mercoledì 28 maggio 2014

Seminario del 15 marzo 2014. Docente invitato: Roger Litten

Grazie per avermi invitato a lavorare insieme con voi su questo testo. Forse questo momento di lavoro sarà poco consono, dato che farò un po’ di teatro. Si presenta sempre in questi casi il problema del supporto della voce, e della difficoltà tecnica per la quale possiamo trovare altri modi per sostenere la voce nelle sue possibilità di comunicazione. Si pone una questione qui oggi: come possiamo procedere nella lettura di questo scritto, perché non possiamo ignorare il tema del linguaggio né quello della voce. Lavoreremo attorno al problema della mancanza di una lingua comune poiché io parlerò in inglese perché non conosco l’italiano, e d’altro canto non sono sicuro di poter contare su una particolare fluenza nell’inglese da parte vostra. Questa situazione implica diverse esigenze per tutti noi. In primo luogo per voi che ascoltate, poiché dovrò far affidamento sulla vostra buona volontà e tolleranza, ma anche sul vostro interesse per la cosa analitica e le questioni che scorgete. Poi, per la presentazione stessa, in rapporto alle tempistiche e all’ampiezza di ciò che ci sarà possibile fare, dato che ho un certo numero di cose che mi piacerebbe provare a dire in rapporto a questo testo, ma non ho modo di sapere quanto andremo lontano dovendo affrontare queste condizioni. Più di ogni altra cosa dobbiamo riconoscere l’onere di questo compito a Katia, cui è stato affidato il ruolo di mediatrice e interprete poiché, in effetti, sarà lei a farsi voce oggi e ad avere il compito di tentare di trasmettervi in maniera intelligibile qualcosa di ciò che vorrei dire. Considerato tutto ciò, spetta a noi provare a trovare un modo di far funzionare questa difficoltà. Possiamo almeno aspirare a dischiudere uno spazio di malinteso costruttivo, uno spazio in cui poter aprire alcune questioni, porre alcune domande, anche se per non trovarvi necessariamente delle risposte. È un modo per cercare di mettere a fuoco la questione fondamentale di ciò che pensiamo sia trasmesso in un’esperienza come questa, l’esperienza che stiamo commentando oggi. 
Siamo consapevoli di lavorare insieme attorno alla lettura di un testo: Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio. Questo testo fornisce il punto di riferimento comune per il nostro lavoro di oggi, come pure è una piattaforma per la nostra discussione.
Innanzitutto, vorrei provare a dire qualcosa circa il più ampio contesto in cui si colloca questo particolare scritto, per capire la sua posizione nella vasta traiettoria del lavoro di Lacan, che ritengo fornisca una chiave importante per decifrare ciò che è in gioco nella lettura del testo stesso. È un testo che possiede tutte le difficoltà intrinseche a qualsiasi altro testo che sia contenuto negli Scritti. Eppure ha anche qualche difficoltà peculiare, potremmo dire che il testo è posizionato al limite di una rottura. Se diamo una formulazione più minimale della traiettoria del lavoro di Lacan, come una traiettoria dal desiderio al godimento, possiamo collocare questo testo precisamente sulla cuspide, al limite di questa traiettoria. 
Tenteremo di usare la scrittura per dare un supporto alternativo, e non dover fare affidamento solo sulla voce. 
Questa traiettoria è una semplificazione. Spero di fornire una chiave sia in estensione, nel vasto percorso del lavoro di Lacan, sia in intensione, in termini di traiettoria interna dell’argomento nel testo stesso, testo che ritengo sia importante riconoscere come un miscuglio, quasi contraddittorio in sé.
Per decifrare questo testo penso sia importante cercare di tracciarne la distorsione topologica interna di un argomento, che precisa la questione del soggetto del desiderio, il soggetto del significante, e arriva fino alla questione del soggetto del godimento. Speriamo di essere in grado di collocare all’interno di questa traiettoria tutte le contraddizioni e le questioni che, benché non del tutto inosservate, rimangono un abbozzo anche per Lacan stesso.
È possibile vedere questo testo sia come il culmine sia come un riepilogo del lavoro di Lacan nel decennio precedente, allo stesso tempo pone e formula delle questioni destinate a delinearsi e risolversi solo negli ultimi lavori.
Ora, come se questo testo non ponesse abbastanza difficoltà di per sé, abbiamo il problema associato dell’introduzione nel testo del grafo del desiderio, che Lacan dice chiaramente comportare l’intrusione di un elemento alieno con la propria storia. 
La parte di testo che tenterò di introdurre oggi è situata precisamente nel punto d’introduzione del grafo nella questione. Possiamo considerare il grafo come una mappatura topologico-formale, tale d’avere una sua storia e traiettoria. Sulla traiettoria Lacan specifica che non necessariamente coincide interamente con l’elaborazione della questione del testo. Potremmo, per esempio, ed è ciò che cercherò di fare in parte oggi, tracciare l’emergere e lo scomparire del grafo stesso lungo il lavoro di Lacan. Da un lato abbiamo l’elaborazione topologica del grafo del desiderio, con la sua storia, le sue origini, il suo scopo, la problematica a cui risponde, e dall’altro la questione del punto in cui il grafo è introdotto in questo testo, che di per se stesso delimita un punto d’intersezione e quindi un annodamento topologico.
Voglio provare a porre la domanda su come individuare il punto in cui il grafo stesso si trova introdotto in Sovversione del soggetto, perché credo possa portare a interrogarci su ciò che nel testo si può leggere in modo diverso, e fornire un registro differente, inconscio, del testo, per interrogarci sulla posta in gioco della questione.
Oggi vorrei usare la questione del grafo come punto di riferimento per aprire a un modo diverso di interrogarsi rispetto a ciò che è d’interesse nella questione trattata nel testo. Inizieremo cercando di individuare, di tracciare, il punto di emergenza e sparizione del grafo stesso nel lavoro di Lacan. Per quanto ne so l’uso del grafo da parte di Lacan, culmina proprio nella sua apparizione in questo testo. 
In prima istanza, possiamo anche considerare lo status del grafo come una forma di scrittura, ma più fondamentalmente, in rapporto alla questione della scrittura come una topologia nel contesto della più ampia questione del ruolo della topologia nell’opera di Lacan. Se ci accingiamo a considerare il grafo come tale, dovremo inserirlo nella serie degli schemi topologici proposti da Lacan, nei termini di un ricorso dello stesso Lacan alle risorse topologiche, più evidente nella fase finale del suo lavoro, quando arriva a realizzare il nodo borromeo. Diviene chiaro che la figura topologica è qualcosa che non può facilmente essere letto su una pagina, non può essere letta sulla superficie della pagina di un testo, ma è piuttosto qualcosa che deve essere manipolato, mostrato, praticato. Con questo, andiamo al cuore di alcune fondamentali questioni circa il nostro comprendere ciò che stiamo facendo. Si pone anche, sottilmente, un’altra questione associata: la relazione tra la forma del grafo, il suo tracciato, e la scrittura dei matemi a esso appuntati, perché il grafo di per sé arriverà a essere usa e getta, ma i matemi elaborati attorno al grafo assumeranno una vita propria, diventando parte del vocabolario comune aldilà della specifica lingua che ognuno di noi parla.
Quindi, abbiamo la storia indipendente del grafo nel lavoro di Lacan, qualcosa che ha in esso il suo punto di emersione e di sparizione. Ritengo sia più utile partire dalla questione della sparizione. Tutte le domande che tentiamo di afferrare sul grafo - cos’è, cosa significa, cosa fa, con quale scopo viene usato - possano essere poste a partire dal punto di sparizione, cioè dal punto in cui per Lacan il grafo diventa ridondante.
Se esaminiamo la relazione tra questo testo, Sovversione del soggetto, e il testo che gli segue negli Scritti, Posizione dell’inconscio, vedrete che le date in cui sono presentati risalgono una a settembre e l’altra a ottobre 1960, un mese di distanza. Eppure, averli così vicini ci mostra che essi puntano in direzioni radicalmente opposte nel lavoro di Lacan: se Sovversione del soggetto può essere considerato il culmine del lavoro della decade precedente, qualcosa che possiamo legare all’elaborazione piena della forma del grafo stesso, Posizione dell’inconscio è il testo che introduce le nozioni di “alienazione” e “separazione”, in altri termini punta a velocità massima alla tematica aperta poi dal Seminario VII al Seminario XI. A quel punto il grafo diventa ridondante e scompare dal lavoro di Lacan, benché rimanga per noi un importante riferimento. Se prendiamo seriamente in considerazione la questione che il grafo ci pone, dobbiamo considerare il punto in cui si prepara per l’elaborazione delle nozioni di “alienazione” e “separazione”, per trovare il punto in cui quest’elaborazione rende essa stessa l’apparato del grafo ridondante.
