martedì 14 gennaio 2014

Seminario del 21 settembre 2013. Docente invitato: Laure Naveau

Il vero e il reale. Il malinteso, il Ben dire e l’etica della psicoanalisi
Ringrazio il mio amico Marco Focchi, come pure l’Istituto Freudiano di Milano, per questo invito ad unirmi alla vostra riflessione sullo straordinario testo di Lacan intitolato Televisione, in prospettiva del prossimo Congresso dell’AMP dedicato al reale. 
Il passaggio di Televisione su cui mi sono basata è la sua prima frase: 
“Dico sempre la verità: non tutta, perché, dirla tutta, non ci si riesce. Dirla tutta è impossibile, materialmente, le parole mancano. Proprio per questo impossibile la verità dipende dal reale”. 
Questo è il mio programma, poiché la regola del gioco era questa libera scelta. E questo mi ha appassionata. 
Ve lo racconterò come si racconta una novella. 
Per questo programma, sono passata attraverso il matema lacaniano dell’inconsistenza dell’Altro e sono arrivata a quello che J.-A. Miller ha qualificato, nel suo Corso, come “deriva del vero rispetto al reale” (JAM, 10.01.2007). Questo mi ha condotta sino alle rive del malinteso, di cui Lacan diceva che è quello che ereditiamo, che è quello che spiega il disagio nella civiltà, con questa affermazione, così sorprendente, della fine ultima, del suo insegnamento: “Di traumatismo, non ce n’è altri: l’uomo nasce malinteso”. Questo evoca un reale. 

