venerdì 8 luglio 2016

Seminario del 13 febbraio 2016 Docente invitato: Clotilde Leguil

Vi parlerò di un passaggio di “Posizione dell’inconscio” che verte sull’alienazione. Si tratta di un testo molto complesso. Trovo infatti che il concetto di alienazione in Lacan sia piuttosto difficile, e per affrontarlo ho cercato di ricollocarlo nell’insieme di “Posizione dell’inconscio”. Nell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi ci occupiamo ora del corpo parlante. “Posizione dell’inconscio” è un testo dove Lacan presenta una nuova definizione dell’inconscio in rapporto con il corpo parlante.
Ho scelto una frase a p.852, verso la fine del testo, che dà l’orientamento di Lacan nel 1964: “L’importante è cogliere come l’organismo viene preso nella dialettica del soggetto”. Questa frase mi ha colpito perché propone una nuova definizione dell’inconscio, e parla di un inconscio articolato con il corpo, un inconscio che dice qualcosa dell’organismo del soggetto. Questo implica anche un nuovo approccio della cura analitica, un approccio nella cui prospettiva non troviamo soltanto il soggetto che parla del desiderio, ma anche qualcosa che parla del corpo.
“Posizione dell’inconscio” è contemporaneo al Seminario XI sui quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. In questo seminario a p.176 [Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, ed. Einaudi], Lacan propone una definizione dell’inconscio in rapporto al corpo, indicando nell’apparato del corpo qualcosa strutturato nello stesso modo dell’inconscio.
Queste due frasi – la prima sull’inconscio preso nel sistema dell’organismo, e la seconda, riguardo l’omologia di struttura tra l’inconscio e l’apparato del corpo – dicono la stessa cosa.
Jacques-Alain Miller, nei paradigmi del godimen, ha commentato questo passaggio del seminario XI, dicendo che bisogna prendere le cose a rovescio: non è qualcosa nell’apparato del corpo a essere strutturato come l’inconscio, ma piuttosto Lacan ha strutturato l’inconscio nello stesso modo che l’apparato del corpo.
È una novità: questa articolazione tra il registro del vivente e quello della parola segna una svolta nell’insegnamento di Lacan.
È interessante sottolineare anche l’espressione di questa frase, come l’organismo vient à se prendre. L’espressione francese è interessante, e può evocare un altro modo di dire, quando si dice per esempio se prendre dans le tapis, inciampare nel tappeto.
È quindi come dire qualcosa dell’organismo viene a essere d’inciampo, risulta disfunzionale quando è preso nella dialettica del soggetto, come se il vivente fosse catturato dal linguaggio. Al tempo stesso è un nuovo approccio alla dialettica significante, che indica il modo in cui la parola si fa parassita del vivente.
Questo riguardava l’espressione se prendre, consideriamo ora quel che riguarda la parola scelta da Lacan: “organismo”.
Possiamo essere sorpresi del fatto che Lacan parli di organismo. Di quale organismo si tratta nella psicoanalisi? È forse l’organismo nel senso della medicina, quello che si può frammentare, che si può riparare, su cui si possono fare degli innesti? No, non è questo organismo.
Lacan sceglie tuttavia il termine “organismo” nel 1964; in precedenza, nel suo primo insegnamento, Lacan parlava del corpo e non di organismo; questo organismo lacaniano indica quindi un nuovo approccio alla libido.  Si tratta di un corpo fatto di organi, ma non è lo stesso organismo che viene dissezionato dall’anatomopatologo. Sono organi che Lacan chiama “oggetti “a” minuscola”.
L’organismo lacaniano è fatto di organi invisibili, che sono però reali. Gli organi lacaniani sono per esempio la voce, come oggetto a minuscola, o lo sguardo, ovvero sono oggetti che fanno parte del corpo, ma che sono presi anche nell’Altro, sono oggetti che condensano la libido. Questo organismo lacaniano in un certo senso non parla, perché Lacan ci ha indicato che l’oggetto a minuscola non appartiene al significante. Si tratta di qualcosa di diverso, si tratta di una sostanza che gode. Questo organismo quindi non parla di per sé, ma è preso nella cura attraverso la parola del soggetto. È presente attraverso il modo di parlare, ma anche di tacere, attraverso il modo in cui qualcosa si apre e in cui qualcosa si chiude, è presente quindi a partire dal fatto che il soggetto parlante è toccato da qualcosa. La novità, nel 1964, per Lacan è il fatto di definire la cura non soltanto attraverso la parola e il linguaggio, ma anche attraverso gli effetti del corpo. La prima definizione dell’inconscio era che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, ma dal 1964 in poi, appare anche l’idea che l’inconscio è irrigato dal godimento, è imbevuto di libido. Si tratta di un nuovo approccio sia della libido sia dell’inconscio. Bisogna dire che questi due aspetti non sono più disgiunti. Nel primo seminario di Lacan c’era infatti una disgiunzione tra libido e inconscio, che era simbolico. A partire da Posizione dell’inconscio e dal Seminario XI Lacan fa invece grosso sforzo per mostrare come inconscio e libido siano tra loro articolati.  