Questo è un modo per cercare di indicare la tracciabilità della storia del grafo, ed anche per tentare di individuare con maggiore precisione il suo punto di introduzione nel testo Sovversione del soggetto, e questo è un modo di pensare la questione in gioco nel testo.
Avendo localizzato il punto di sparizione del grafo nel lavoro di Lacan, vorrei anche tentare di indicare che queste questioni possono essere rintracciate nel momento fondante del lavoro di Lacan, quello che noi chiamiamo l’insegnamento classico. Questo punto d’origine lo possiamo collocare nel momento saussuriano di Lacan. S/s, a noi lacaniani si tratta forse dell’algoritmo più familiare, che quasi rende difficile ritornarci per dirne qualcosa ancora, è quasi l’assioma dell’essere lacaniano. Questo algoritmo costituisce il momento inaugurale della linguistica moderna, e il momento inaugurale dell’insegnamento più classico di Lacan. Esso fornisce il quadro della riformulazione da parte di Lacan della psicoanalisi come tecnica clinica, e le basi per la sua concezione della psicoanalisi come una possibile scienza del linguaggio. Ma penso sia importante sottolineare che il riferimento a Saussure è, in effetti, un indice problematico nel lavoro di Lacan se non diciamo che è un’origine che non coincide con l’inizio. Questo è Funzione e campo della parola e del linguaggio in opposizione a L’istanza della lettera nell’inconscio, proprio come un dispositivo per mettere a fuoco la questione del ruolo della linguistica strutturale come momento fondante dell’insegnamento classico di Lacan, perché potremmo suggerire che è la mancata sovrapposizione tra l’origine e l’inizio a rendere chiara la posta in gioco. La questione non è tanto l’influenza dello strutturalismo su Lacan, e nemmeno la questione delle risorse che Lacan prende dalla linguistica strutturale, cioè la questione degli strumenti che essa offre a Lacan in questo particolare momento di riformulazione clinica e teorica della psicoanalisi. Penso piuttosto che la chiave sia non perdere di vista la distanza che separa Lacan dallo strutturalismo, potremmo dire la distanza che lo separa dalla sua stessa origine, che è forse anche la chiave per capire ciò che Lacan prende dallo strutturalismo senza ignorare le difficoltà intrinseche del modello linguistico. Poiché è da quel punto che possiamo cominciare a tracciare il processo con cui Lacan inizia a distanziarsi dalle sue stesse influenze, che si rivela essere poi la chiave di tutte le formulazioni del suo lavoro più tardo. 
Naturalmente non possiamo ignorare l’impatto che il riferimento alla linguistica strutturale ha avuto su Lacan che, ovviamente, si situa quasi come un taglio nello sviluppo del suo stesso insegnamento, un taglio che ci darà il Lacan che ci è oggi familiare. Ma tende a oscurare, a gettare nell’ombra, tutta la formulazione precedente, e tutto ciò che viene prima del 1953 diventa la preistoria del suo insegnamento. Ciò non coinvolge solo l’elaborazione dello stadio dello specchio, del vecchio registro immaginario, ma anche quello che possiamo chiamare, in poche parole, il filone dominante della formazione psichiatrica di Lacan, che possiamo situare nella linea della tradizione fenomenologica di Jaspers, se siamo pronti a tracciare quella stessa linea indietro fino alla fenomenologia di Hegel. Tutto questo ci consente di porre la questione dell’influenza hegeliana su Lacan per metterla in relazione all’impatto che ha invece avuto il lavoro di De Saussure. Per vedere questa relazione - chiamiamola Hegel avec Saussure - vogliamo interrogarci sullo status della v, del velo: non è Hegel versus Saussure, é Hegel con Saussure, ma nelle formulazioni di Lacan è Hegel contra Saussure. L’uso delle lettere è un modo per individuare questa difficile alleanza tra Hegel e Saussure nel lavoro di Lacan, la fonte di molte tensioni irrisolte nelle sue formulazioni che possiamo collocare alla base di molte altre questioni che Lacan tratta negli anni ‘50, e in maniera più evidente in questo testo della fine del 1950 dove possiamo vedere Lacan lottare per liberarsi dall’influenza hegeliana o, perlomeno, provare a integrare Hegel con il riferimento alla linguistica strutturale.  
Potremmo dire che questo testo è il culmine del riferimento di Lacan all’influenza hegeliana, esattamente nello stesso modo in cui esso è il culmine dell’elaborazione del grafo. Vedrete alcune questioni sorgere proprio da questa congiunzione, complessificando le questioni stesse del lavoro, già intricato, di Lacan, sono riferimenti che diventano difficili da ignorare quando si prende in mano questo testo. Se consideriamo l’occasione per cui questo testo è stato scritto, una conferenza sul tema della dialettica, possiamo vedere come Lacan, attraverso questo testo, prenda precisamente le distanze dal riferimento hegeliano, che è, come spesso si ritrova in Lacan, il modo in cui egli cerca di distanziarsi da se stesso, dalle sue formulazioni precedenti. 
Anche se questo potrebbe essere un modo leggermente tortuoso di leggere il testo è un modo, però, per impostare una cornice che ci aiuti a riflettere sulla posta in gioco nel testo stesso, ed anche a trovarvi molte più specifiche questioni che possiamo formulare nel modo più rapido trattando la questione della rispettiva influenza di Hegel e Saussure su Lacan nei termini della relazione tra parola e linguaggio. È un modo di approcciare la questione. Ma se tentiamo di situare l’influenza di Hegel e Saussure in maniera separata, nei termini di questa distinzione tra parola e linguaggio, solo allora possiamo situare alcune delle questioni hegeliane sul lato della parola, della verità, del riconoscimento, dunque sul lato del soggetto parlante, il soggetto pieno della parola, mentre l’approccio scientifico allo studio del linguaggio, basato sulla distinzione tra significante e significato, lascia aperta la questione di quale sia il soggetto della linguistica come scienza. 
Possiamo provare a indicizzare la questione della presa di distanza di Lacan dalla linguistica strutturale focalizzandoci sul tentativo di Lacan d’introdurre la questione del soggetto in un campo ripulito dalla linguistica strutturale, in primo luogo proprio nei termini della relazione tra soggetto e significante, lasciando il soggetto situato inizialmente sul lato del significato. Perché la questione è il rapporto del soggetto al significante, soggetto che va sotto la barra, sul lato degli effetti di linguaggio: il soggetto può vedere se stesso come effetto di linguaggio, e non solamente come vuoto soggetto del linguaggio, che è un filone importante dell’epurazione di Lacan dalla dimensione immaginaria e psicologica del materiale psicoanalitico. 
Rimane la questione del posto del soggetto parlante, del soggetto della parola, ed è importante sottolineare come non è la stessa questione, poiché è complesso ignorare la questione del soggetto parlante al cuore della clinica psicoanalitica. Infatti, quando arriviamo a vedere alcuni riferimenti del Seminario VI circa l’iniziale elaborazione del grafo, vediamo che Lacan afferma abbastanza chiaramente che la distinzione tra il primo e il secondo piano del grafo implica il tentativo di indagare la relazione tra un primo stato del soggetto, come soggetto catturato dal linguaggio, e un altro stato del soggetto, come soggetto della parola, formulato chiaramente come soggetto che sa come parlare. Ora si ha la chiave per comprendere la relazione tra il grafo 1, all’inizio della sezione, e il grafo 2, alla fine: da un lato il soggetto del linguaggio, dall’altro il soggetto della parola. E abbiamo la questione corollaria della relazione tra quello che possiamo chiamare l’“Altro del linguaggio” e un’altra versione dell’Altro che possiamo chiamare l’“Altro della parola”, o l’“Altro del riconoscimento”. Bisogna vedere la natura di questa distinzione, che non è sempre chiara neanche a Lacan stesso: sia la distinzione tra soggetto del linguaggio e soggetto della parola, che la forma corollaria dell’altra distinzione tra l’Altro del linguaggio e l’Altro della parola o del riconoscimento. Questo ci aiuta a localizzare i punti in cui queste differenti nozioni non si distinguono o si sovrappongono nel lavoro di Lacan, per porre almeno la questione di dove egli sia costretto a distinguere, di dove divenga chiaro che non si tratta dello stesso soggetto, né dello stesso Altro. Perché potremmo dire che la nozione di Altro dell’Altro può essere situata esattamente su questa stessa linea, la quale termina, lo sottolinea Miller in relazione al Seminario VI, nel punto in cui Lacan introduce la formulazione “non c’è Altro dell’Altro”. Molto semplicemente, possiamo anche localizzare la nozione di Nome-del-Padre come qualcosa che lega insieme queste due nozioni eterogenee dell’Altro: da un lato l’Altro del linguaggio e della Legge, dall’altro l’Altro del desiderio, ed eventualmente del godimento. Perché siamo tentati di pensare che l’Altro del desiderio e l’Altro del linguaggio siano lo stesso Altro, senza interrogarci sul perché o come o cosa sia implicato. 