All’orizzonte della mia lettura di Televisione, vi è, dunque, una preoccupazione che ci è comune, e che è il prossimo incontro dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi (AMP), nell’aprile del 2014 a Parigi, sulla nozione del reale e, più precisamente, su “Un reale nel XXI secolo”. È una preoccupazione di civiltà, sulla quale tornerò nel corso della mia esposizione, poiché ritengo che l’intervento di Lacan alla Televisione avesse pure questa mira, civilizzatrice. Per esempio, quando egli ha evocato la sua etica del Ben dire, che presupponeva anche – come nota in esergo, a proposito di Jacques-Alain Miller – di saper leggere, quello che preoccupa Jacques Lacan, all’epoca, sono gli analisti. Questa è una preoccupazione che ha a che fare con il reale. Saprete sicuramente che, qualche anno dopo, egli scioglierà la sua École Freudienne de Paris, per separarsi dagli analisti che facevano torto alla psicoanalisi, sviandone il suo insegnamento. 
Tuttavia, all’origine di questa rilettura di Televisione, c’è anche una preoccupazione che è assolutamente personale, che mi è particolare, e che si congiunge a quella dell’etica della psicoanalisi. 
Questa preoccupazione concerne un certo rapporto con la lingua e il reale o, più precisamente, un rapporto con il dire e con il modo di dire, nel suo legame con il Tutto e con la verità. Ed è quello che, per me, attraversa il testo Televisione. Di questo rapporto con il modo di dire, di questo godimento del modo di dire, ho testimoniato nella mia passe, quasi dieci anni fa. La testimonianza è stata pubblicata con il titolo: «La voce dolce ». Una testimonianza che mette in gioco il rapporto con la lingua e l’oggetto che si è dispiegato nella mia vita, ivi compreso sotto forma di un certo mutismo sintomatico. Da allora sono andata avanti rispetto a questa prima elaborazione, che continua quindi oggi qui con voi. Questa cosa mi è particolare perché, quando ero molto giovane, avevo incontrato, come altri della mia generazione segnata dal maggio ‘68, un certo modo di dire famigliare, sociale, piuttosto liberato, dallo stile interpretativo, molto in voga all’epoca della mia adolescenza. E questo modo di parlare, questa “deformazione di linguaggi”, spesso intempestiva direi, in cui tutto, o quasi, doveva aver senso all’infinito, aveva lasciato in me alcune marche. Diciamo che, per quanto mi concerne, sono stata marchiata, come ognuno, dall’incidenza della lingua, dall’acqua del linguaggio, dall’acqua che, come enuncia poeticamente Lacan nella sua Conferenza a Ginevra sul sintomo, “lascia qualcosa passando, alcuni detriti, con i quali bisognerà pure che ci si sbrogli.”
Possiamo dirlo così : ci sono, come Jacques-Alain Miller ha formulato nel suo testo intitolato “Biologia lacaniana e eventi di corpo”, degli eventi di discorso che provocano eventi di corpo. 
Tuttavia, possiamo anche dire che la psicoanalisi ha messo in valore questo fatto importante, che è il suo fondamento: che il momento in cui il desiderio si umanizza è quello in cui il bambino nasce al linguaggio. La psicoanalisi rivela questa profonda umanità del linguaggio, che dà al soggetto la sua dignità. 
Tuttavia, se ognuno è marchiato da un reale della lingua e se Lacan ha battezzato tale reale senza legge con il neologismo di lalingua, in una sola parola, per dire che ognuno parla la sua lalingua, dal canto mio io sono stata marchiata da uno stile di linguaggio proprio dell’ambito psicoanalitico dell’epoca, in cui i miei parenti stavano evolvendo. L’imperativo superegoico del “tutto deve avere un senso, nascosto” risuonava nelle mie orecchie come una verità tutta, di fronte alla quale, io credevo, non c’era, paradossalmente, più niente da dire. Credevo che l’Altro, che io amavo, sapesse tutto, poiché si autorizzava a rivolgersi a me con tale entusiasmo interpretativo che mi stigmatizzava e che mi rendeva come responsabile di un inconscio colpevole, di cui io mi punivo. E, nella misura in cui c’era questo sapere preliminare, che si presentava come uno svelamento, un sapere sul mio essere, sulla mia sessualità di adolescente, sui miei atti inconsci, questo ha avuto delle conseguenze sul mio modo di godere, e sul mio rapporto con il sapere, sotto forma di una inibizione. Ho creduto che non avessi il diritto di sapere, anche se ero quello che si chiama “una brava scolara”. Allora, dapprima mi sono rivoltata. In seguito ho scelto di tacere. E tale posizione silenziosa ha avuto conseguenze sulle mie scelte di desiderio e di godimento. Il malinteso, ovviamente, era dietro l’angolo, giacché il fine conscio dei miei parenti non era certamente questo. Il fine era, senza alcun dubbio, di far crescere i loro di Lumi, quello che la rivoluzione psicoanalitica rappresentava per loro, e di conquistarli alla sua nobile causa. Ma diciamo che, maledizione!, anch’io ci ho messo del mio e mi sono prestata un po’ troppo a tale messa a nudo, mi sono rimessa un po’ troppo preteso sapere tutto dell’Altro, che io amavo, al quale ho lasciato tale potere, tale agio. Quella che, in seguito, ho potuto nominare come patologia verbale del dire tutto mi aveva ridotta al silenzio colpevole che fa’ sì che si ceda sul proprio desiderio di dire, sulla propria posizione, e che ci si senta in colpa. Giacché è proprio in tale abdicazione rispetto al dire che la colpa interviene. Sino al momento in cui ho ripreso la mia parola in proprio, impegnandomi in un’analisi, per saperne qualcosa dell’inconscio che mi faceva brutti scherzi, per rendermene responsabile, per crederci. E per diventare analista. La mia analisi è durata quasi vent’anni. E, come il mio analista ha evocato un giorno, durante una seduta, sono diventata una narratrice. Con la virtù analitica di un’interpretazione, enunciata nel dire-a-metà e sostenuta da un transfert potente nei confronti dal mio analista, tale significante ha operato come una sovversione del pathos del dire, un superamento e un’elevazione alla dignità del racconto. E così, liberandomi da un’istanza superegoica che ho potuto ridurre, alla fine dell’analisi, al suo valore di godimento, attaccato all’oggetto voce, fuori senso, sono arrivata sino alla passe che ha fatto di me un’AE, un’analista della Scuola. Diventata analista tramite la sovversione del soggetto e in virtù di un desiderio inedito nel suo rapporto con l’oggetto, ero supposta, come Lacan si augurava quando ha inventato la Passe, “testimoniare dei problemi cruciali per la psicoanalisi”, a partire dal punto in cui ero arrivata: quello di un impossibile da dire aldilà di quello che si poteva dire, che mi lasciava senza voce, e che poteva tuttavia sostenere questa posta in gioco della dimostrazione e della trasmissione ad altri.
Quello che avevo scoperto, di fatto, si riassumeva in questo, a cui avevo dato il nome, nel corso della mia analisi, di quarto complesso familiare: si trattava di una sorta di complesso del dire tutto, a cui non sapevo come sfuggire senza perdere l’amore dei miei. 
Il traumatismo qui verrebbe dal dire tutto, dallo scatenamento del senso, sotto il cui colpo è impossibile che non vi siano parole che feriscono. Giacche voler dire tutto non tiene conto del principio, pur tuttavia eminentemente lacaniano, secondo cui non c’è Tutto. 
Questa tesi è il fondamento dell’insegnamento di Jacques Lacan sin dal suo Seminario VI, Il desiderio e la sua interpretazione, che Jacques-Alain Miller ha appena pubblicato in Francia. Ne ha fatto un commento strabiliante questa primavera, ad Atene, nell’aprile 2013, dal titolo: “L’Altro senza Altro”. Poiché non ero ad Atene, l’ho scoperto qualche giorno fa’ con estasi, mentre mi ero già messa al lavoro quest’estate, per l’Istituto, sulla questione dell’“Altro della verità” e su “quello che non si può dire”, per commentare il testo di Televisione. Ho pure scoperto, e con che sorpresa! che il tema scelto per le prossime giornate della NLS a Gent, nel 2014, ha come titolo “Quello che non si può dire”. La mia preoccupazione risuona quindi “realmente” con l’attualità!

Non c’è tutto – Lacan sosterrà questo principio sino al suo ultimo respiro. Lo lascerà come un lascito, un deposito, un’eredità, concludendo il suo ultimo Seminario, a Caracas, nel 1980, su questa frase così commuovente: “ovviamente, non vi dico tutto, questo è il mio merito”. 