Questo implica un nuovo approccio del sintomo. Per Lacan precedentemente il sintomo apparteneva, non ancora riconosciuto, non ancora decifrato, al piano del messaggio, ed era in attesa di essere decifrato. Da questo momento in poi si tratta di percepire come anche l’organismo del soggetto sia prigioniero nel meccanismo del significante. Questo ci dà un orientamento in rapporto alla fine della cura, che non riguarderebbe soltanto un evento di significato, ma che toccherebbe il modo in cui si è vivi, che potrebbe implicare un guadagno di vita, di un sovrappiù di vita. Questo ci fa anche capire come l’organismo che è in noi possa staccarsi, sganciarsi dal meccanismo significante e inciampare nel meccanismo del soggetto. La frase di Lacan che ho citato parla infatti anche della pulsione di morte. Direi che la pulsione di morte è l’incontro tra il vivente e il linguaggio.
Questo sia detto come introduzione, ma prima di entrare nel testo vorrei presentarvi il modo in cui Lacan concepiva il corpo prima di “Posizione dell’inconscio”.
Come vi dicevo, parlare di organismo è una novità per Lacan nel 1964, e possiamo dire che questa novità comincia a farsi strada nel Seminario X sull’angoscia. Quando Lacan affronta la questione dell’angoscia, definisce anche un orientamento della cura al di qua del desiderio, pone cioè un modo di rapporto con l’Altro che, prima di qualsiasi parola, suscita l’angoscia. Andiamo quindi qui alla radice dell’incontro con l’Altro, al primo modo di essere toccati dalla presenza dell’Altro, sul piano di una prova nel corpo. Nel Seminario X Lacan parla della libbra di carne che ci costa l’incontro con l’Altro, mostra come l’angoscia sorga quando questa parte persa, riappare dove dovrebbe esserci una mancanza, spiega come l’angoscia non sorga in rapporto a una mancanza, ma alla mancanza di una mancanza, e sostiene quindi che la mancanza della mancanza, il troppo, l’eccesso, produce l’angoscia come affetto del corpo. Attraverso questa analisi dell’angoscia Lacan giunge a definire l’oggetto a minuscola. La tesi di Lacan è infatti che l’angoscia non  è senza oggetto, non è di fronte al nulla, come invece in Sartre,  ma piuttosto è di fronte a qualcosa, anche se si tratta di qualcosa non in senso abituale.
Lacan mostra quindi che ciò di fronte cui sorge l’angoscia è un oggetto di troppo, che irrompe nel mondo del soggetto. Può essere un grido, può essere uno sguardo, oggetto a minuscola segna comunque la sparizione della frontiera tra il soggetto e l’Altro. Nell’angoscia quindi qualcosa del soggetto cade, e il soggetto si vede ridotto a non essere altro che il proprio corpo.
Prima di questa fase, negli anni ‘50, c’è un altro approccio del corpo in Lacan: il corpo viene inteso come corpo percepito, è il corpo dello stadio dello specchio, è un’immagine. Lacan ha descritto l’atto di nascita di questa immagine attraverso l’esperienza che il bambino fa, per la prima volta, quando si guarda nello specchio. Il corpo percepito, che può essere il mio corpo o quello dell’Altro, è secondario nella dialettica del soggetto. Nello scritto sullo stato dello specchio, Lacan mostra come il riconoscimento dell’immagine del corpo, anticipi rispetto a quella che chiama l’assunzione soggettiva simbolica. Una volta però che il bambino può dire Io, non è più affascinato nello stesso modo dall’immagine del corpo.
