martedì 12 marzo 2013

Il tempo della crisi e la politica dell’inconscio Seminario dell’Istituto freudiano di Milano.
2 febbraio 2013


Ho dato come titolo al lavoro che faremo oggi: “Lutto possibile in tempo di crisi”. È in gioco il nome della Grecia, qualcosa che preoccupa molto. Quindi, ho cercato di ispirarmi a Television, a quello che Lacan in particolare dice su lalangue. Espongo questo tema passando per un caso clinico, poi per il lavoro di un’artista e concluderò parlando delle origini teoriche del concetto di lalangue di Lacan. 
Come possiamo evocare il problema del lutto che colpisce i soggetti in una società in crisi? La perdita è la posta in gioco maggiore che la crisi mette in scena. In Grecia, oggi, i nostri analizzanti, quasi senza eccezione, si incentrano regolarmente sull’angoscia provocata dalla minaccia della perdita. La perdita del lavoro, della casa, e anche la perdita della pace civile, dello spazio pubblico. La perdita impone il lutto, è la prova di realtà. Il lavoro del lutto conduce alla separazione da un altro e pone sempre la questione dell’oggetto che si è stati per questo altro. Questa separazione è dunque separazione da un godimento. Separarsi da un altro implica mettere la parte del proprio desiderio e del proprio godimento, che hanno radici nell’allontanamento da quest’altro. Secondo Freud, il lutto è un processo complicato e non si può compiere senza una identificazione: si introietta l’oggetto perduto per separarsene, mantenendone poi alcuni tratti. L’inconscio è sicuramente una relazione, o qualcosa che si produce in una relazione, è quello che J.-A. Miller chiama “l’inconscio transferenziale”. Ma, come Miller ci insegna in questi ultimi anni, non dobbiamo fermarci a questo. Oggi, per affrontare la nostra clinica, dobbiamo seriamente tener conto dell’ultimo insegnamento di Lacan, quello che affronta l’inconscio come lalingua, condensata in una sola parola. In greco, siccome il greco non è una lingua latina e quindi non possono tradurre a calco lo stesso gioco di parole, hanno inventato una parola: “glossa”, che vuol dire “lingua” ma dove all’interno si forma un gioco con “laloche” che richiama la lallazione. Come la crisi può åmuovere l’inconscio, quest’inconscio-lalingua, e imporgli un lutto? Poniamo la questione in altri termini: come, nella crisi, può essere incontrato il trauma inconscio che suggella il destino di un soggetto? E con quali effetti, caso per caso? 
Vorrei commentare una cura. Nicos è nato con una malattia genetica, soffre di talassemia anche detta “anemia mediterranea”. È una malattia dell’emoglobina che si riscontra il più delle volte nella popolazione del bacino del mediterraneo; sono presenti molti casi in Grecia. Nicos deve subire una trasfusione ogni quindici giorni. La morte gli fa la posta. La sua vita è scandita dalle trasfusioni, gli esami medici e diversi trattamenti. È venuto in analisi, qualche anno fa, in una situazione di estrema angoscia. Aveva attraversato periodi cupi, contrassegnati dalla disperazione e dalla collera. Nel momento in cui era venuto a trovarmi aveva terminato gli studi di psicologia. Lo Stato gli permetteva di iscriversi all’università senza sottoporsi a degli esami d’ingresso. L’Altro si presentava così con un aspetto più amichevole. E, tuttavia, considera questo caso come un’eccezione. In generale, il suo legame con l’Altro, quando non è un legame di dipendenza, è piuttosto teso e conflittuale. Ma al tempo stesso aveva sempre tentato di non rompere il patto con l’Altro e osservava i consigli dati dai medici. Sin da quando era piccolo, anche se questo procedimento non era mai indolore, collegava al proprio corpo l’apparecchio che permetteva di separare il ferro, di cui le trasfusioni frequenti sovraccaricavano il suo organismo, e lo minacciavano con degli effetti secondari. Molto rapidamente, mentre continuava a raccontarmi la sua malattia nel quotidiano, gli ho detto: “lei è obbligato a trovare qualcos’altro altrimenti il suo corpo si fonderà nell’angoscia”. Gli era piaciuto questo fatto di poter avere un altro orizzonte che non l’angoscia. L’angoscia di morte è sostenuta dal fantasma di morto vivente con un corpo marcescente nei suoi organi interni. Dunque, la psicoanalisi gli dava una dignità di soggetto. Pagava per le sedute un onorario piuttosto alto. Si è impegnato nella vita della piccola comunità analitica e nel lavoro all’ospedale psichiatrico con tutte le sue forze. “Non sono soltanto un corpo malato e devo imporlo anche al mio entourage”, mi diceva spesso. E prima di tutto doveva convincerne la madre. La sua malattia era scoppiata quando aveva solo pochi mesi, era svenuto e questo aveva immediatamente risvegliato l’angoscia della madre. La diagnosi era allora posta e cominciava lì la sua dipendenza vitale rispetto all’Altro. Dipendeva dal sangue dell’Altro, e a questa dipendenza è connesso anche un godimento. Il suo inconscio, in forma di sogni nel transfert, interpreta per lui la sua difficoltà di far passare questo godimento alla contabilità. Sogna che un numero infinito di flaconi di sangue sfili davanti a lui, o un flacone di sangue si avvicina e si allontana incessantemente. Le sedute assomigliano spesso a dei bollettini sanitari: m’informa dei risultati degli esami, del tasso di emoglobina prima e dopo la trasfusione, conosco il nome di tutti i medici che seguono il suo caso, ma anche di come il Ministero della Sanità gestisce il sangue disponibile in ogni periodo dell’anno in base al numero degli incidenti stradali. Poi, progressivamente, in Grecia si presenta la crisi. Il bilancio statale prevede tagli drastici sulle spese degli ospedali pubblici e sul rimborso dei farmaci. Nicos è in uno stato d’angoscia permanente, gli si mozza il fiato. Il suo stipendio è diminuito in modo importante e quando alla fine mi domanda una piccola riduzione del costo della seduta, avendo saputo da altri pazienti che era possibile, accetto con difficoltà, precisandogli che è solo un provvedimento provvisorio. Per intere sedute accusa lo stato clientelare dei politici ladri, denuncia il ministro tecnocrate che amministra gli ospedali e che vuole disporre diversamente i servizi ospedalieri. Vota per il partito Syriza sperando in un cambiamento, piange sul divano. “Non sono un rifiuto dell’umanità”, grida una volta. Quel giorno lo fermo su questo grido portatore di quel che non vuol sapere, perché sicuramente è lo scarto dell’umanità ed è questo a causare il suo godimento. È come scarto che si trascinava nelle notti nei bar bevendo alcool, negli anni che hanno preceduto l’inizio della sua analisi. Ora non beve più, ma abborda le ragazzine mettendo davanti la sua malattia. Mi racconta tutto questo senza sapere quello che dice. Poi un giorno, mentre nella città di Atene ci sono delle manifestazioni violente e incessanti, viene in seduta a dirmi come litigò con il nuovo medico capo-servizio dove fa le trasfusioni. L’ha trattato come un carrierista, come un medico inumano che tratta i pazienti malati, come lui, come oggetti. Gli ha rimproverato che i tagli di bilancio non lo toccano e che non fa quello