Il rovesciamento logico proviene da quello che aveva pronunciato, nel suo grande testo inaugurale su “Funzione e campo della parola e del linguaggio”, scritto vent’anni prima di Televisione: il soggetto è un effetto del discorso, in particolare del discorso dei genitori. Ed essere effetto di discorso presuppone che noi siamo parlati prima ancora di essere parlanti. Questo, però, non sopprime il fatto che, in quello che avviene di noi, al di là delle nostre determinazioni significanti, la psicoanalisi postula che ognuno ha la sua parte
“Della nostra posizione di soggetto, siamo sempre responsabili”, scriveva Lacan, qualificando tale postulato come “terrorista”. E, dal canto mio, ho preferito, un giorno, quel terrorismo della responsabilità della propria posizione fantasmatica, molto più tenero rispetto a quello che mi rendeva prigioniera di un Altro del senso che avevo fatto consistere.
Siamo responsabili, ad esempio, del modo in cui ci impadroniamo dei significanti dell’Altro, della lingua che si dice “materna”, dei suoi S1, in quanto la facciamo nostra, in quanto ci mettiamo del nostro, ci mettiamo il nostro corpo, i nostri affetti. E, quindi, ho fatto mio il principio psicoanalitico secondo cui c’è una posta propria del soggetto, una posta libidica, come diciamo, che è decisiva rispetto al sapere dell’Altro, al discorso dell’Altro. E che vi sia una modalità di risposta singolare alla domanda e al desiderio dell’Altro di cui siamo i ricettacoli e i depositari, questa si chiama posizione soggettiva e questo cambia molto le cose. Per esempio, questo fa deconsistere l’Altro della lingua e fa esistere quell’UNO di godimento, proprio di ognuno, sul quale Jacques-Alain Miller mette l’accento nel suo ultimo Corso.
Ho quindi scoperto, in analisi, che ci sentiamo colpevoli di aver ceduto sulla risposta, di aver ceduto su una posizione soggettiva, che si affrancherebbe dal fantasma dell’amore, e di aver lasciato all’Altro l’incarico di una verità che non esiste. Quello che Lacan indicizza come etica della psicoanalisi è questa dimensione etica dell’azione e del dire, che prende il sopravvento sulla passione, sulla dimensione fantasmatica.

TELEVISIONE
Capirete perché sono stata sensibile a questa entrata in scena di Lacan, nel suo intervento pubblico alla televisione, quando enuncia da subito quest’affermazione straordinaria, che introduce e orienta per me tutto quello che seguirà nel seguito del suo intervento televisivo, e molto oltre: “Dico sempre la verità: non tutta perché, tutta dirla, non ci si arriva. Dirla tutta è impossibile, materialmente: mancano le parole. Ma è proprio per questo impossibile che la verità dipende dal reale.”
Annotazione in margine di J.-A. Miller : S(A /) 
(Osservazione: Lacan attribuisce a J.-A. Miller, con le sue note a margine, il fatto di essere “colui che lo sa leggere”.)
Questa maniera di entrare nel tema, da parte di Lacan, sarà formulata poi in diversi modi, e potrebbe essere riassunta così: Zitto (non c’è risposta, parola, dice nel suo Seminario Ancora). Non si può dire tutto perché manca la parola, parche, nel linguaggio, nel simbolico, c’è un buco. 
Ma un’analisi mette alla prova quello che non si può dire, sforzandosi di dirlo. Girando attorno a quel buco e circoscrivendolo, si restringe il punto di quello che si ridurrà, alla fine dell’analisi, a un reale. Lacan, in seguito, darà a questo buco (“trou”) il nome di “troumatisme” che, in francese risuona con traumatismo, e gli dà questo valore di reale. 
Jacques-Alain Miller, d’altro canto, molto tempo fa aveva sottolineato il rapporto tra trauma e buco, quello della sofferenza dovuta all’impossibile da dire e del dovere di dire, in una conferenza fatta a Gerusalemme (pubblicata in Mental n. 25, p.21). 
Tentare di parlare di quello che non si può dire, nell’ambito della propria analisi, è il modo di rendere omaggio all’inconscio, di crederci, di dargli il suo posto e di leggere il sintomo. L’analisi è una prova di verità, un tentativo di dire la verità del proprio sintomo, alfine di ridurlo. E “il compagno analista”, come dice J.-A. Miller in un Corso del 10 gennaio 2007, “è lì per ispirarvi una certa passione del dire vero”. Ma quello che Lacan ha inventato con la passe, aggiungeva, è che, quando si raggiunge quel punto, quello di un inconscio cosiddetto “reale”, si è supposti sapere che la verità è un miraggio, che è una menzogna. 
Quindi, è in questa dimensione della verità che la menzogna ha un senso ed è ciò da cui si tratta di sapersi estrarre, estraendosi dal senso.
E quindi, postulo che, con la logica e con la fine di Televisione, si può tentare di risolvere questo paradosso dell’impossibile della verità tutta e della menzogna di quello che si può dire. 

