territorio con i suoi devastanti effetti epidemici: essi si scatenano in assenza di un’accurata analisi scientifica in grado di produrne l’antidoto. Nel caso del bullismo per la società, ma in modo particolare per la scuola, l’assenza di un approfondimento storico delle sue condizioni, consente una parziale verità stabilita solo sugli effetti che, come le malattie, spaventano in assenza di risposte pacificanti. Lo sviluppo di risposte-percorsi, assunti come antidoti purificanti, scatenato da un significante fantasmatico come questo, mette in evidenza quale impatto abbia avuto nell’immaginario collettivo che, sempre più privo di domande a riguardo, si ritrova a parlarne e ad operare in un vuoto di senso. Nel caso della parola “bullismo”, con la conseguente “catena significante” organizzata nelle varie tavole rotonde, essa sembra essersi infiltrata nella scuola, cambiandone in parte i connotati, allo stesso modo di un virus nell’organismo. Con la stessa propagazione e forza epidemica, una parola-contenitore come questa, è riuscita a cambiare dall’interno il rapporto scuola-insegnante-alunno ottenendo quanto nessun programma di riforma finora proposto avrebbe mai sperato di ottenere.
Ho trovato curiosa, devo ammettere, l’incidenza di questo “significante padrone” all’interno delle prove in tante regioni italiane, come a dire, il concorso è stato regionale ma ”bullismo” pare una parola in grado di parificare  tutto (e forse anche di pacificare). 
È come se il bullismo fosse ora il soggetto della scuola, lasciando agli alunni il posto di oggetto-matassa da distribuire nei vari percorsi-guida pensati dagli “esperti”, spesso nella logica di un’esclusione dal mondo-scuola. Posizione questa che sembra andare nella direzione opposta al concetto di integrazione, stabilito e rivolto appunto a coloro che sembrano declinati verso forme di disagio talvolta così feroci da confondere.
Il bullismo quindi, anche in queste prove, è andato per la maggiore e, la Lombardia, è parsa in testa alla classifica con un’alta percentuale rappresentativa all’interno della Commissione: qui, la “battaglia” contro il bullismo, costituisce, per una certa area della scuola, un vero e proprio brain-storming operativo che  attraversa ogni ordine e grado istituzionale: poche domande, tante risposte.
Il successo formativo come  anche la filosofia della “Scuola di Napoli” sono elaborazioni lontane anni luce dai profili richiesti dalla commissione lombarda. La funzione prevalente  “pensata” da questa commissione, come da altre, è stata affidata al fenomeno del “bullismo”,  lasciando spazio alla logica mortificante, che poco apre alle condizioni vitali e costruttive, certo molto più faticose e sapienti, che costituiscono la condizione-cardine della Scuola di Napoli. 
Da nessuno dagli enti istituzionali della scuola ho mai sentito parlare della Scuola di Napoli e dei suoi concetti chiave, ma dagli amici intellettuali “bocciati” si, da loro si, come anche da uno dei massimi docenti dell’Istituto freudiano (lacaniano) di Milano, di recente scomparso, che lo scorso anno mi parlò della sua intenzione di aprire un dibattito conoscitivo sulla Scuola di Napoli.
Da anni, molti di questi docenti contribuiscono per meriti di conoscenza soggettiva già sopra accennata, alla gestione delle scuole in cui lavorano, come raramente accade. Sono stati loro a spiegarmi che i Presidi delle scuole sono “Dirigenti Scolastici” ovvero, essi devono gestire l’insieme di regole costitutive di un ente portatore di  metafora: la scuola. È questo assunto che li distingue dai dirigenti aziendali. 
Ciò che attraversa la scuola è il linguaggio: frutto simbolico dell’essere parlante e del suo sapere e, come tale, ben lungi dal gioco di partita doppia del dare-avere. La capacità di perforare l’universo evolutivo per dare accesso alla metafora scolastica,  anche utilizzando la selva oscura dei loro neolinguismi, è la parte sostanziale della sfida e si chiama successo formativo. La sua gestione sta nella combinazione del macrosistema satellitare di regolamenti, operatori e servizi cui la scuola è collegata. Non avrei mai saputo tutto questo senza di loro e tanto mi salva dall’affrontare la scuola con luoghi comuni.
So che i loro dirigenti scolastici ed i loro colleghi, durante questo concorso, hanno stipulato con loro quasi un patto di riconoscenza appoggiandoli, incoraggiandoli con profondo affetto ma soprattutto con una speranza che definirei identificatoria di un ideale di immagine della scuola di cui molti ancora vorrebbero far parte, se gestiti, incoraggiati e diretti da questo tipo di forza e pensiero.