che è necessario per difendere la vita dei suoi pazienti. “L’Altro non può piangere in eterno con lei”, gli dico tagliando corto con i suoi lamenti. Esce dalla seduta stupefatto, sorpreso, senza sapere che cosa dire. Nicos mi aveva spesso raccontato come sua madre piangeva angosciata al suo capezzale all’ospedale o a casa. Lei piangeva, poi toccava a lui piangere quando lei lo lasciava per un istante nella camera dell’ospedale dove avevano luogo le trasfusioni. “Non potevo fare a meno di lei e al tempo stesso non potevo sopportarla”. L’istanza separatrice del padre aveva funzionato solo in modo sintomatico. Nicos sapeva da sua madre che il giorno in cui era stata formulata la diagnosi della sua malattia il padre era andato fuori ad ubriacarsi. Per il padre c’erano voluti dei mesi per accettare l’idea che suo figlio fosse malato. Lacan lo dice chiaramente nella sua conferenza di Ginevra, testo in cui Lacan ci chiarisce il suo concetto di lalangue, la lingua. «Il linguaggio interviene sempre nella forma di quello che ho chiamato con una sola parola, che ho voluto il più vicino possibile alla parola lallazione, e la parola è lalingua. La lallazione è il fatto di emettere dei suoni, lalangue è la lingua prima dell’acquisizione del linguaggio sintattico, sono suoni prima del senso. Lalingua fornisce solo la cifra del senso», dice Lacan in Televisione. Ma attenzione perché, detto questo, l’Altro tuttavia non è escluso. Lacan, in questa stessa conferenza, riprende la funzione dell’Altro precisando che c’è una presa dell’inconscio in forma di sogni, lapsus, ecc…, l’inconscio si presenta come un “moterialisme”: neologismo che Lacan impiega mettendo insieme il termine “mot” parola e “matèrialisme” materialismo, che sarebbe il modo in cui lalangue è stata parlata ma anche intesa, sentita, capita da tale o talaltra particolarità. In questo moterialisme è concentrata la parola e il materialismo del suono. Rileggiamo il passaggio di Lacan: «È sicuro che in questo modo in cui la lingua è stata parlata e anche sentita, da tal e talaltro nella sua nella sua particolarità, che qualcosa in seguito ne verrà fuori come sogni o come tutte quelle sorte di inciampi e tutti quei modi di dire». È la prima volta che incontriamo questo termine, dove dice: «è in questo moterialisme che sta la presa dell’inconscio». Quindi c’è un materialismo sonoro, come la melodia, il là-là-là, e nel caso clinico in questione sono piuttosto i pianti. Il materialismo sonoro dei genitori quindi non è il loro messaggio, piuttosto ciò che eccede questo messaggio. 
A Nicos il messaggio dell’altro torna in un sogno, che si formula nella seduta successiva a quella del taglio. Il sogno è questo: “Faccio domanda per entrare a scuola e la preside che mi riceve mi domanda: e adesso, cosa ne farai dell’odio che provi per tua madre e per tuo padre? Sei sicuro di non volerlo spostare sulla scuola?”. Lui stesso, sorpreso di pronunciare la parola “odio” che non gli era mai venuta a fior di labbra, si interroga su chi odi chi. Una elaborazione di sapere tenta allora di trattare questo godimento della lalangue dell’un-corpo-che-piange. Lacan dice che l’inconscio è un’elucubrazione di sapere sulla lalangue. Il sogno tratta questo aspetto: il pianto e l’equivoco sonoro hanno valore di cifra. Nell’analisi permettono di mettere in rapporto il reale e il senso. D’altra parte la scuola, come elemento contingente, non pronto per piangere, potrebbe servire d’appoggio al soggetto per circoscrivere questo godimento che lo segna, e operare nel senso di una separazione. Circoscrivere questo godimento è l’altra faccia del lutto dell’oggetto che condensa l’odio, l’oggetto scarto. È questo ora l’orizzonte della sua analisi: circoscrivere il godimento della lingua e separarsi dall’oggetto, che sono due facce della stessa operazione.
Veniamo a Marina Abramovic. È considerata l’antenata della performance art. Tutta la sua opera tratta la questione della separazione e del lutto. Nel suo lavoro, sublimazione e lutto sono strettamente implicati sul piano pulsionale. Più in generale, la body art, J.-A. Miller lo nota in modo pertinente, è una forma contemporanea di corporeizzazione del significante. Esemplare nel lavoro di Marina Abramovic è il modo in cui isola il reale, come impossibile da riparare, incarnandolo ogni volta. Vorrei concentrarmi su una performance dell’artista, quella per la quale ha meritato il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1997, intitolata Balcani barocchi. Questa performance era una sintesi trionfante della maggior parte delle idee e del lavoro che Marina Abramovic aveva elaborato dopo la separazione dal suo partner, nella vita e nell’arte, Ulay, un artista olandese. Marina e Ulay per dieci anni avevano formato una coppia che era stata definita come fusionale e leggendaria. Si prevedeva, all’inizio, di presentare Balcani barocchi nel padiglione jugoslavo (si chiamava ancora jugoslavo all’epoca, ma c’era allora soltanto la Serbia e il Montenegro). Sono già passati due anni dagli Accordi di Dayton, ma la guerra nei Balcani non è ancora cessata. Dopo una lite pubblica con il Ministro montenegrino degli Affari Esteri, fu presa la decisione di presentare Balcani barocchi nel padiglione italiano. Il curatore italiano gli ha offerto lo spazio che restava nello scantinato, nella parte bassa del padiglione italiano. “Il peggio e il meglio” gli dice Marina, dando di nuovo la sua insegna. Lo spettacolo consisteva nell’associare alcuni elementi dello scenario della sua opera precedente The illusional. C’era la proiezione di due video statici che mostravano le interviste con suo padre e con sua madre. C’era suo padre che brandiva un’arma e sua madre con le mani piegate sul petto. Due video separarti, uno di fronte all’altro. Accanto mette il suo lavoro sugli oggetti transizionali, che improntò a dei sigilli di cuoio che evocavano delle fonti battesimali. Per concludere, “cleaning the house”, elemento principale della performance: l’idea è di pulire con la spazzola, in modo maniaco e ripetitivo, delle ossa di bue, ripulirle dalla carne. C’era una montagna di settecento ossa pulite, coperte da altre trecento che ancora erano ricoperte di carne e che Abramovic si impegnava a ripulire. È rimasta seduta su questa pila per cinque giorni, sette ore al giorno, pulendo con la spazzola le ossa di bue, piangendo e cantando canti folclorici dei paesi balcanici. Considerando tutto l’insieme, il video, la scultura e gli elementi della performance, Marina Abramovic, con il suo atto artistico, è riuscita a realizzare qualcosa che sarei tentata di chiamare “incarnazione de lalangue”. È riuscita, con questo atto di sublimazione, a recuperare qualcosa di un godimento che innalza la dignità di un’opera d’arte, facendone segno come di un godimento de lalingua. La sua impresa artistica di incarnare l’inconscio è tuttavia presa nel discorso. Discorso dell’Altro, segnato dalla guerra di dieci anni nei Balcani. L’Altro non è assente. Marina Abramovic, originaria del Montenegro, è cresciuta in una famiglia della borghesia rossa nel periodo del regno di