È il meccanismo di alienazione e separazione che mi trova così attento a chiarificare le questioni circa la relazione tra le forme del soggetto e le forme dell’Altro. Il grafo è il primo tentativo di Lacan di lavorare su alcune questioni, un tentativo di distinguere e articolare il soggetto vuoto del significante con il soggetto pieno della parola, così come l’Altro del linguaggio e del significante con l’Altro del riconoscimento e del desiderio. I due piani del grafo tentano di articolare tale questione.
Vorrei ora esaminare l’iniziale formulazione del grafo scritto all’inizio del Seminario V, nel primo capitolo, per poi trattare il ritorno di Lacan alla questione del grafo nei primi due capitoli del Seminario VI al fine di misurare la distanza che è intercorsa attorno alla questione del grafo, così come credo sia necessario tracciare la distanza che ha portato il grafo a essere preso in considerazione alcuni anni dopo. 
Se si ha qualche comprensione delle basilari manipolazioni del grafo, la questione non è solo tentare di capire i tre piani del grafo, come mostrato in questo testo, Sovversione del soggetto. Perché… con l’intento di portarvi i risultati della mia incapacità di cogliere ciò che è in gioco nel grafo… credo sia invece più utile capire qualcosa circa gli elementi del grafo, la sua costruzione e assemblaggio, in quanto, come viene presentato nello scritto, esso è qualcosa che si deve costruire, manipolare, praticare. Ed è in questo modo che lavoreremo con il grafo, invece di tentare di capire solamente quale sia il segreto del grafo.
Il primo capitolo del Seminario V e i primi due capitoli del Seminario VI sono i riferimenti per lavorare voi stessi con il grafo.
Vorrei fare riferimento all’introduzione degli elementi basilari del grafo nel Seminario V, facendo affidamento sulla vostra familiarità con il testo Sovversione del soggetto, per mappare i termini in cui Lacan introduce questi elementi fondanti del grafo a questo livello. Potremmo tracciare due modi paralleli in cui Lacan mostra la posta in gioco del grafo. Utilizzando il grafo come punto di riferimento per collocare questo testo, possiamo rintracciare quello che è in effetti l’inizio della fase classica dell’insegnamento di Lacan nel 1953, quello a cui mi riferivo come il culmine del Lacan classico con questo particolare testo, segnato dalla rottura tra Sovversione del soggetto e Posizione dell’inconscio, così come la questione dell’origine è segnata da una non sovrapposizione fra Funzione e campo della parola e del linguaggio e L’istanza della lettera.
Al fine di cogliere qualcosa circa Sovversione del soggetto il riferimento più utile si trova ne L’istanza della lettera: se si fa ritorno alla propria lettura difficoltosa di questo testo, spero siate in grado di vedere quante cose formulate nei testi successivi avessero già ricevuto una prima elaborazione ne L’istanza della lettera.
Anche le introduzioni del Seminario V e del Seminario VI, che apparentemente non sembrerebbero costituire degli importanti punti di repere per la lettura di questo testo, si rivelano, al contrario, dei riferimenti essenziali per comprendere il grafo - a me hanno fornito degli strumenti sorprendenti per afferrare ciò che Lacan sta facendo in questo testo. Nei primi due capitoli del Seminario VI Lacan rivisita il grafo: avrei sperato mostrarvi come possano essere letti, sezione per sezione, come un lavoro attorno agli argomenti del testo Sovversione del soggetto, non solo in termini di costruzione del grafo, ma anche in termini di altre elaborazioni, come ad esempio il ruolo del cogito in relazione all’imperativo freudiano Wo es war soll ich werden. Nel primo capitolo del Seminario V, Lacan fornisce una rapida panoramica del suo lavoro fino a quel punto, nella sua brevità è abbastanza indicativo di ciò che Lacan pensa sia importante del suo lavoro sino a quel momento. Lacan si propone tre brevi obiettivi all’apertura del Seminario V: vuole stabilire la funzione del significante nell’inconscio, vuole delineare la costruzione del grafo così come sottolineare le elaborazioni a venire, e vuole aprire la questione del motto di spirito come particolare forma di enunciazione. Potremmo quasi ritrovare la forma degli stadi della formulazione socratica, dall’universale al particolare, come una relazione tra la funzione generale del significante nell’inconscio e il motto di spirito come particolare atto del discorso, con una relazione tra questi due punti, o livelli, mediata e articolata dall’elaborazione del grafo. Credo che questa cornice non cessi di funzionare nei termini delle annotazioni che il grafo opera in Sovversione del soggetto. Ne L’istanza della lettera, come nuovo quadro per il suo lavoro, si trova una preliminare articolazione di molte tra le questioni che ritroviamo qui, come ad esempio la disamina della forma logica del cogito cartesiano in relazione all’imperativo freudiano Wo es war soll ich werden, o come l’introduzione dell’analisi linguistica dello shifter, aprendo all’articolazione tra il registro dell’enunciato e quello dell’enunciazione.
Tornando all’algoritmo fondamentale della linguistica, la distinzione tra significante e significato, mi sembra di poter dire che non sempre riusciamo così precisamente a distinguere e a chiarificare, ne abbiamo una serie di nozioni, ma non precisamente una chiara distinzione. Ad esempio, la distinzione tra codice e messaggio, e come questa sia in rapporto alla distinzione tra significante e significato, e la distinzione tra enunciato ed enunciazione, che opera una simile distinzione ma non del tutto sulla stessa dimensione. Tentiamo di riportare il tutto alla questione del linguaggio e della parola. Andrò diretto alla presentazione nel Seminario V degli elementi del grafo che sono introdotti innanzitutto attorno alla nozione di punto di capitone, alla possibilità di attraversare la barra tra significato e significante. Se l’importanza del momento saussuriano non poggia tanto sulla distinzione tra significato e significante, ma sull’introduzione del valore della barra come operatore, allora il momento fondante per la possibilità di una scienza del linguaggio si basa sul rendere convenzionale, arbitraria o contingente la relazione tra significante e significato, liberando dunque il significante a un infinito scivolamento della relazione tra significante e significato, un infinito scivolamento da un significante a un altro, lungo la catena significante, e introducendo, per converso, la questione di come legare insieme nuovamente significante e significato. È proprio il punto di capitone che possiede la capacità funzionale di legare insieme i due registri, in modo da produrre una stabilità del senso, una presa.
Nella prima versione dello schema L Lacan separa questi due registri come asse del simbolico e asse dell’immaginario, ponendo le questioni circa il punto d’intersezione dei due assi e ciò che in quel punto avviene. Nel Seminario V, l’introduzione dei due registri nel grafo è precisamente la stessa operazione del registro dello scivolamento del significante con la questione dello slittamento inverso del significato. Ora la questione è cosa succede nei due punti d’intersezione, e nel Seminario V potere vedere facilmente come l’introduzione della nozione diacronica della catena significante implica effettivamente una dimensione temporale per il punto di capitone che opera nel Nome-del-Padre. Lacan introduce la questione della dimensione temporale della successione e della diacronia con la produzione retroattiva del senso, in un effetto di après-coup o nachtraglichkeit. In questo capitolo del Seminario V, Lacan contrappone l’analisi linguistica, concepita come una presenza ideale della relazione tra un significante e un significato, che è esattamente dove la questione del punto di capitone e del Nome-del-Padre fu primariamente posta, con le condizioni per un’analisi del discorso che non ignori che il discorso implica una dimensione temporale. Lacan opera una piccola elaborazione della questione dell’après-coup: usa la nozione di frase o semantema come unità di analisi, mostrando che deve essere enunciata l’ultima parola della frase per poter comprendere la prima. Ai livelli più minimali è ciò che tenta di articolare nell’elemento fondamentale del grafo, aprendo a una dimensione topologica differente da un’iniziale analisi linguistica minimale della relazione tra significante e significato.