Eliminarli ha lasciato il segno di un “taglio”  che risulta significativo nella direzione di un tipo di scuola pensata per  ordinare un sapere congelato  in un kit d’ordinanza, perché venga celebrato con l’obbedienza e non certo con lo sviluppo del parl-essere. 
Non è casuale il mio riferimento alla Scuola di Napoli. Essa si è costituita su un taglio ben diverso dall’ordine disciplinare intrapreso dalla scuola in generale e da quella Lombarda in particolare. Nata dalla volontà dei suoi fondatori, (tra i quali il Dott. Marco Rossi Doria, attuale Sottosegretario al Ministero della Pubblica Istruzione), ormai conosciuti come “maestri di strada”, di “fare scuola” nei quartieri di Napoli con un altissimo tasso di dispersione scolastica, essa ha raccolto la sfida di “modellare”  forme di sapere entrando nelle maglie di un tessuto sociale ricco di risorse umane evolutive ma scollato dal sistema scolastico. Vi sono entrati impegnandosi nel  rafforzamento di una relazione che facesse da collante tra il sapere già esistente e l'offerta di arricchirlo, senza esercitare alcun potere sull'obbligo scolastico ma obbligandoli all'ascolto empatico di una spinta che disobbedisca all'imperativo di “scendere in campo”, che per definizione è sempre di qualcun altro, per  decidere di “salire la vita”, la propria. 
I “maestri di strada”, nel “trovare il modo” di fare scuola, poco spazio riservano al panorama che generalmente ruota intorno alla valutazione scolastica. L'accordo implicito ma anche esplicitato dall'approvazione del loro progetto da parte delle  Dirigenze Scolastiche del territorio, definisce, come obiettivo massimo, il recupero scolastico della fascia dell'obbligo. Per valutare, qui, è necessario uscire dalle grate che disegnano griglie nelle quali i numeri da....a....“dicono” il valore, per entrare nello spazio aperto della dimensione soggettiva: il chi, ma anche il come, non certo il quanto.
Le posizioni della Scuola di Napoli sono partite da considerazioni riferite al grave disagio social-territoriale di Napoli ma allargano il proprio discorso teorico alle difficoltà comuni a tutto il mondo evolutivo di cui sono responsabili fenomeni come la scomparsa delle figure adulte di riferimento, l’indebolimento di certezze educative, la mancanza di assunzione chiara di responsabilità adulta. Sono contesti questi che ben si discostano dalla possibilità di un’implicazione di formulazioni disciplinari o giudizi valutativi scollegati dal riconoscere le complessità. E sono gli stessi che il mondo docente in generale si trova a fronteggiare. Ciò che fa  riscontro al fondamento della Scuola di Napoli, parte con la domanda “che cosa possiamo fare?”
Questa posizione si apre all’ascolto dell’elevato e molteplice bisogno sociale presente, attraverso un’organizzazione dello spazio-tempo a misura evolutiva, in fuga dall’insuccesso e dalla dispersione. 
Un simile contesto scolastico, ben differisce dal normativo codificare il sapere in risposte unificanti  che respingono il bisogno sociale all’interno di domande mute, con cui la scuola lombarda sembra confrontarsi, proponendo offerte formative sempre più affini ad una contrattualità interistituzionale “stanziata” nelle tavole rotonde di rappresentanza, all’interno delle quali il sapere non prende posto se non come condizione inanimata, morta, decontestualizzata dal sociale che deve assumerlo come proprio. 
La domanda d’apertura della Scuola di Napoli sembra trovare risposta in formule come, tempo di riflessione, riflessione circolare, forte attenzione al linguaggio. La scuola in generale e quella lombarda in modo particolare hanno stabilito, da tempo condizioni valutative che stabiliscono chi, di sapere, deve vivere o perire. É questa l'idea imperante con la quale, i docenti più illuminati che conosco,  devono fare i conti per poter salvaguardare la loro dimensione che include alunni e sapere.   
Le commissioni del  concorso per Dirigenti scolastici, hanno “quantificato” in misura percentuale ammessi e non ammessi attraverso una lettura degli elaborati da cui traspare l'assenza di una tridimensionalità che tenga conto dell'autore, dell'elaborato e del lettore. Una lettura  monoculare quindi, tuttavia garantita da criteri di insindacabilità che rendono onnipotenti commissari e valutazioni: quantificano il grado di sapere di ognuno dei candidati: alcuni “sanno” 19-20, altri 12-15, altri 22-24, altri 13-17. La linea di demarcazione è rappresentata dal numero 21: il suo superamento o meno consente l'ammissione.  In effetti, come “sindacare” un simile sistema, è un po' come sindacare su chi vince o chi perde al gioco dei numeri al lotto, in un gioco che tende a negoziare i confini del sapere.

Paderno Dugnano, 5 giugno 2012
Elsa Forner