Tito. Da un lato c’è la rigida religione ortodossa, dall’altro c’è il comunismo: “Io sono la bambina che è rimasta tra le due, ed è ciò che fa quel che sono. Questo mi rende quel tipo di persona che avrebbe messo alla prova Freud”. Marina considerava la propria dinamica familiare esplosiva. La nonna materna, che l’aveva cresciuta fino ai sei anni, era molto pia e parlava dei comunisti come dei diavoli rossi. I suoi parenti erano tuttavia partigiani comunisti durante la guerra. E la saga del loro incontro, in un’atmosfera d’eroismo, ha accompagnato Marina. Lo zio materno, il patriarca ortodosso Varnava, era stato assassinato prima della seconda guerra mondiale per mano del potere politico perché rifiutava l’accordo con la Chiesa cattolica croata. Il popolo a Belgrado gli aveva dato il proprio sostegno partecipando a delle manifestazioni. Ciò non toglie che questo stesso Varnava aveva cominciato a sostenere, prima di morire, il partito nazista tedesco sostanzialmente perché resisteva al veleno comunista. La famiglia Rosic, la famiglia della madre di Marina, si associava alla grande volontà o, detto altrimenti, al desiderio deciso (di cui Marina faceva prova), all’elettività di Varnava. Confidava Abramovic in un intervista del 2010: “Il fratello di mio nonno era il patriarca della Chiesa ortodossa e lo si adorava come un santo. Così, nella mia infanzia tutto riguarda il sacrificio totale, connesso sia alla religione sia al comunismo. Ecco perché ho questa forza di volontà malsana”. Considerava d’altra parte che il barocco è l’arte che si addice ai Balcani, terra degli estremi che non si limitano. 
Devo evocare quello che mi sembra tenere il luogo di resto nell’impresa dell’artista, dove il lutto è condensato in modo opaco per lo spettatore: si tratta dell’odore, colpiva tutti quelli che entravano nello scantinato del padiglione italiano e restava come promemoria dell’orribile scena. Le ossa venivano avvolte tutte le sere e conservate in un frigorifero. Ma in tutti e cinque i giorni di durata della performance, il grasso della carne spessa che aderiva a queste ossa ha cominciato a marcire e a dar cattivo odore nel calore estivo. Erano saltati fuori dei vermi, e Marina ne è stata talmente disgustata che non ha mangiato carne per anni e anni dopo la performance. Tornata nell’appartamento che aveva in affitto a Venezia, si lavava a lungo tutte le sere per liberarsi dall’odore di carne marcia che aveva impregnato i capelli e la pelle. Alla celebrazione dell’attribuzione del Leone d’Oro ha dichiarato: “Sono interessata soltanto ad un’arte che cambia l’ideologia della società. L’arte che si dedica solo ai valori estetici è sempre incompleta”. Questa trasformazione di cui parla Abramovic, e che è ogni volta correlativa ad un atto, è da intendere da parte nostra, come psicoanalisti, come una modificazione del godimento. Separarsi o circoscrivere un godimento che ha radici nel corpo è quel che permette l’atto analitico o l’atto artistico. Atto che opera all’occasione, ordinandone il discorso, quello che costituisce la particolarità del soggetto umano per il fatto che parla. 
Ora qualche precisazione sul concetto de lalangue. Questo tema risale al seminario Ancora, ma è presente anche in Television. Lacan si distingue dal linguista che studia il linguaggio e le proprietà della coppia significante-significato. In quanto psicoanalista si trova piuttosto ad aver a che fare con il significante come sostanza che gode, e questo significante lo designa con il nome di linguisteria. A pagina 16 di Television (edizione francese) Lacan dice: «L’inconscio parla, questo fa sì che dipenda dal linguaggio di cui si sa soltanto poca cosa. Malgrado quello che designo come linguisteria, per riunirvi quello che pretende, ed è cosa nuova, intervenire negli uomini in nome della linguistica». Quindi, la linguistica intervenendo nell’essere umano diventa linguisteria, questa è l’idea di Lacan. Questo stesso linguista tuttavia è lo stesso che ha fornito, in un certo modo, a Lacan il suo concetto di lalangue. È quel che suggerisce Miller, nel suo corso, qualche anno fa. Vorrei ricordare qui la passione che Ferdinand de Saussure, fondatore della linguistica strutturale, aveva mostrato per gli anagrammi. Saussure era affascinato dalla poesia antica, ma leggendo questa letteratura antica non poteva impedirsi di vederci dei messaggi cifrati. A partire dalla fine degli anni ’50, e soprattutto negli ‘60 e ‘70, man mano si è venuto a sapere che Saussure ha dedicato molto tempo a ricerche generalmente considerate come diverse dai lavori linguistici. Da una parte una ricerca di carattere semiologico su diversi testi leggendari e mitici, quello che più interessa a Saussure è il testo Nibelungenlied (I Nibelunghi), dall’altra parte quello che gli interessa è la ricerca sugli anagrammi. Questo da occasione a Saussure di annotare una massa enorme di scritti, i ricercatori parlano di 99 o 117 quaderni, qualcosa che corrisponderebbe a circa diecimila pagine, allo stato attuale ne sono state pubblicate un numero molto ridotto, certamente meno di un decimo del totale. Secondo Gandon, la ricerca sugli anagrammi è stata condotta a partire dal 1905, quindi in un periodo corrispondente a quello del suo corso di linguistica generale che teneva a Ginevra. E anche la ricerca su I Nibelunghi è stata condotta più o meno nello stesso periodo. Il corso di linguistica strutturale è pubblico, il lavoro sugli anagrammi è privato e non ne parla mai pubblicamente. Saussure, appassionato di terminologia, si interroga costantemente sulla pertinenza delle parole che utilizza riguardo al reale che queste parole devono prendere in carico. Quindi è innanzi tutto questione della concorrenza fra il “gramma” e la “fonia”, perché l’interesse di Saussure non verte sulla lettere ma sul suono. Possiamo leggere nei quaderni di Saussure, che sono stati pubblicati da Starobinski, questo problema sulla lingua e la fonia. Dice Saussure: «Servendomi della parola anagramma non penso minimamente di far intervenire la scrittura, né a proposito della poesia omerica né a proposito di nessun’altra forma di poesia indoeuropea. Il termine anafonia sarebbe più adatto alla mia idea. Ma questo termine, se lo si crea, sembra piuttosto adatto ad una funzione diversa», vale a dire, quello di designare l’anagramma incompleto, che si limita ad imitare certe sillabe senza estendersi alla riproduzione intera. L’anafonia non darebbe il fenomeno completo, ed è per questo che adotta l’anagramma. Poi viene l’elemento del prefisso, l’inventario è vasto: ana, para, ipo, anti… e Saussure a volte insiste sull’interesse che ha l’ipogramma. Ipogramma come ciò che sostiene l’esistenza di una parola, come ipochenimum per esempio, la parola-soggetto, che per il fatto di essere sotterraneo nondimeno è la parola originale e originaria. La ricerca di Saussure ha origine dal verso saturnino, un tipo di verso latino arcaico praticato nelle sculture e in qualche testo letterario del IV a.C. Quello che caratterizza i saturnini sono dei fenomeni di ridondanza fonetica. È un fonema che ricorre, che si ripete nel verso e che non ha nessuna valenza semantica. Ma il fenomeno attira l’attenzione di Saussure su un altro aspetto. La ripetizione rivela il fatto che questi fonemi imitano una parola, come un nome dentro. Saussure amplia il campo della propria ricerca e trova gli anagrammi nella poesia latina classica, nella poesia greca e in particolare in Omero. Tornando al campo latino che lui privilegia, trova che qui ci sia una metrica speciale. Poi passa alla prosa. Man mano, vede l’anagramma che pullula dappertutto. 