Modo di dire, modo di godere
Se Lacan risponde a domande apparentemente molto diverse nel corso delle sette parti del testo – questioni così diverse come quelle della verità, dell’inconscio, della santità, dell’affetto, della pulsione, del sessuale, le tre domande kantiane sul fare, sapere e sperare e, da ultimo, – ed è ciò su cui voglio porre l’accento – la questione del Ben dire, mi è sembrata, rileggendo il testo,  l’orientamento che egli vuole trasmettere alla televisione, al pubblico qualunque come pure agli analisti, ed è questa che vi propongo come orizzonte della mia lettura: 
L’unica cosa che ci si può attendere da un’analisi portata a termine è una soddisfazione inedita, che concerne il modo di dire, che egli nomina come “Ben-dire” in quanto “non-tutto dire”. 
Non dimentichiamo che questo testo è stato scritto dopo che Lacan ha inventato il dispositivo della Passe, e la sua esperienza con i suoi allievi non l’aveva soddisfatto. In seguito dirà che la sua passe è stato un fallimento. 
Quindi, lì c’è un reale e, come ha enunciato J.-A. Miller nel suo Corso, vi è uno iato tra il reale e il vero. Questo è ciò che tento di esplorare qui con voi. 
*
I – S(A/)
Partiamo da questo postulato: Lacan si approccia con la logica. 
Con la sua formula, che orienta tutto il suo ultimo insegnamento, “Non c’è rapporto sessuale che possa scriversi”, egli indica che c’è quello che si può dire e che c’è quello che, di quello che non si può dire, si può scrivere. Ci sono le parole e c’è la lettera. 
E mi sembra che Televisione, che è un’invenzione orale di Lacan, metta in valore quello che si scrive. È il valore che attribuisco alle notazioni a margine di Jacques-Alain Miller, che riducono i detti a dello scritto, a delle lettere, a dei matemi. E che fanno passare la parola di Lacan alla scrittura.
Qui, attraverso l’entrata in gioco del matema S(A/), del significante dell’Altro sbarrato, che indicizza l’Altro del linguaggio e della verità all’incompletezza e all’inconsistenza, J.-A. Miller logifica il proprio discorso. Quello che ci viene, quindi, dato da leggere, in primo luogo, è il fatto che tale matema è un paradosso, che afferma un significante anche se sbarrandolo. In questo, esso allevia da alcuni effetti del dire, allevia dall’Altro, allevia dal senso, promuove piuttosto l’Uno al posto dell’Altro. Ed oppone, in certo qual modo, Freud a Lacan.
In effetti, la psicoanalisi nel XX secolo ha avuto questa conseguenza fondamentale: ha insegnato all’umanità a parlare in modo inedito, con l’autorizzazione di saperne qualcosa del proprio inconscio e promuovendo il valore della parola. Ha liberato questa parola rinchiusa in un rigorismo religioso e vittoriano, proprio del XIX secolo, che non aveva più nulla a che vedere con i Lumi del secolo passato, in cui risplendeva un certo «tu puoi sapere» illuminato. Tale liberazione della parola, però, attraverso l’esperienza della psicoanalisi, che fu la vera e propria rivoluzione freudiana, ha introdotto un certo disordine salutare dentro un ordine stabilito, fattore di rimozione e di nevrosi. 
Questo è, credo, il senso della domanda sul sessuale posta a Lacan da Jacques-Alain Miller nel capitolo V di Televisione (p. 86 it): 
«Corre una voce che canta: se si gode così male è perché c’è una repressione sul sesso ed è la colpa, prima di tutto, della famiglia, poi della società e in particolare del capitalismo. » 

Saprete sicuramente che Lacan gli risponde ribaltandogli l’affermazione e mettendo l’accento su di un reale – il reale proprio del linguaggio e della rimozione che le è correlativa: 
« Perché la famiglia, la società stessa non sarebbero, loro, creazioni edificantesi sulla rimozione ? » 
(p. 87).
Così pone che la rimozione è primaria, a causa del linguaggio, e insiste sulla funzione del superio: « L’ingordigia con cui Freud denota il superio è strutturale, non effetto della civiltà ma disagio, vale a dire sintomo, nella civiltà» . 
Come possiamo tradurre questo?
In qualche modo, quello che Lacan enuncia è che, da un lato, non c’è bisogno dell’Altro, per costruirsi dei sintomi, che il superio se ne fa carico da solo, con il suo imperativo che Lacan riassume in un verbo e in punto esclamativo: «godi!». 
Il che significa, parafrasandolo, che il godimento è strutturale e che, benché sia traccia nel corpo di quello che c’è del vivente in ognuno, ineliminabile e necessario, è causa del disagio nella civiltà. E, d’altronde, questo indica che è l’incidenza della lingua sul corpo che lascia dei marchi, le tracce che Jacques-Alain Miller ha chiamato « eventi di discorso ».
Certo, con la nascita della psicoanalisi, abbiamo assistito a quello che Freud ha chiamato « la levata della rimozione », i cui effetti sociali sono stati reali. La liberazione delle donne e la loro rivendicazione di uguaglianza dei sessi, la promozione del bambino come soggetto in quanto tale, la liberazione sessuale, per esempio, sono fenomeni contemporanei dovuti all’invenzione della psicoanalisi. La psicoanalisi ha liberato il senso sessuale che era prigioniero di una repressione con cui il potere stringeva un’alleanza con la religione, con il senso religioso sempre oscurantista. 
Ma il capitalismo, nella sua alleanza con il discorso scientifico, così come si è espresso J.-A. Miller durante la sua presentazione del prossimo Congresso dell’AMP, ha finito col snaturare l’ordine simbolico e il reale della natura, attraverso la promozione del mercato e la globalizzazione di un rapporto con i beni di consumo materiali, con i gadget, che ha preso il sopravvento sul legame sociale, che ha scatenato il sessuale come un bene di consumo da cui si deve trarre profitto ad ogni costo, e che fa dell’amore un oggetto gettabile (cfr. Zygmunt Baumann, L’amore liquido). 
La televisione, per esempio, in molte case occupa lo spazio un tempo riservato alla circolazione della parola nell’intimità della famiglia, e questo ha delle conseguenze sul legame sociale. Un posto simbolico resta vuoto e il reale dell’oggetto ha preso questo posto. Il rovescio del discorso, che il gadget-televisione sembra veicolare, potrebbe, allora, essere tradotto in questi termini: tutto può essere detto, e inteso, da tutti, senza limiti ; tutto può essere mostrato e visto, da tutti, senza velo ; la voce e lo sguardo sono diffusi a livello planetario, l’intimo non esiste più.
Ora Lacan, sin dal suo testo dei « Complessi famigliari », aveva anticipato questo declino del simbolico e il declino del Nome del Padre che gli è correlativo, (del quale, comunque, non si affliggeva affatto), a favore dell’innalzamento allo zenith di quello che ha chiamato « l’oggetto a ». 
Nel suo intervento in Brasile del 2004, intitolato « Una Fantasia », Jacques-Alain Miller ha proposto il matema della civiltà moderna, a>I, che logifica il nuovo rapporto tra l’oggetto e l’Ideale, tra l’oggetto a e gli ideali della società, in cui è l’oggetto che viene ad essere in primo piano. Ha indicato anche che questo matema della civiltà è correlativo del matema della psicoanalisi. 
E quindi, Lacan, invece della nostalgia del vecchio ordine, ha proposto un’altra lettura di questo fenomeno. Si è opposto alla deriva del dire tutto e del vedere tutto, che ha anche chiamato: un delirio. E senza per questo voler riabilitare il padre, il Nome del Padre, che ha ridotto a un sembiante, egli ha enunciato il principio secondo cui c’è un limite
D’altronde questo limite lo pone anche come confine, a proposito delle donne, quando evoca in Televisione « che non ci sono limiti alle concessioni che una donna può fare, per un uomo, del suo corpo, dei suoi beni, … e che, superati i confini, c’è il limite, da non dimenticare. » È un riferimento al suo seminario Ancora, in cui sviluppa il lato illimitato del godimento femminile, il suo lato non-tutto, che lo oppone al godimento maschile, limitato dal fallo. 