Il punto da non trascurare, nel primo capitolo del Seminario V, è che Lacan sostiene che tutte queste considerazioni valgano anche per la traiettoria dell’esperienza analitica. Nella logica temporale delle costruzioni del significato in una frase dobbiamo interrompere una frase a metà per tener aperta la questione. È solo l’enunciazione della parola finale che inchioda la significazione del primo termine. Significa che possiamo mettere il significante da un lato e il significato dall’altro, poiché è una questione di doppio ancoraggio attraverso la dimensione temporale del significante con il significato.
Più ampiamente, ciò che Lacan pone nel grafo rappresenta il percorso dell’esperienza analitica stessa. È solo la produzione della parola finale che inchioda la significazione di tutto ciò che viene detto prima. Dall’analisi minimale della questione logica proposta dall’elaborazione tra significante e significato si passa direttamente alla questione della fine dell’analisi. È la stessa topologia che viene usata per rendere conto della versione abbreviata della comprensione del significato dell’intera frase, ed è per questo che nel corso delle formulazioni di Lacan circa l’articolazione della fine dell’analisi il riferimento al grafo rimarrà la cornice principale per pensare alle varie questioni connesse, ad esempio la produzione dell’Ideale dell’Io come dipendente dalla produzione del significante dell’Altro che dà stabilità alle identificazioni del soggetto.

Nel tracciare i differenti elementi del grafo, l’introduzione del matema S di A barrato S(Ⱥ) indica effettivamente come il modello fallisca nel fornire un termine finale, il che vuol dire che il grafo aprirà tutte le questioni del periodo più tardo di Lacan circa la formulazione della clinica di fine analisi.

Trascrizione: Graziano Baratti
Traduzione: Sofia Gessi
Preparazione redazionale: Giuseppe Perfetto

lunedì 12 maggio 2014

Seminario del 5 Aprile 2014 Docente invitato: Cinzia Crosali

Presentazione di Giovanna di Giovanni
La Dott.ssa Crosali è italiana ma vive da molti anni in Francia, soprattutto a Parigi. È psicologa, membro dell’Ecole de la Cause Freudienne e dell’AMP. Ha un Dottorato di Psicopatologia e di Psicoanalisi. È autrice del libro: La depressione: affetto centrale della modernità (La dépression: Affect central de la modernité, Editore: PUR (Presses Universitaires de Rennes).

Relazione di Cinzia Crosali
Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio è quasi un manifesto della psicoanalisi. Si situa in un momento cerniera nell’insegnamento di Lacan.
Dal titolo si pongono due questioni centrali: il soggetto e il desiderio. Sono questioni strettamente collegate, perché il soggetto è già da subito considerato come il prodotto dell’impatto che ha il desiderio dell’Altro sulla materia vivente. Quindi due operazioni: la sovversione e la dialettica. 
“Sovversione” è un termine molto importante, tant’è vero che appare per ben due volte nel quarto di copertina degli Scritti di Lacan nell’edizione francese: «L’epistemologia qui avrà sempre torto se non parte da una riforma che è sovversione del soggetto», e  «A trascrivere di questa sovversione, di ciò che c’è di più quotidiano della loro esperienza che Lacan si adopera per loro da quindici anni». Ho fatto una traduzione letterale. Questo “loro” è rivolto agli psicoanalisti ed è quindi del quotidiano del lavoro degli psicoanalisi che si occupa, è quindi anche lì che si trascrivere questa sovversione. 
“Sovversione” indica un rovesciamento, una rivoluzione. Lacan, alla fine degli anni ’50, si riferiva molto freudianamente a una sorta di rivoluzione copernicana, nel senso che la psicoanalisi decentrava il soggetto psicologico e mostrava, come dice Freud, che non è padrone in casa sua. Così Lacan, in un’intervista del 1957 a L’Express, diceva alla giornalista Madeleine Chapsal: «La psicoanalisi nell’ordine del mondo ha in effetti tutti i caratteri di sovversione e di scandalo che ha potuto avere nell’ordine cosmico il decentramento copernicano del mondo. La Terra non è più il centro del mondo. Ebbene, la psicoanalisi vi annuncia che voi non siete più il centro di voi stessi perchè c’è in voi un altro soggetto, l’inconscio. È una notizia che all’inizio non è stata bene accettata». Parliamo, dunque, di un soggetto che è sovvertito anche se nello scritto che studiamo oggi, non è ancora molto chiaro da che cosa sia sovvertito, bisognerà aspettare il testo successivo, Posizione dell’inconscio del 1960-64, che Lacan aveva presentato nel congresso di Boneval, perchè ci giunga a dire che è sovvertito dall’oggetto, è quindi l’oggetto che gli rinvia qualcosa del suo godimento. Qui non siamo ancora a questo punto, e vedremo che la soversione è piuttosto operata dal significante. 
L’altro termine è dialettica. È un chiaro riferimento a Hegel, da cui proprio qui Lacan si discosta, e usa Hegel in termini didattici per operare questa sovversione, lo dice proprio nel testo: «Donde il nostro riferimento, puramente didattico, lo si sappia a Hegel, perchè si comprendesse in che termini stia la questione del soggetto così come essa è propriamente sovvertita dalla psicoanalisi». Bisogna passare prima per Hegel per intendere cos’è la “sovversione”. Come diceva recentemente Philippe Lasagna a Parigi, bisognava passare per la dialettica del servo-padrone e il grafo del desiderio per permettere a Lacan di distaccarsi da Hegel e definire il soggetto nella sua articolazione significante. Un soggetto, quindi, che non è più definito dialetticamente, tramite l’intersoggettività, l’affrontamento, la dialettica servo-padrone. La dialettica non è più nel soggetto, ma si sposta sul desiderio. Il soggetto non è più dialettico, ma è il desiderio che risponde a una dialettica. Il soggetto risponde a una logica strutturale, a partire dall’idea dell’inconscio strutturato come un linguaggio. Infatti, Lacan si chiede: «Ma una volta riconosciuta la struttura del linguaggio nell’inconscio, quale sorta di soggetto gli possiamo concepire?» (p. 802). Tutto il testo è un tentativo di dare una risposa a questa domanda. 
Il soggetto che concepisce Lacan è soggetto del desiderio, ma questo soggetto può desiderare solo a partire dalla sottomissione al significante. 
Il testo marca il passaggio dal soggetto costituito nella dinamica dell’intersoggettività, dal riconoscimento “io sono un soggetto perché l’altro mi riconosce come soggetto”, al soggetto strutturale, prodotto dalla catena significante. Questa è la “sovversione” del soggetto in questo testo del 1960. Si tratta di un soggetto diviso, barrato, che sta all’opposto del soggetto intero, con un’identità compiuta, che accede al sapere assoluto, dove la verità è ciò che manca alla realizzazione del sapere, al soggetto che è identico a se stesso… tutto ciò viene barrato. Prima era il soggetto a produrre la struttura, ora è la struttura a produrre il soggetto. Prima si trattava del soggetto della parola, di un soggetto che parla, adesso è il soggetto dell’inconscio, è parlato: non più un soggetto dialettico ma strutturale. “Strutturale” significa che per avvenire come tale, il soggetto deve inscriversi in una struttura pre-esistente ad esso. Si tratta della struttura del linguaggio, della struttura intesa come catena significante. È il significante che sovverte il soggetto, rappresentandolo per un altro significante. Venendo ad abitare il linguaggio, il soggetto acquisisce una struttura. Nel momento stesso in cui entra nella struttura è diventato, a sua volta, abitato dal linguaggio. 
Il Grafo del desiderio ha una data di nascita: il 6 novembre 1957, è la prima lezione del Seminario V Le formazioni dell’inconscio. Lacan fa nascere il grafo del desiderio dal motto di spirito, precisamente da uno di quegli esempi che Freud ha portato, quello del famoso neologismo “familionari” che condensa “familiari” e “milionari” in un unico significante che si situa fuori dal codice, non c’è nella lingua, non c’è nel vocabolario, ma è portatore di senso e che dà accesso al desiderio del soggetto che lo formula. Il soggetto convoca una combinazione significante, “familiari”, e subito dopo un’altra combinazione significante arriva a parassitare, “milionari”, mescolandosi con la prima, formando il neologismo “familionari”, sovvertendo il codice e svelando il desiderio del soggetto, in questo caso il desiderio di essere anch’egli un milionario. Il messaggio risulta sovvertito dal desiderio inconscio del soggetto. Inoltre, come ci insegna Jacques-Alain Miller in un corso del 20 marzo 1985, poiché “familionari” non c’è nel codice della lingua, non c’è nel tesoro dei significanti ricevuti, «esso impone già di introdurre il significante dell’Altro barrato», significa che “familionari” è il significante della mancanza dell’Altro, perché non figura nel codice, nel luogo dell’Altro.