Lacan evoca per la prima volta gli anagrammai nel suo scritto L’istanza della lettera, dice che Saussure sa ascoltare la poesia. A pagina 103 degli Scritti c’è una nota che si riferisce direttamente agli anagrammi. Questa nota è riferita ad un passaggio del testo dove Lacan evoca la polifonia del discorso, in opposizione alla linearità della catena significante. C’è una polifonia sincronica che si oppone alla linearità della catena significante. Lacan dice questo, che basta ascoltare la poesia. E questo era senz’altro il caso di Ferdinand de Saussure. Basta sentire una poesia perché vi si faccia sentire una polifonia, e perché tutto il discorso venga ad allinearsi sui diversi righi di uno spartito: è la sincronia. Lavorando alla poesia, Saussure non può non sentire un nome nascosto. Chiama gli anagrammi, e Miller lo formula in modo stupefacente dicendo che il fondatore della linguistica strutturale era assalito da questo mormorio nascosto, questo brusio sotterraneo della poesia antica. E il suo sintomo, se sintomo c’è, sarebbe allora quello di sentire il senso nascosto, la cifra nascosta. Questo senso nascosto prenderebbe la forma di un nome proprio disperso in un testo e invisibile. Roman Jakobson pubblica e commenta nel 1971 la prima lettera di Saussure ad Antoine Meillet, che è il successore di Michel Bréal. Jakobson sottolinea il fatto che in questa lettera stupefacente Saussure confida a Meillet un nuovo problema di poetica, problema che sta diventando, con l’etichetta di “anagramma”, il punto cruciale e l’oggetto preferito del suo esame. Secondo Jakobson, questa lettera del 12 novembre del 1906, quindi l’anno precedente all’inizio del corso di linguistica, ci informa sugli inizi e gli studi assidui del linguista riguardo, ed è questa l’espressione che adotta Jakobson, «la poetica fonetizzante e specialmente l’anagramma». Saussure confida a Meillet la sua esitazione per quello che riguarda la fondatezza della propria ipotesi, è praticamente impossibile, a chi ne ha l’idea, sapere se resta vittima di un’illusione o se c’è qualcosa di vero alla base della sua idea, o se c’è una verità che è soltanto a metà. «Cercando dappertutto qualcuno che possa verificare la mia ipotesi vedo soltanto lei», dice a Meillet. «E poiché a questo controllore domanderei al tempo stesso di mantenere la più assoluta discrezione intorno a questa ipotesi, ipotesi forse illusoria, è ancora a lei che mi rivolgerei per riporre la massima fiducia su questo aspetto». Dunque assolutamente non vuole che diventi pubblica questa ipotesi. Jakobson, nel suo commento, dice come sia assolutamente entusiasta di questa ricerca. È assolutamente sorprendente come i 90 manoscritti di Saussure, dedicati alla poetica fonizzante, e in particolare al principio dell’anagramma, siano stati per più di mezzo secolo celati, nascosti, finché Starobinski ha avuto la felice idea di pubblicarne una campionatura scelta con cura e commentata. Jakobson, in quest’articolo, commenta parallelamente le esitazioni di Saussure su queste scoperte. Le stesse oscillazioni sulle voci aperte su un fenomeno che ritiene incontestabile e la paura di essere vittima di un’illusione caratterizzano le ricerche di Saussure in questi due campi. Queste stesse esitazioni, in corrispondenza con Saussure, compaiono in Giovanni Pascoli che insegnava letteratura latina a Bologna e scriveva qualche verso in latino ogni tanto. Saussure gli scrive per chiedergli se negli anagrammi questo sia un risultato fortuito o se ci sia intenzione. Queste lettere sono state pubblicate e commentate da Giuseppe Nava e ci mostrano l’autore fortemente tormentato dalla questione di sapere se certi dettagli tecnici, che si possono osservare nella versificazione, siano fortuiti o se siano voluti e applicati in modo consapevole. Jakobson parla di questa dicotomia che definisce fittizia tra il fortuito e il premeditato, questo era qualcosa che pesava sulla rete concettuale del ricercatore, era un ostacolo per Saussure, pesava su di lui e ostacolava la costruzione della sua dottrina linguistica e i fondamenti teorici delle sue scoperte penetranti nelle regioni inesplorate della poesia. Sono scoperte tanto più sorprendenti considerando che su questa via Saussure non ha incontrato nessuna pietra miliare a indicargli la strada, mentre nelle tesi del suo corso di linguistica generale si trova ispirato dalla ricerca di alcuni precursori. In effetti, Jakobson pensa che la ragione degli anagrammi possa essere stata puramente poetica, dello stesso tipo di quella che presiede altrove alle rime, alle assonanze, ecc. di modo che tentare di dire perché in qualche epoca questo sussista va al di là dei fatti. Il problema non è perché esiste, ma il fatto che esiste. 
Conclude formulando la propria tesi sulla natura essenzialmente polifonica e polisemica del linguaggio poetico che sfida la concezione corrente dell’arte nazionalista, detto altrimenti l’idea vuota e inopportuna di una poesia immancabilmente nazionale. Jakobson non si ferma su questo aspetto di delirio, il delirio consiste nel chiedersi se è fortuito o se è voluto, e alla fine dà su questo a Saussure cauzione. 
Per concludere, torniamo a Lacan, che era venuto a conoscenza degli anagrammi. Ho menzionato il primo riferimento di Lacan agli anagrammi, ve ne sono altri visibili in Radiofonia e nel seminario Ancora. Miller sostiene che, per quanto vi si riferisca in modo relativamente discreto, questo riferimento tuttavia non è meno essenziale. È essenziale nella misura in cui propone quello che chiama lalangue. Quel che Lacan chiama lalangue è lalangue anagrammatica, e non lalangue come oggetto costruito, ripulito, limpido. Non è la lingua sintattica, la lingua del corso di linguistica. È fondamentalmente la lingua sincronica che riduce la storia, l’affettivo, l’ideologia e il mondo. Lalangue è la lingua di allitterazioni, è la lingua di inanità sonore, e il poeta lavora con e su questo materiale fonico. «Di notte sogno in forma di giochi di parole», dice la poetessa americana Anne Sexton. Lei che amava talmente i palindromi diceva anche: «So di certo che le parole sono un gioco che racconta, lo so fino a che cominciano a disporsi in un modo che scrivono qualcosa di molto meglio di quanto io mai potrei fare. Tutto quel che sono è l’artificio di parole che si scrivono da sole». È su questa frase che allora Lacan può formulare che l’inconscio è una condizione della linguistica. È l’ipotesi dell’inconscio che manca a Saussure, come segnala Miller. L’ipotesi dell’inconscio che si formerebbe così dunque, che le parole giocano da sole. 