S(A /) e l’etica della psicoanalisi
Come ho già detto, con il suo matema ispirato a Gödel, che formula l’inconsistenza dell’Altro e la sua incompletezza (che si scrive S di A sbarrato), Lacan afferma che no, che non si può dire tutto: c’è un impossibile. E, con questo impossibile, egli inventa il reale lacaniano e la struttura del non-tutto. E così battezza con il termine lalingua, in un’unica parola, il reale della lingua stessa, che è il suo limite, il suo senza pari, il suo impossibile proprio. 
Lacan oppone al dire tutto della sua epoca, quella degli anni ‘70, l’epoca della sua Televisione, uno stile che, per la sua complessità, fa da punto d’arresto alla follia interpretativa di cui ho parlato prima – la forzatura di un’interpretazione « aperta a tutti i sensi » (Seminario XI, p. 225), che diventa, proprio per questo, intempestiva e fuori luogo, come ho detto. Introduce allora un’altra considerazione sul dire, che qualifica come etico, e al quale indicizza il desiderio dell’analista e la fine dell’analisi stessa: quello del Ben dire dell’analisi. 
Questa è l’epoca in cui fa i suoi Seminari basandosi sulla logica e, in particolare, il ventesimo Seminario, Ancora, in cui tenta di scrivere, con le sue formule logiche della sessuazione, quello che, del rapporto sessuale, non si può scrivere.
In questo contesto, ed è la tesi che sottopongo qui alla vostra riflessione, mi sembra che si possa considerare il Ben dire come appartenente a una categoria logica, quella del contingente, cioè di quello che cessa di non scriversi, mentre il dire tutto rientrerebbe, invece, nella categoria logica del necessario, cioè di quello che non cessa di scriversi
La crisi, il disordine nel reale della società contemporanea sarebbe che essa soffre del necessario, che ha preso il sopravvento sul contingente, e che forclude l’impossibile. 
All’opposto, si vede che il ben dire dell’analisi può essere colto nella forma lacaniana della verità, quella che Lacan indicizza, precisamente, con il non-tutto (dico sempre la verità, non tutta…) :  non-tutto si può dire poiché non c’è tutto nell’ordine della verità, non c’è verità che sia tutta vera. La rivoluzione psicoanalitica non è quella di dire tutta la verità (questo è riservato ai testimoni, di fronte alla giustizia). Quello di cui si tratta è l’impossibile ed è questo reale a cui si deve, con l’esperienza dell’analisi, acconsentire ad abituarsi, a piegarsi. Ci si arriva tramite una piegatura, un ammorbidimento dell’essere di fronte al reale.
Lacan, d’altronde, ha riformulato la verità in termini di varità, che assona con la varietà, la varietà della verità che, come un solido – ciò a cui la paragona – ha diverse facce, a secondo del luogo in cui la si enuncia. E quindi, nell’analisi, anche se ci si deve attaccare, anche se si deve tentare a più non posso, giacché questo è il compito analitico, la verità può essere detta solo a metà, la si può solo dire-a metà, questo è il segreto della psicoanalisi. E questo si scrive con il matema S(A/).
Così, il ben dire si apparenta con il dire-a metà e si oppone al dire tutto e allo scatenamento pulsionale che esso implica : « Ma è proprio per questo impossibile che la verità dipende dal reale. »
Questo è la base che prendo, per la mia lettura di Televisione, nel suo rapporto con il reale del XXI secolo. 
*
II – L’unico tratto
 Lacan entra nel dettaglio di quello che, per lui, è il senso comune, quello che si oppone alla psicoanalisi dando senso « a flussi per la barca sessuale ». 
Il matema del discorso analitico inscrive una separazione tra il sapere supposto, S2, che si colloca nel posto della verità (laddove alloggia il senso), e l’S1 del significante padrone che si trova al posto della produzione e che si riduce, in fin dei conti, al non-senso del segno : S2 // S1
« Due versanti offerti alla struttura, cioè il linguaggio, il versante del senso (…), per la barca sessuale, questo senso si riduca al non senso : al non senso del rapporto sessuale.
Il buon senso, considerato come senso comune, rappresenta la suggestione, la psicoterapia.
Al versante del senso, lo studio del linguaggio oppone il versante del segno. »
In questa opposizione tra il versante del senso e il versante del segno Lacan introduce la scrittura. Non è un caso se, in quel momento, segnala ai suoi allievi la pubblicazione del libro di François Cheng, La scrittura poetica cinese. Mette allora in valore ciò che, di quello che si scrive, si riduce al tratto, e persino, all’unico tratto (l’unico tratto di pennello, in cui il corpo è implicato), che qualificherà, alla fine del suo insegnamento, come significante da solo, equivalente all’unico tratto di godimento proprio di ciascuno, quello « che non ha più alcuna portata di senso », e a cui si può ridurre un’analisi condotta sino al suo termine: (p. 515 degli Autres écrits – p. 72 della traduzione italiana) 
« Nei testi di Freud, non si tratta di nient’altro che di una decifrazione di dir-menzione significante pura. (…) Una traduzione in cui si dimostra che il godimento che Freud suppone al termine del processo primario, consiste propriamente nei defilés logici in cui egli ci guida con tanta arte. »
La dit-mensione, in francese la traduciamo come la « casa del detto» (mansione del detto), e Lacan la riduce a un UNO: nel mondo dell’essere parlante c’è dell’UNO.
Si tratta, quindi, di snodare con le parole quello che è stato annodato con le parole, vale a dire di snodare il nodo di significanti – di cui il sintomo, per ognuno, consiste – per ridurlo all’UNO del tratto, a un resto fuori senso.
Così il nodo è stato introdotto in seguito da Lacan nell’esperienza della psicoanalisi, che pone un’equivalenza tra i tre registri, immaginario, simbolico e reale, laddove prima tutto era dominato dal simbolico. In un’analisi, l’operazione consiste nell’annodare e nello snodare la materia significante, nell’agire sul significante introducendovi il godimento e il corpo, alfine di ridurre il senso, quel senso eteroclito che fornisce solo la cifra del senso: 
(pagina 516 degli Autres écrits – p. 73 della traduzione italiana) « La batteria significante de lalingua fornisce solo la cifra del senso (...), la gamma enorme, disparata, di sensi- eteroclito ». 
Tale operazione allevia il soggetto dal peso del senso. 
« Agire sul significante per ridurre il senso » – ciò significa almeno che si tratta, per l’analista, di agire sul significante, attraverso l’equivoco, e non sul senso – l’analisi non è una disputa sul senso, né un altro modo di comprendere. (Cfr. alla fine di Televisione: « L’interpretazione deve essere rapida per soddisfare l’interprestito »).
C’è una cosa molto importante che Lacan sostiene qui, come in tutto quello che J.-A. Miller ha chiamato il suo ultimissimo insegnamento, ed è il legame del discorso e del corpo. Nel suo articolo intitolato « Biologia lacaniana e eventi di corpo », J.-A. Miller sviluppa tale tesi, in cui afferma l’equivalenza tra evento di corpo e evento di discorso (Revue de la Cause Freudienne, n. 44, p.44-45). 
Ci sono eventi di discorso che hanno lasciato tracce sul corpo, quelli che noi chiamiamo sintomi. E un’analisi serve a questo: a decifrare tali sintomi lasciati sul corpo dal discorso. Più precisamente, come J.-A. Miller ha sostenuto nella sua presentazione del tema del Congresso di Tel Aviv nel 2012, « Leggere un sintomo», analizzarsi, diventare analista, presuppone di saper leggere un sintomo. E, se si tratta di lettura, è perché si tratta, anzitutto, di una scrittura. Così l’incidenza della lingua sul corpo dell’essere parlante dipenderebbe dalla contingenza di un detto, che si scrive e che attende di essere letto (Mental n. 26, p.56).
In una conferenza più antica, del 1997, J.-A. Miller affermava che il soggetto che viene in analisi soffre essenzialmente di « cose dette». È malato di un certo numero di enunciati, del dire male, di quello che J.-A. Miller ha chiamato, nel 2010, durante il Congresso della NLS sull’interpretazione, « La parola che ferisce ». L’interpretazione dell’analista consiste allora nell’inviare degli « anti-missili » per polverizzare tali detti, i « missili di linguaggio», che sono stati inviati al soggetto. La parola che ferisce produce un concentrato di senso che si incolla alla pelle e che si deve dissolvere. Questo è il « vischio» di cui Lacan parla in Televisione, a proposito del senso, da cui si tratta di scollarsi: (citazione pagina 526 degli Autres écrits) « La virtù che designo come gaio sapere ne è l’esempio, manifestando in cosa essa consista: non comprendere, pizzicare nel senso, ma rasentarlo il più vicino possibile senza che faccia vischio per questa virtù, per questo godere della decifrazione… » 
Per Lacan, il godimento in questione è il godimento della decifrazione. E colui che diventa analista è un santo perché è lo scarto di tale godimento, è il resto dell’operazione. 