Il progetto del Seminario è di costruire passo passo il grafo, per far questo Lacan deve partire dal rapporto tra il significante e il significato, un rapporto esemplificato con la metafora del materassaio. Al tempo di Lacan, i materassi erano fatti di lana e i materassai li facevano cucendo la fodera con dei punti tramite un ago ritorto. I punti che tengono insieme le due fodere e la lana si chiamano “punti di capitone”. Il punto di capitone è il nodo dell’imbottitura e Lacan ne fa la metafora del nodo che lega il piano dei significanti con il piano dei significati, altrimenti separati, come accade nella psicosi. Nel Seminario III Le psicosi, Lacan dice che il rapporto del significante e il significato è mobile, tende a disfarsi, invece nei punti in cui il significante si incrocia con il significato si producono effetti di senso. Il punto di capitone è la nozione necessaria per situare l’intenzione di significazione, cioè l’intenzione che mobiliterebbe il significante. Per colui che ascolta, ma anche per chi parla, quando si ascolta qualcosa che è stato detto è sempre nel momento successivo, in après coup, che si può accedere a quest’intenzione di capire qualcosa. Lacan presenta questa proprietà del punto di capitone con uno schema in cui traccia un vettore, che rappresenta il flusso significante, che va da sinistra a destra (S ----- S’), rappresenta quindi un ordine cronologico, poi traccia un secondo vettore che va in senso inverso e incrocia il primo in due punti, ed è il vettore del significato, che è istantaneo. Questa cellula elementare del punto di capitone è l’istante di vedere, di cogliere il significante che conta, un istante correlato immediatamente con l’istante di comprendere. Questa cellula ci permette di schematizzare come il significante, grazie al punto di capitone, arresti lo scivolamento altrimenti indefinito della significazione. La significazione si realizza nell’ultimo termine di un’enunciazione, in quanto ciascun elemento è anticipato nella costruzione degli altri e, inversamente, il senso è sigillato come l’effetto retroattivo. Per esempio, se dico: “Ieri ho preso l’aereo per venire a Milano”, è quando finisco la frase che si capisce il senso delle prime parole. Si comprende nell’ultima parola il senso delle precedenti, in modo retroattivo. Nel Seminario V Lacan fa l’esempio della parola concupissent, indicando che solo quando si sono sentiti tutti i quattro fonemi si produce un effetto di senso che toglie l’equivoco di una serie di insulti (i quattro fonemi, uno per uno, sono delle parolacce in francese). Ciò accade perché il vettore del “voler dire”, il vettore retroattivo, aggancia un significante nell’altro producendo, così, una nuova significazione. Grazie alla predominanza del significante sul significato, il vettore S-----S’ è il luogo favorevole alle operazioni di metafora e di metonimia, cioè alle operazioni di sostituzione significanti. Il vettore S-----S’ è costituito di fonemi, cioè di piccole unità senza senso la cui combinazione produce significanti. Un commentatore di Lacan, Joel Dor, fa un esempio di gioco di combinazione di fonemi, di minima grandezza, in due frasi: Il y a un as en moins e Il y a un os en mois. È cambiata solo una a con una o e le due frasi vogliono dire due cose diverse: “C’è un asso in meno”, e “C’è un osso in meno”. La connotazione di a e di o produce un effetto di senso completamente differente, il primo ci mette in un universo di carte da gioco, il secondo in un universo di scheletri, di ossa. A seconda di come i fonemi sono codificati nelle diverse lingue, la loro codificazione permette di distinguere i messaggi. 
Il grafo 1 (p. 807) indica il punto capitone. Lacan complessifica la cellula del punto capitone con il grafo 2 (p. 810). Possiamo considerare il primo piano del grafo come il rapporto del soggetto con il significante. E c’è anche un’altra linea, un sottosuolo, che è il rapporto del soggetto con l’immagine. Poi, ritroviamo i due punti di intersezione, che abbiamo appena visto, indicati con A e con s(A). A è il punto in cui si trovano fissati i diversi impieghi del significante, è il luogo del codice. Il punto A è il riferimento simbolico che permette agli umani di parlarsi, è il luogo del grande Altro che Lacan chiama il luogo del tesoro dei significanti. Il secondo punto, s(A), è l’interpunzione in cui la significazione si costruisce come prodotto finito, è il punto in cui si costruisce il senso del messaggio a partire dal codice. s(A) è il luogo del messaggio, A è il luogo del codice. s(A) è anche il luogo della verità di colui che parla, luogo che si avvicina alla parola piena, però Lacan avverte che spesso questo non accade: il discorso non arriva alla catena significante, non arriva al vettore che va da sinistra a destra, ma passa in cortocircuito con il segmento m ---- i(a) cosicchè il discorso gira a vuoto e si sfinisce in una ripetizione della parola vuota… è la macina delle parole, come ad esempio dei luoghi comuni. A proposito di questo circuito del grafo, già nel Seminario V Lacan diceva: «Il più delle volte non viene annunciata alcuna verità, per la semplice ragione che il discorso non dice assolutamente niente se non segnalare che io sono un animale parlante. È un discorso comune fatto di parole che non dicono niente grazie al quale ci si rassicura che non si ha a che fare con quel che l’uomo è al naturale, vale a dire una bestia feroce». È il discorso ammaestrato, banale. 
Per andare al di là della macina di parole occorre un’articolazione significante che giunga alla parola piena. L’articolazione significante è l’effetto di significazione e necessita di una certa intenzionalità, intenzionalità che si esprime nella sua forma più arcaica e primitiva nell’espressione del bisogno. Il bisogno è all’origine della catena intenzionale che è rappresentata dal vettore retroattivo. L’intenzione del soggetto, che sorge dal bisogno, deve dapprima passare necessariamente per il codice, da A, il luogo che permette di tendere alla soddisfazione del bisogno. Nel Seminario VI, Lacan dice: «Il bambino si rivolge a un soggetto che sa che è un soggetto parlante, per esempio la madre, che ha visto e ha sentito parlare, e che lo ha impregnato di rapporti dal momento in cui è venuto alla luce. Molto presto il soggetto impara che è per quella via, per quel defilè, che le manifestazioni dei suoi bisogni devono abbassarsi a passare per poter essere soddisfatte, devono quindi sottostare».
Il punto s(A) rappresenta ciò che è significato dall’Altro, è il messaggio della domanda secondo il senso che l’Altro ha dato, e questo senso l’Altro lo ha dato secondo il proprio desiderio. È tramite il proprio desiderio che l’Altro opera la significazione significante. Per esempio, possiamo immaginare il bambino che grida e la mamma che dice “Hai fame” o “Hai freddo”, secondo il desiderio della madre, la madre cerca di portare un significato al grido. Il fatto che l’Altro, la madre, dia un senso, permette di fissare il messaggio, e ciò che si fissa è un primo segno a cui il soggetto si identifica. A è il luogo dell’Altro in cui il soggetto si inscrive, quindi l’Altro occupa la posizione dominante. È dall’Altro che il soggetto riceve il messaggio che emette, in modo rovesciato. 
Lacan propone l’articolazione tra l’Altro, la parola e la verità: «Osserviamo che questo Altro distinto come luogo della Parola, si impone anche come testimone della Verità. Senza la dimensione che esso costituisce, l’inganno della Parola non si distinguirebbe dalla finta» (p. 809). Si tratta della finta che si manifesta, ad esempio, negli affrontamenti, nella lotta o nella parata sessuale, e Lacan nota che l’animale è capace di far finta, per esempio può fare una falsa partenza per metterci fuori strada nella caccia. Però un animale non è capace di far finta di far finta, cioè non lascerebbe delle tracce ingannevoli per far credere che siano false mentre sono vere. L’animale è escluso dal motto di spirito, come nell’esempio di Freud di quell’ebreo che dice al suo amico che sta partendo: “Perché mi dici che vai a Cracovia perché io creda che vai a Lemberg, quando invece tu vai veramente a Cracovia?”. La parola inizia nel passaggio dalla finta all’ordine significante. L’Altro è il testimone necessario perché la verità possa trarre garanzia non dalla realtà, ci dice Lacan, ma dalla parola. È la parola ad imprimere un marchio: «Il primo detto decreta, legifera, è oracolo; esso conferisce all’altro reale la sua oscura autorità» (p. 810). È così che Lacan definisce il tratto unario, ciò che marchia invisibilmente il soggetto, marchio che il soggetto riceve da un significante, un significante elevato alla dimensione di insegna, insegna di onnipotenza, di potere, che aliena il soggetto nella prima identificazione, quella che forma l’ideale dell’Io, I(A) che si trova alla fine del vettore retroattivo. Significa che il soggetto non può cogliersi da solo, ma può cogliersi solo dopo questa identificazione al tratto unario prodotta dal marchio del significante. E, alla fine di questo processo, diventa «ciò che era come da prima», cogliendosi solo nella formula del futuro anteriore, nella forma del «sarà stato» (p. 811). Questo si riallaccia al motto freudiano Wo Es war, soll Ich werden, si sottolinea soprattutto il “dove”, il dove permette di posizionare il soggetto, la posizione del soggetto deriva da dove si situa il desiderio. Lacan dice chiaramente che il grafo ci servirà a presentare dove si situia il desiderio in rapporto a un soggetto definito dalla sua articolazione significante.