DOMANDA
Più che una domanda, è una richiesta di approfondimento sul caso clinico di cui ha parlato. L’intervento che lei ha fatto e che poi ha prodotto, mi sembra in après-coup, il sogno in cui il paziente fa domanda alla scuola di psicoanalisi (NLS), per cui la presidente gli chiede se non ci sarà il rischio di trasferire l’odio per il padre e la madre alla scuola. Sognare una cosa del genere è illuminate. Il suo intervento, e su questo volevo chiedere come lei stessa in après-coup lo ha giudicato, è stato particolarmente incisivo sul tempo, nel senso che l’analista ha detto “l’Altro non può piangere sempre”, il “non sempre” ha introdotto una scansione temporale, una sorta di fort-da, dove il paziente vedeva solo una continuità, il marchio della langue e quello che lui stesso sognava come flaconi ininterrotti, una difficoltà a mettere delle scansioni. Mi sembra che quel “non sempre” abbia introdotto proprio qualcosa di questa scansione. E mi chiedevo se il paziente l’ha sviluppato oltre il sogno dell’odio, perché anche lì c’è un rischio di metonimia, l’odio dal padre e dalla madre alla scuola che presenta un numero illimitato di possibilità di spostamento. Se dopo il paziente si è interrogato, lei lo ha accennato, su “chi odio chi”. Che è un modo di circoscrivere questo inconscio che ha marcato il corpo iniziale in un pianto materno che continuava col suo. Prima piangeva la madre, quando la madre andava via piangeva lui: una simbiosi nel pianto, una trasfusione di pianto. Con quel “non sempre” credo che lei abbia messo una scansione a questa trasfusione di lacrime.