Potere delle parole / oggetto a
In Televisione, J.-A. Miller pone a Lacan la seguente domanda: 
Si viene da lei, psicoanalista, per, in questo mondo che lei riduce al fantasma, stare meglio. Anche la guarigione è un fantasma? Lacan risponde e J.-A. Miller annota a margine « potere delle parole ». 
La medicina, da sempre, ha fatto centro con delle parole: quello che è stato creato con parole può essere curato con delle parole, è il fondamento della psicoterapia, per la quale, secondo Lacan, prevale il versante del senso, del buon senso. È quello che si riversa a flotti per far esistere un rapporto sessuale – cosa che lui qualifica come suggestione e che denuncia come ciò che riconduce al peggio, al dio oscuro, a quello che ci affascina e che potrebbe essere, per l’appunto, il dire tutto.
« Maledizione sul sesso », annota J.-A. Miller a margine, per sottolineare il destino fatale di questa patologia del dire.
All’opposto della psicoterapia, che Lacan colloca sul lato della suggestione e che associa anche alla tragedia, il principio che è alla base del discorso analitico si collocherebbe sul lato del comico: è il non rapporto sessuale. I sintomi, che derivano da questo non rapporto, devono essere letti come dei messaggi cifrati e quello che si intende (il significante) di quello che si dice (il significato), deve essere tradotto in termini di godimento. Si tratta di una traduzione. Si tratta di ritrovarsi nell’inconscio, pur cessando di difendersi contro il reale del non-senso.
È sulla disparità dei sensi e sul reale che si estrae quello che J.-A. Miller annota a margine come « l’oggetto a » : « È il reale che permette di snodare effettivamente quello di cui il sintomo consiste, ovvero, un nodo di significanti, le cui catene non sono di senso, ma di godi-senso », scritto con due parole, per far intendere che è del senso che si gode , e che è da lì che nascono i sintomi. 