Per costruire il primo piano del grafo Lacan prende in considerazione anche il rapporto del soggetto con l’altro, il piccolo altro, partendo dallo stadio dello specchio. Il bambino nasce prematuro, il sistema motorio e il sistema piramidale non sono ancora mielinizzati, quindi non c’è una coordinazione motoria corretta. Un bambino prematuro di sei mesi, prematuro non nel senso che è nato prematuro ma perché costituzionalmente nasce non maturo, messo davanti allo specchio riconosce se stesso con l’aiuto dell’adulto che lo sorregge. L’immagine che vede allo specchio è simile all’immagine di altri piccoli bambini della sua stessa età, viene poi assunta come propria immagine. Questa immagine provoca nel bambino delle reazioni di giubilazione perché gli permette di vedere unificato nell’immagine allo specchio ciò che in lui non è né unificato né completo, e grazie allo sguardo, al dire dell’Altro, dell’adulto che lo sorregge, trova conferma della sua unità. Tuttavia, c’è una prima lacerazione tra il soggetto e la sua immagine: è lui, ma non è lui. Questa dialettica è rappresentata nella parte bassa del primo grafo, è la linea m ---- i(a), in cui m sono io e i(a) è la mia immagine. Tale prima opposizione è alla base della rivalità immaginaria.  Il primo piano del grafo, in cui si compie il processo immaginario che va dall’immagine speculare alla costruzione dell’io, si articola in due percorsi. Un percorso passa sotto, e a questo livello c’è una fissazione all’immagine primordiale. L’altro percorso, invece, fa tutto il giro in alto e passa dalla significazione confermata dall’Altro, da s(A). La linea dell’immaginario m ---- i(a) corrisponde all’asse a ---- a’ dello schema L. Ci sono delle differenze tra lo schema L e il primo piano del grafo:  il circuito dello schema L si chiude, mentre il grafo è un sistema aperto. Si potrebbe dire che questo grafo è una variante del tema dello stadio dello specchio, che porta la tappa in cui il simbolico domina l’immaginario. In questo primo piano del grafo, si attua un processo che va dall’immagine speculare alla costituzione dell’io sul cammino della soggettivazione ad opera del significante (p. 812). Sono proprio queste quattro parole, “ad opera del significante”, a segnare la svolta rispetto allo stadio dello specchio del 1936-39 quando, in una logica tutta immaginaria, la strutturazione dell’io era prodotta dall’unificazione dell’immagine dell’io realizzata grazie all’immagine dell’altro. La svolta è data dalla predominanza del simbolico. Occorre una coordinazione simbolica perché la relazione al simile nello specchio produca un effetto di significazione, e occorre del significante che permetta di soggettivare l’identificazione immaginaria. Dunque, è sbagliato pensare che il primo piano sia quello dell’immaginario e il secondo il piano del simbolico, in entrambi c’è un’articolazione con il simbolico.
Le conseguenze che Lacan vuole sottolineare a partire dalla costituzione dell’io concernono la coscienza e la conoscenza. Egli critica il fatto di considerare la coscienza e la conoscenza come chiare e trasparenti, e considera la stessa trasparenza dell’io come ingannevole. Il cogito cartesiano del Disorso del Metodo e delle Meditazioni Metafisiche, “penso dunque sono” o “io sono in quanto penso”, viene considerato da Lacan una «sequela storica» (p. 812). Il Dizionario Zingarelli dà di “sequela” questa definizione: «sequela di cose e di fatti sgradevoli, di noie o di accidenti». Lacan trova l’Io di Cartesio problematico perché Cartesio considera il soggetto una sostanza e non un effetto del significante. Cartesio non si accorge che il punto principale della sua formulazione è proprio quando, nelle Meditazioni Metafisiche, dice: «Infine bisogna concludere, e tenere per costante, che questa proposizione: io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio». “Tutte le volte che la pronuncio”, cioè si tratta di una proposizione pronunciata, detta, che passa per i defilè del significante. Lacan, ne L’Etourdit, del ’72, diceva: «Perché un detto sia vero bisogna prima di tutto che sia detto, che ci sia un dire».   
L’altra considerazione riguarda Hegel che, nella Fenomenologia dello Spirito, non può evitare di cogliere la confusione costitutiva della coscienza: coscienza di sé che in realtà si fonda sul riconoscimento di un’altra coscienza, e quando il riconoscimento della coscienza si gioca tra l’io e il proprio simile si produce una rivalità aggressiva, la famosa lotta all’ultimo sangue. Lacan definisce lo schema hegeliano della lotta per puro prestigio come «un mito più che una genesi effettiva» (p. 812), e sottolinea che Hegel ha ignorato la questione della prematurazione dell’essere vivente dalla nascita, che per Lacan è alla base della cattura speculare. Hegel ha fatto della morte stessa il fulcro della lotta; la morte è il principio che differenzia le due coscienze: quella che le si avvicina di più, ovvero correndo il maggior rischio di perdere la vita, è la coscienza che vince, quella che cede, perché ha paura di morire, è la coscienza che perde, e diventerà lo schiavo, il servo. Ma in questa lotta c’è un patto, una regola, che precede la lotta stessa: bisogna che il vinto non perisca perché se ne abbia uno schiavo. Questo significa che c’è un patto simbolico, una legge, prima della lotta. Lacan afferma che vi è una legge preliminare alla violenza, mentre sembrerebbe che per Hegel la legge sia una conseguenza della lotta. Inoltre, mentre Hegel attribuisce il godimento al padrone e l’obbedienza al servo, per Lacan c’è un godiemnto del servo e, all’interno di questo testo, ne dà un esempio clinico, quello del nevrotico ossessivo che aspetta la morte del padrone e gode di questa attesa. Più volte ritorna in queste pagine la questione dell’“astuzia della ragione” che Lacan riferisce alla logica dell’ossessivo. L’“astuzia della ragione” è di matrice hegeliana e significa che il soggetto fin dall’origine, e fino alla fine, sa ciò che vuole, al contrario Freud sostiene che, poiché il soggetto non sa quello che vuole, c’è un divario tra la verità e il sapere. Questa rivoluzione freudiana non è considerata da certa psicologia, includendo anche alcune derive della psicoanalisi, che Lacan critica apertamente definendola banale, caduta nella mollezza e che non tiene in conto delle radici linguistiche dell’inconscio, che la domanda deve passare in ogni caso per i defilè del significante. È attraverso il passaggio dalla domanda, per il defilè del significante, che i bisogni passano dal registro iniziale, arcaico, al desiderio. Questo accade perché l’ananke somatica, il destino somatico, l’impotenza a muoversi, la prematurazione con cui l’essere umano viene al mondo e in cui persiste nei primi mesi di vita, lo colloca in una situazione di dipendenza in cui la psicologia rileva solo la dipendenza comportamentale, il bisogno di cure, senza cogliere che si tratta soprattutto di una dipendenza dal linguaggio. È la presa nell’Altro, l’agganciamento nell’Altro a permettere il passaggio dal bisogno al desiderio.
Che cosa dimostra la psicoanalisi rispetto alla questione del desiderio? In particolare, rispetto al desiderio sessuale?
Lacan non esclude la serie dei fattori normalmente considerati come la conservazione della specie, la serie degli accidenti della storia del soggetto, dei vari traumi intesi come contingenze, ma insiste a dire che tutto questo avrebbe poca incidenza senza il concorso degli elementi strutturali.
L’essere umano è diverso dall’essere animale perché è un essere parlante. Mentre gli animali hanno una sessualità prestabilita, che si svolge secondo schemi fissi, gli umani, proprio perché parlano, non sono mai a loro agio con la sessualità, la quale non ha niente di naturale. Lacan dice che già Freud si accorse che la sessualità doveva portare la traccia di qualche inclinatura poco naturale, già da qui si profila l’aforisma del “non c’è rapporto sessuale”. È chiaro che gli animali non incontrano gli impacci edipici nella loro sessualità, il divieto dell’incesto e neppure la problematica che ruota intorno alla questione del Padre. Per gli esseri parlanti la questione del Padre si pone come Padre morto, ucciso, come il Padre simbolico che Lacan riprende nei termini del Nome del Padre. 