RISPOSTA
In effetti, in questi pianti i due piangono ma non si sa bene chi pianga chi, è la stessa cosa. Nel transfert mi domandava di piangere con lui. È il motivo per cui sono tanto dura con lui. Ed è per questo che paga caro, e non volevo ridurgli il costo delle sedute. Era la prima volta che emergeva la questione dell’odio, che è importante per lui, ed era da molto che aspettavo che emergesse. È un nevrotico ossessivo, non aveva niente di paranoico. C’era continuamente questa domanda che faceva all’Altro, una domanda terribile. Si alza dal divano, non riesce a fermarsi, continua a parlarmene fino a quando usciva dalla porta, l’enunciazione ha un suo stile, è così. E alla fine questo pianto è equivoco, il pianto della madre piange di amore o di odio: “mi odia perché sono così malato o piange perché mi ama e mi vede malato?”. È vero che i pianti della madre lo hanno cullato per tutta l’infanzia, quando lei l’ha accompagnato all’ospedale. Per questo dicevo che era lalangue che bisognava affrontare in qualche modo. È un godimento da cui deve separarsene, se vuol vivere, per poter desiderare. 

DOMANDA
In merito all’ultima parte della esposizione, sui fonemi, mi è venuto in mente qualcosa che ho trovato nella passe di Paola Bolgiani. C’è questo mar, un suono che lei ha reperito nella sua storia, che ricorre come mare, Maria,… Mi chiedo se questo non ci chiama ad avere un ascolto diverso sin dalla prima seduta, cogliendo il ripetersi degli stessi fonemi.