III. Il santo
 Nella terza parte di Televisione, Lacan assimila quindi l’analista al santo, che qualifica come scarto del godimento, « oggetto a incarnato», come segnala J.-A. Miller a margine, per dire che Lacan stesso ha incarnato questo nella società degli psicoanalisti da cui è stato escluso, la società che Lacan ha battezzato come SAMCDA (Sociétà di Assistenza Mutua contro il Discorso Analitico, p. 76).
E quindi, si può sostenere che l’avvenire della psicoanalisi, e il suo progresso, che egli ha indicizzato, qualche anno prima, al principio della « Passe », consiste nell’aprire, laddove era chiuso a chiave, il campo dell’analisi a tutti coloro che possono testimoniare del loro percorso analitico e del suo esito logico. Per questo proclama qui la sua famosa parola d’ordine « Più si è santi, più si ride ».
Quando Lacan définisce il discorso analitico come un « legame sociale determinato dalla pratica di un’analisi», e quando lo colloca come un legame « che vale di essere portato all’altezza dei più fondamentali tra i legami tra gli esseri parlanti », ci porta sul cammino di questa etica del ben dire, derivata dall’analisi, che ho preso come bussola. 
Il traduttore italiano, d’altro canto, si è preso la briga di precisare che preferisce tradurre il bien-dire con Bene-dire piuttosto che con dire-bene, e di sottolineare quella che chiama la contrapposizione alla male-dizione di cui sopra (103).