Nel Seminario XVII, Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970), Lacan dirà: «È il Padre morto ad avere la custodia del godimento». Si riferisce al Padre di Totem e Tabù, dell’orda primitiva. Padre primordiale che impediva ai figli di godere della madre e delle sorelle, da loro ucciso perché era lui a goderne senza limiti. Alla sua morte i figli s’impongono una legge, l’esogamia, che prescrive la loro la stessa privazione. Il Padre è quindi considerato da Lacan il rappresentante originale dell’autorità della Legge, purchè non pretenda di erigerla, cosa che farebbe di lui un impostore.
Possiamo considerare questo Padre il garante definitivo? Certamente no, non c’è garante ultimo, non c’è Altro dell’Altro (Il n’y a pas l’Autre de l’Autre). Affermazione non priva di conseguenze... intanto ciò distingue la psicoanalisi dalla religione. Nella prima fase dell’insegnamento di Lacan vi è un Altro che è organizzato e consistente, nella seconda, a partire dai Seminari V e VI, l’Altro non esiste, è inconsistente. È un vero punto di svolta dell’insegnamento di Lacan, che segnerà una nuova fase della sua elaborazione, senza peraltro annullare la prima. C’è un riferimento a questa svolta nel Seminario VI dove Lacan definisce la formula “Non c’è Altro dell’Altro” come il grande segreto della psicoanalisi, ciò nel grafo completo è indicato con S(Ⱥ). In A manca qualcosa, e questo qualcosa che gli fa difetto non può esser altro che un significante. Un significante fa difetto a livello dell’Altro. 
La prima conseguenza riguarda il desiderio: se non c’è Altro dell’Altro, qual è il posto del desiderio? Dov’è la garanzia? Lacan articola così la dialettica bisogno-domanda-desiderio: «il desiderio si abbozza nel margine in cui la domanda si strappa dal bisogno». Non solo ogni domanda è una domanda d’amore, ma la domanda è sempre incondizionata, ed è sempre insoddisfatta perchè il bisogno introduce una specie di difetto nella domanda. La domanda d’amore è incondizionata, mentre il desiderio è condizione assoluta. La domanda che traduce l’esigenza, il bisogno del soggetto, necessita della presenza dell’altro perchè il bisogno sia soddisfatto. Senza la presenza dell’altro non c’è possibilità di accedere all’oggetto del bisogno, per poterlo fare è necessario passare nei circuiti della domanda. La domanda è incondizionata perchè non dipende dalle situazioni: la domanda è sempre domanda d’amore, cioè presenza dell’Altro. Invece, il desiderio è “condizione assoluta” nel senso che va al di là della domanda. C’è qualcosa di irriducibile, di assoluto che caratterizza il desiderio e che ha la sua radice nel bisogno, ma si stacca dall’elemento sensibile del bisogno. È come se il bisogno per poter essere espresso e soddisfatto dovesse passare per il setaccio della domanda, tuttavia c’è qualcosa che non passa, qualcosa d’irriducibile alla domanda, quel residuo, quella pepita, quel nucleo, è il desiderio. Lacan sottolinea che poi avviene una metamorfosi: l’oggetto del bisogno si muta in oggetto del desiderio, e la domanda si trasforma in domanda incondizionata d’amore. Una sorta di rovesciamento che Lacan esprime in questi termini: «Per una singolare simmetria il desiderio rovescia il carattere incondizionato della domanda d’amore, in cui il soggetto resta in soggezione all’Altro, per portarlo alla potenza della condizione assoluta (dove assoluto vuol dire anche distacco)» (p. 817). Miller, nella lezione del 23 marzo 1994 del Corso Donc, ci aiuta a leggere questo passaggio. Miller rileva che la soggezione di cui parla Lacan è la dipendenza, nel senso che il soggetto è assoggettato all’Altro dell’amore. È il desiderio che produce un rovesciamento e porta un distacco. Lacan gioca sulla radice della parola “assoluta” che par suonare come “assoluzione”, “assolvere”, infatti “distaccare” in francese si dice détacher, “togliere una macchia”, “assolvere”. Il desiderio svincola e sdogana il soggetto dall’Altro dell’amore, c’è un’emancipazione dei segni dell’amore, tanto che un desiderio deciso non si imbarazza troppo dei segni dell’amore… Miller però precisa che non si deve pensare che il desiderio deciso possa giustificare tutto, e allora propone che a desiderio deciso corrisponda amore cortese. Quindi, c’è un’opposizione tra l’amore e il desiderio, e Lacan illustra la genesi di questa emancipazione, che il desiderio produce nei confronti dell’Altro, con l’esempio dell’oggetto transizionale di Winnicott. Prendendo un piccolo pezzo dell’altro ci si può poi congedare dall’altro senza troppi affanni: questo è l’oggetto détacgé, staccato, anche se non è dell’altro. Questo produce un guadagno sull’angoscia, sappiamo come può rassicurare il peluche o il pezzo di stoffa che il bambino tiene in mano o che porta alla bocca. Occorre chiarire che non si tratta dell’oggetto a, concetto che al tempo di Sovversione Lacan non ha ancora a disposizione. L’oggetto transizionale non è l’oggetto a ma è solo un emblema, una rappresentazione immaginaria, a differenza dell’oggetto a che invece è inconscio. 
Il bisogno porta un difetto nella domanda, ciò significa che non c’è la soddisfazione universale, ed è questa impossibilità della soddisfazione universale che fa sorgere l’angoscia. La soddisfazione del bisogno non soddisfa completamente la domanda, c’è sempre una beanza, una mancanza, un buco. Il desiderio è sempre antinomico, il soggetto desidera quello che non vuole. Come nel caso della bella macellaia che desidera il caviale ma non vuole assolutamente che il marito le dia il caviale, quando lui sarebbe pronto a fornirglielo ogni mattina. Il suo desiderio deve rimanere insoddisfatto. La sua domanda è domanda d’amore. Il sogno della bella macellaia, riportato da Freud nell’Interpretazione dei sogni e ripreso da Lacan, è un esempio della dialettica del desiderio e della domanda. In questo caso si tratta di un desiderio isterico, di un desiderio insoddisfatto in cui l’insoddisfazione circola dal soggetto all’altro, l’amica che vorrebbe ingrassare ma che resterà insoddisfatta e non mangerà salmone. È un esempio che mostra l’aforisma lacaniano per cui “il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro”, in cui dell’ è un genitivo soggettivo, in un certo senso il desiderio dell’Altro è convocato dalla domanda del “Che vuoi?”, che vuole l’Altro. Il Che vuoi? è la domanda enigmatica che conduce il soggetto sulla via del proprio desiderio. Il Che vuoi? è il modo che Lacan usa per far sentire l’angoscia del soggetto di fronte all’enigma dell’Altro, all’enigma del desiderio dell’Altro. Ma questo passaggio per la via dell’angoscia è un passaggio indispensabile: per accedere al proprio desiderio bisogna che il soggetto si confronti con il desiderio dell’Altro. 
Nel Grafo 3 [p. 818] il tracciato a forma di punto interrogativo che veicola il Che vuoi? conduce a $◊a, il matema del fantasma, via che conduce al soggetto di assumere come riesce l’incompletezza dell’Altro e di posizionarsi come desiderante. Alla domanda “Che cosa vuole l’altro da me?”, “Che cosa sono io per lui?”, può essere data una risposta differente, orale, anale o altro, che fissa il desiderio su un oggetto, e questo contribuisce alla formazione del fantasma, esprimendo la posizione assunta dal soggetto nei confronti dell’altro. 
In questo tempo, il bambino che non sa fare un discorso ha già un rapporto con l’Altro perchè c’è già un marchio, un’impronta impressa sul suo bisogno dalla domanda. Di quale domanda si tratta? È la domanda che ha a che fare con l’Altro, perchè se la selezione dei significanti è effettuata dall’Altro, significa che dipende dal suo volere. Qual è il volere dell’Altro? Cosa vuole? È così che appare il Che vuoi? in questo punto della costruzione del grafo, dove si situa il passaggio alla seconda tappa. 
Il Che vuoi? è tratto da Lacan dal romanzo di Cazotte Il diavolo innamorato dove c’è un’evocazione del diavolo e, dal muro, appare una testa di cammello spaventosa che con voce cavernosa pronuncia: “Che vuoi?”.