RISPOSTA 
Di fonemi che formano un nome. Un esempio:

DONOM AMPLOM VICTOR
               A   PLO            O
AD MEA TEMPLA PORTATO
A                    PL      O          O

Si tratta di un oracolo, relativo all’assedio di una città etrusca. L’assedio finisce, riescono a conquistare la città. Il generale vincitore porta le offerte al suo tempio. Saussure ricava, sulla base di una metrica anagrammatica, il nome del dio Apollo (APOLO). Non riveste alcuna importanza il fatto che i fonemi non siano in una successione precisa, infatti le “O” si rovesciano. Saussure sentiva il brusio degli anagrammi, ne ricavava un suono. Jakobson riprende nel De rerum natura e vi ritrova dappertutto l’anagramma della dea Afrodite. Starobinski in testi di Omero vede l’anagramma di Agamennone in diversi versi. Nella poesia di Anne Sexton vi sono molti anagrammi costruiti in questo modo, in una di queste si vedono gli anagrammi tra rats e star, tra live e evil: rats live on no evil stars. Su questa base elucubra un sapere, costruendo il topo come il rovescio della stella, cosa che funziona soltanto se la si dice in inglese. Jakobson dice che è questo il lavoro del poeta, possiamo dire forse che è qualcosa di innato nel poeta. La passe di Palomera girava intorno a una parola, una parola anagrammatizzata che acquistava una certa importanza nell’analisi e costitutiva il significante guida del suo godimento. 

DOMANDA
L’esempio dell’oracolo mi ha mostrato il rapporto tra lalingua e l’oggetto voce. Fa pensare al rapporto tra lo sguardo e l’occhio, come è esposto da Lacan rispetto al quadro Gli Ambasciatori: c’è un oggetto incomprensibile che però emerge nel momento in cui vediamo le cose in un altro modo. Qui i versi li si vede in un altro modo, ed è come se venisse fuori, emergesse, l’oggetto voce. 

RISPOSTA
Sicuramente l’oggetto voce è quel che resta del significante quando viene eliminato il senso. C’è un articolo di Miller dove sviluppa come l’oggetto voce sia un resto dell’operazione significante. L’oggetto voce secondo Lacan, articolo tradotto anche in italiano in un numero di Agalma. C’è stato un lungo periodo in cui nelle cure si parlava di separazione nei termini di oggetto separato, l’oggetto che condensa il godimento. Nell’analisi bisogna separarsi, nel senso di separarsi dalla propria dimensione superegoica e dalla pulsione di morte. Quando si evoca l’inconscio come lalangue come si può parlare di separazione? Si tratta di circoscrivere un godimento, è un modo di separazione. Per questo paziente, Nicos, dicevo di circoscrivere il godimento intorno a dei pianti, è l’altro aspetto del separarsi da questo oggetto odiato. 