IV. Il malinteso e il gaio sapere
Nella quarta parte, sull’affetto e la pulsione, Lacan delucida quello che separa la sua etica della psicoanalisi dall’etica nicomachea di Aristotele e dalle sue virtù fondamentali del Bene, del Bello e del Vero, e J.-A. Miller  lo scrive così : il Ben-dire non dice dov’è il Bene.
Analogamente, J.-A. Miller riassume quello che si dice dell’affetto e del corpo con la menzione dell’essere parlante : « non c’é armonia dell’essere nel mondo…se parla ». Il malinteso dell’essere parlante è fondamentale, per il fatto che parla. Non c’è armonia possibile 
Poi Lacan affronta la questione dell’affetto, e in particolare quello della tristezza, della cosiddetta « depressione », il male del secolo, con termini che avranno una grandissima portata clinica. Lo cito: « La tristezza, la si qualifica come depressione, attribuendole l’anima come supporto (…) Ma non è uno stato d’animo, è semplicemente una colpa morale, come si esprimeva Dante, o Spinoza : un peccato, il che significa una viltà morale, che si colloca, in ultima istanza, solo dal pensiero, cioè dal dovere di ben dire (sono io che sottolineo che Lacan qui ne fa un dovere, al di fuori del quale ognuno è più o meno votato alla depressione : si è colpevoli di mal dire, di fallire nel dovere di ben dire), (continuo la citazione di Lacan) … « o di ritrovarsi nell’inconscio, nella struttura ».
Traduzione che propongo : Soltanto adempiendo a questo dovere di ben dire e di ritrovarsi nell’inconscio, ci si può autorizzare a porsi come analista. 
Qui la nota di J.-A. Miller è chiara: « Non c’è etica che del Ben-dire …»
Continuando sulla tristezza, Lacan aggiunge : « E quello che ne deriva, non appena tale viltà, se è rifiuto dell’inconscio, vada alla psicosi, è il ritorno nel reale di quello che è rigettato, dal linguaggio; è l’eccitazione maniaca attraverso cui tale ritorno diventa mortale. »(39)
È molto importante : il mal dire è assimilato alla viltà, addirittura alla psicosi, in cui il mal dire è una mania.
E, da ultimo, « all’opposto della tristezza, dice Lacan, c’è il gaio sapere che, invece, è una virtù (…) : non comprendere, pizzicare nel senso, ma rasentarlo il più vicino possibile senza che faccia vischio per questa virtù, per questo godere della decifrazione (…) »
Ho già parlato di questo vischio del senso che si attacca alla pelle come una zecca.
La virtù lacaniana, quindi, non è quella di sapere tutto, o di comprendere tutto, cosa da cui mette in guardia gli analisti. La virtù lacaniana è di godere della decifrazione, cosa che assimila al gaio sapere, e che J.-A. Miller annota a margine: « sapere di non-senso »…
È il sapere dell’enigma, del geroglifico, del rebus, del messaggio cifrato, di quello che dà aria al troppo di senso, che lo « rasenta » senza « pizzicarci dentro » (cf. citazione).
La noia, lo sconforto, il cattivo umore, la depressione, la tristezza sono allora gli affetti che derivano del troppo di senso e dal mal dire. Sono discordanti, cosa che Lacan indicizza con il termine « tocco del reale», per dire che non inganna, che in tali affetti vi è un accento di verità reale, che concerne il corpo e il rapporto con l’inconscio, la parola e il linguaggio. 

V. Quando si parla male, si è colpiti dallo sconforto

La parte V concerne il sessuale, la rivoluzione sessuale, in cui la questione della famiglia e della società viene posta da J.-A. Miller in termini di repressione sul sesso. Lacan vi sostituisce l’ingordigia del superio, che spinge a godere, alla repressione, e sostituisce la « maledizione sul sesso » al « disagio della civiltà ». L’impasse sessuale è di struttura, per il fatto di parlare. Ed è questo che ci invita a prendere in considerazione, in quanto deriva da un reale : il reale del non rapporto sessuale è quello che impedisce di dirne tutta la verità. (Dice anche : per il fatto di essere parlanti, si è fottuti).
Per questo, mi pare, J.-A. Miller aveva detto nel suo Corso che « siamo tutti dei disgraziati alle prese con il reale ».

VI. « Cosa posso sapere ? Cosa devo fare ? Cosa mi è permesso sperare ? » 
 In questa penultima parte sulle tre domande kantiane, il sapere concerne la verità come causa, una verità non-tutta, (e anche la donna non-tutta, che le è associata, a tal punto che Lacan fa della verità una donna, « in quanto non è (lo cito) tutta da dirsi. »). Per questo motivo, nel Seminario XX, Ancora, Lacan sbarra il La di La donna : La donna non esiste, così come La verità, ma una donna, esiste, una per una. La logica dell’uomo è una logica del Tutto. L’incontro amoroso è quello che Lacan chiama « la carta-caso dell’incontro », per marcarne la contingenza, è allora contraddistinto da questa opposizione tra due logiche, tra due grammatiche, dove si oppongono due posizioni rispetto al Tutto e al Non-tutto. È un tema ampio, ovvio, quello degli uomini e delle donne, che non posso trattare qui, poiché sto per concludere, ma si potrebbe dire che la contingenza dell’incontro è ciò che dipende da un dire che fa centro, che risuona nel corpo, che tocca la faglia, l’esilio proprio di ciascuno, dei suoi sintomi. Lacan una volta ha scritto che, perché una donna vada (cada) bene, « è necessario che cada su un uomo che le parli secondo il suo fantasma fondamentale », il che evoca un rapporto con l’oggetto del fantasma.
Quanto al « che devo fare ? », esso concerne in modo elettivo la pratica analitica, su cui Lacan fa portare questo unico accento, l’accento che la orienta, e che a mia volta mi ha orientata: 
« Trarre dalla pratica l’etica del ben dire ».
Questo è proprio del discorso analitico, il discorso di cui Lacan è il vero e proprio inventore.
 E quindi, a mo’ di conclusione, e poiché non si può dire tutto, propongo che, per la speranza, di cui Lacan non si fida, la sola cosa da attendere si riassume in questo rovesciamento della fine del suo intervento, la settima ed ultima parte. 
Spero che tale rovesciamento di prospettiva sia diventato, ora, facile da intendere per voi:
Quello che si concepisce bene si enuncia chiaramente.
Quello che si enuncia bene, lo si concepisce chiaramente.
Vi ringrazio. 



Traduzione: Adele Succetti