La domanda del Che vuoi? convoca per la prima volta il desiderio dell’Altro, e Lacan lo disegna con un grande punto interrogativo piantato nel punto A. È a partire dall’intenzionalità del bisogno che la domanda convoca l’Altro, il luogo del codice, e poi s(A), luogo del messaggio, ma si costituisce anche come appello all’Altro nel Che vuoi?, va quindi al di là della domanda, sul versante del desiderio dell’Altro, ed è lì che si costituisce il desiderio del soggetto. Il soggetto situa il proprio desiderio all’interno, dentro, il desiderio dell’Altro, infatti c’è una piccola d che indica il desiderio. 
Possiamo dar conto della formazione del fantasma anche con altre parole. L’apparire del Che vuoi? introduce un’opacità, un’oscurità. L’interrogativo lascia il soggetto sospeso in un momento di angoscia, di sconforto, hilflos. Qui si situa l’esperienza traumatica. In questa terza tappa del grafo, il soggetto cercherà di placare l’angoscia con l’apporto della dimensione immaginaria, situata sulla linea m ---- i(a). Troviamo l’illustrazione di questo passaggio anche nel Seminario VI, dove Lacan dice: «L’elemento immaginario, cioè la relazione dell’Io m all’altro i(a), interviene nella terza tappa dello schema in quanto essa permette al soggetto di parare al suo sconforto, la détresse, nella sua relazione al desiderio dell’Altro». Para utilizzando le relazioni immaginarie che ha imparato a maneggiare nella sua relazione con il simile, con l’altro, cioè relazioni di affrontamento, prestanza, sottomissione, disfatta. Il soggetto si difende con il suo Io, e per difendersi costruisce qualche cosa dove situare il suo desiderio: questo qualche cosa è il fantasma. Miller diceva il Seminario VI avrebbe potuto  intitolarsi ed essere dedicato più al fantasma che al desiderio.
Un’altra definizione di Lacan è che il fantasma è sempre esistito in forma misteriosa, segreta, ma è solo con l’analisi «che ha cessato di essere un’anomalia, qualche cosa di opaco, qualche cosa dell’ordine della deviazione del desiderio, della sua perversione per essere invece concepito e articolato in una dialettica che può conciliare l’immaginario e il simbolico».
Il secondo piano del grafo funziona simultaneamente al primo, nel Seminario VI Lacan dice chiaramente che i due piani funzionano contemporaneamente nel più trascurabile atto di parola. Comunque, si può considerare il secondo piano del grafo come il luogo dell’inconscio; su questo piano si colloca il desiderio, d, è quindi un desiderio inconscio. d si colloca in un punto del percorso che va da A a $◊D [p. 820]. Nel grafo il desiderio è contrapposto al fantasma, c’è un vettore che li unisce indicando l’articolazione desiderio e fantasma.
Al punto $◊D Lacan pone la pulsione e dice che la pulsione è omologa al tesoro dei significanti, A. Dice che la pulsione è ciò che avviene della domanda quando il soggetto vi svanisce. La domanda pulsionale produce una sorta di fading, un’eclissi del soggetto. Questo ci ricorda il carattere acefalo della pulsione, irriducibile all’ordine simbolico. Ma se è irriducibile al simbolico, perchè ne fa qualcosa di omologo al tesoro dei significanti? Sembrerebbe una contraddizione. Lacan afferma che il grafo completo ci permette di porre la pulsione come tesoro dei significanti. Il “come” potrebbe intendersi nel senso di “omologa”. Viene posta da Lacan un’equivalenza dei significanti della catena superiore e pulsione. Evidentemente si tratta di significanti inconsci. C’è una tensione in questo punto del testo, in questo sforzo di Lacan di render conto di una relazione omologa fra pulsione e significante, che ci sembrano così disomogenei. Miller, in un Corso del 18 novembre 1981, diceva che la pulsione è la riduzione della domanda al taglio, come essenza della catena significante, ossia l’incidenza significante modifica l’elemento organico supposto nella pulsione… è una lettura di Sovversione del soggetto. Dall’incidenza del significante emerge la pulsione; l’incidenza produce un taglio, ritaglia qualche cosa e da lì emerge la pulsione. Sarà grazie al taglio, coupure, che si ritagliano gli oggetti, delimitati dai margini del corpo, le cosiddette zone erogene… oggetti di cui Lacan ci dà la lista: la mammella, lo scibale, il fiotto urinario, il fallo, a cui aggiunge lo sguardo, la voce e le rien, il niente. La difficoltà di questa correlazione tra la pulsione e il tesoro dei significanti è anche data dalla non disposizione della concettualizzazione dell’oggetto a. C’è ancora un’altra lettura, proposta sempre da Miller, in un Corso del 20 marzo 1985: «La pulsione è l’Altro del soggetto a livello inconscio. È un Altro speciale poichè è un Altro silenzioso, invece l’Altro a livello inferiore è, al contrario, un altro loquace». Sono sì significanti, ma con la particolare distinzione fatta da Miller tra silenzionso e loquace. L’Altro silenzioso ci ricorda il silenzio delle pulsioni, cui fa riferimento Lacan nel testo La lettera rubata. Più Lacan avanzerà, nell’ultimo insegnamento, verso la centralità del reale, più ripenserà anche l’inconscio freudiano, giungendo a formalizzare l’inconscio non più come un dispositivo significante, strutturato come un linguaggio, ma sempre più come inconscio reale. Questo significa che l’incontro con il reale, il momento di discontinuità, vacillazione, è messo da Lacan al centro dell’inconscio. L’inconscio reale, rispetto all’inconscio strutturato come un linguaggio, è un inconscio più silenzioso che loquace, più centrato sul silenzio delle pulsioni e sul godimento che sul simbolico. Anche se non siamo ancora a questa concettualizzazione sull’inconscio reale, già nel grafo Miller parla dell’Altro silenzioso. Miller dice che l’Altro silenzioso è articolato a quel termine singolare del significante della mancanza dell’Altro, e chiedendosi se questo termine è il significante del soggetto Miller risponde che il miglior significante del soggetto è un’elisione. I differenti modi dell’elisione sono l’inciampo, il passo falso, lo scivolamento… lì il soggetto svanisce. 
In questa lezione, che è sul grafo del desiderio, Miller cerca la risposta alla domanda: “Che cosa sono io?”. Articola la risposta ai due piani del grafo, indicando il primo come il livello dell’alienazione e il secondo come il livello della separazione. Sul primo piano il soggetto si coglie come effetto del significante, clinicamente è il livello della suggestione, è il significante che porta l’Altro, per esempio il terapeuta che produce nuove identificazioni. Il secondo piano è clinicamente il livello del transfert, l’interpretazione porta sulla causa del desiderio e si situa a livello della mancanza dell’Altro. Qui c’è il punto centrale dell’operazione lacaniana di sovversione del soggetto. Lacan ottiene una sovversione della struttura, per esempio della struttura di Levi-Strauss: fa vacillare lo strutturalismo introducendo un elemento che non è significante, che non ha significato, che è il soggetto. In realtà, l’emergenza del soggetto è la sua sparizione. Il soggetto avviene quando c’è una sparizione del soggetto, $ , più che un essere è definito come mancanza-a-essere.

Come rispondere alla domanda “Che cosa sono io?”, se non trovo la risposta nell’Altro? Solo iniziando a definire il soggetto come discontinuità si può intendere la risposta che Lacan pone in Sovversione. Egli risponde con una localizzazione: “Io sono nel posto che si chiama godimento”. All’inizio di Sovversione, Lacan aveva elaborato l’Io, Je, esattamente nella forma opposta. Era partito dal sogno del padre morto, di cui parla Freud e che Lacan ha abbondantemente ripreso nel Seminario VI. Questo riferimento serve a Lacan per trarne che l’Io è un morto che non sa di essere morto, quindi una posizione opposta a quella che pone l’Io al posto del godimento. Miller indica che al versante tragico dell’essere-per-la morte si apre accanto il versante comico dell’essere per il godimento. Quando Lacan indica nel fallo la via di questa soluzione non tragica ci dà un’apertura su questo punto. Nel Seminario sull’Etica dice: «La dimensione comica è creata dalla presenza, nel suo centro, di un significante nascosto ma che nella commedia antica è là in persona, il fallo». Ecco come Miller legge l’obiettivo di Sovversione del soggetto, testo complesso, non lineare, ma che acquista una logica più chiara se partiamo da una lettura centrata sulla questione di sapere se l’essere del soggetto è proprio solo l’essere-per-la morte, se questa è l’ultima parola della psicoanalisi. A ciò risolutamente Lacan risponde di no. 

Trascrizione di Marta Bottiani
Preparazione redazionale di Giuseppe Perfetto