DOMANDA
Proporrei una riflessione che collega le tre parti del tuo intervento sul filo della nozione del tempo. Con molta decisione Giovanna Di Giovanni ha individuato questo tema della scansione nella tua descrizione clinica. Scansione temporale che sappiamo essere un elemento fondamentale del modo di conduzione della cura lacaniana. La scansione è la punteggiatura che dà una diversa lettura del testo, il momento di sospensione che fa emergere un altro angolo visuale, come l’esempio clinico mostrava molto chiaramente. E il tempo è qualcosa di fortemente correlato con il problema della lingua, per esempio è stato studiato il cosiddetto linguaggio degli animali come le api, di cui Lacan parla. Un’ape può dare delle indicazioni sulle direzioni in cui si trova del polline, ma quello che non può fare è dare un messaggio che venga poi trasmesso e che si mantenga. Nelle api il messaggio si esaurisce lì, immediatamente, non ha una sospensione che è la caratteristica del linguaggio umano. Cioè il linguaggio umano si caratterizza per il poter sospendere il riferimento, quindi di potersi trasmettere. Il collegamento è con Abramovic che sembra dia il senso della concretezza del tempo, per esempio le opere in cui lei sta seduta su un tavolo e gli spettatori possono, uno ad uno, mettersi davanti a lei. Sta per dei giorni. Delle performance in cui c’è l’immobilità e il senso della durata. In un’opera ciò salta agli occhi: è un filmato, lei è immobile davanti ad un asino e la scritta sotto corre rapidissima, raccontando tutta la sua storia. Quindi c’è un grande dinamismo verbale e un’immobilità dell’immagine. E l’inverso di quello che sarebbe un film d’azione americano in cui c’è molto movimento e pochi dialoghi. In fondo, quella durata che Miller dice, commentando Il tempo logico di Lacan, che cerca di comprimere al massimo ma che deve comunque consistere in una sostanzialità irriducibile, è appunto quella scansione della clinica che nel tuo caso ci hai mostrato. 

RISPOSTA
È una performance che Abramovic faceva in diverse città, in particolare a New York al Modern Museum of Art, dove lei stava ferma e le persone che si sedevano davanti alla presenza dell’artista avevano reazioni diverse, alcuni ridevano, altri scoppiavano in lacrime… Il tema della performance era il modo in cui si collegavano a questo altro, alla presenza dell’artista. 

DOMANDA
In Marina Abramovic colpisce il riferimento al disgusto, perché nella nozione classica di sublimazione abbiamo l’effetto pacificante dell’arte piuttosto che il disgusto. Qui si tratta di un effetto non pacificante, né per l’artista né per lo spettatore. Colpisce che lei, alla fine della performance, dovesse andare a lavarsi per togliersi di dosso il resto. Chiedevo: questa che nozione è di sublimazione rispetto a quella classica? E poi rispetto alla separazione? Come se in questa performance ci fosse poca separazione nell’atto artistico, tanto che dopo l’atto artistico ci fosse bisogno di separarsi.

RISPOSTA
La body art è innanzi tutto un’arte molto melanconica, è un’arte che parla del lutto. C’è un testo di Delillo, tradotto con Il tempo del corpo, che parla di una performance e che racconta come attraverso questa l’eroina fa il lutto della scomparsa del compagno, mostra come ciò accada attraverso la separazione dall’oggetto. E mostra come lei porti ancora nella performance l’oggetto amato per separarsene. Gli artisti di questo tipo di arte, con le loro performance, alludono a questo oggetto orribile, in particolare all’oggetto voce. Alludono all’orrore dell’oggetto, piuttosto che alla necessità di dargli una veste fallica, di renderlo bello. È un’arte molto particolare, infatti devono riuscire con questo a toccarci, a interessarci, e Marina Abramovic è ciò che caratterizza la nostra epoca. 

DOMANDA
A proposito del caso clinico, chiedevo se c’è un rapporto tra il fantasma del morto vivente, dello scarto, che produceva tutta quest’angoscia, quasi una realizzazione di questo fantasma, e il pianto della madre. Chiedevo se la possibilità di separarsi un po’ da questo fantasma, con gli effetti disangoscianti che questo può avere, dovesse passare per questo pianto.

RISPOSTA
Come ricordava Fabio Galimberti, il fantasma è una macchina che trasforma il godimento in piacere. Si tratta di sapere dove comincia la pulsione di morte o l’oggetto. È questo che porta il soggetto in analisi, altrimenti ciascuno si accontenterebbe del proprio fantasma. Per Nicos il fantasma di morto vivente è un fantasma di scarto. Ha detto una volta: “Non sono lo scarto dell’umanità”. Un’altra volta: “Non sono l’ebreo dell’umanità”, cioè il rifiuto. L’oggetto, il pianto della madre, è godere di questo oggetto scarto, scarto odiato dell’altro. È questa per lui la posta in gioco. Perché non potrà far niente, sarà sempre malato. È chiamato a vivere il tempo che potrà vivere, ed è impossibile. Bisogna in questo cercare il passaggio.




Nassia Linardou

Trascrizione diTatiana Luisi
Revisione redazionale di Giuseppe Perfetto