Negli anni ‘50 Lacan osserva che quel che riguarda il corpo riguarda l’asse immaginario del rapporto con l’Altro, ed è dunque destinato a essere cancellato. Il primo approccio dell’inconscio in Lacan consiste quindi nel privilegiare l’aspetto significante, il rapporto con la parola e con il linguaggio. Gli si è per questo anche rimproverato, in quegli anni, di non interessarsi al corpo. Nel Seminario VI sul desiderio e la sua interpretazione, nel ’58-’59, Lacan dice per esempio: “Sembra che io ignori l’esistenza del corpo, che abbi una teoria incorporea dell’analisi”.
Lacan si difende ovviamente, ma si riferisce al rimprovero che gli viene rivolto in virtù della sua adesione al significante. Nel Seminario VI risponde comunque in questo modo: “È con le nostre membra che costituiamo l’alfabeto del discorso inconscio”. Trovate la frase a p.328 del Seminario VI. Lacan vuole quindi mostrare che il corpo conta, facendo vedere che l’inconscio vi si appoggia per avere modo di parlare. Possiamo però al tempo stesso dire che in questa prospettiva non parla il corpo, parla il significante. Nella prima parte dell’insegnamento di Lacan, il significante primeggia rispetto al corpo, e il corpo è immaginario, costitutivo della funzione dell’Io, è il corpo dello stadio dello specchio, il corpo che partecipa a una relazione immaginaria con l’Altro: vedo il mio corpo come vedo il corpo dell’Altro, e questo si inscrive in una relazione di reciprocità. Da qui il registro della concorrenza e della rivalità. Da un certo punto di vista perciò, per Lacan il corpo come immagine non è niente di reale. Quel che è reale all’inizio dell’insegnamento di Lacan è la dialettica del soggetto, vale a dire il rapporto del soggetto dell’inconscio, con l’Altro maiuscolo Il corpo è invece contrassegnato dall’inerzia: non c’è dialettica al suo interno. Il corpo non è quindi preso nella dialettica del soggetto, ma la ostacola esercitando un effetto di affascinamento.
Ricordo queste cose per mostrarvi come ci sia veramente un punto di rottura in Lacan quando, all’inizio degli anni ’60, comincia a dire come il soggetto si articoli con l’organismo e non soltanto con lo stato dell’Io.
Abbiamo questa prima concezione del corpo come immaginario, disgiunto dalla dialettica del soggetto, e abbiamo poi una seconda concezione, prima ancora di giungere alle nozioni di organismo e agli oggetti a. Si tratta della dottrina del corpo che Lacan sviluppa con la teoria del fantasma. Nel Seminario VI, alla fine degli anni ‘50, abbiamo a che fare con un corpo che non è più soltanto immaginario, ma è il corpo presente nel fantasma, che gode e che soffre a partire da quello che manca nel campo dell’Altro. Il fantasma implica il corpo, e al tempo stesso il fantasma è un modo di patire del significante, di soffrirne. L’approccio al corpo è quindi qui allo stesso modo immaginario e simbolico. Il corpo non è preso nella dialettica del soggetto, ma sorge come risposta del soggetto, quando il soggetto urta con il godimento dell’Altro.
Il fantasma per Lacan ha una dimensione al tempo stesso immaginaria e simbolica, è un copione che viene a colmare la falla del simbolico, è l’incontro con una non risposta alla domanda, che innesca in qualche modo un’esigenza pulsionale, quindi il corpo del fantasma è un corpo preso da un godimento masochista, che è masochista nel rapporto con il significante.
In uno dei primi corsi tenuti da Jacques-Alain Miller con il titolo “Dal sintomo, fantasma e ritorno”, Miller formula l’ipotesi che il fantasma in Lacan è il primo approccio alla questione del reale nella cura. È un corso dell’8 dicembre 1982, e Miller dice che in qualche modo il soggetto chiama qualcosa di surreale in questo posto, nel posto del fantasma. Si tratta cioè di un punto di opacità contro il quale il soggetto urta.
Abbiamo quindi un corpo immaginario, un corpo del fantasma, e ora un corpo dell’organismo con gli oggetti a minuscola. Nello scritto “Posizione dell’inconscio” abbiamo a che fare con questo corpo dell’oggetto a minuscola. È un corpo che rimanda al reale, colto dall’angoscia, toccato dall’angoscia. Non so se in Lacan bisogna dire il soggetto è angosciato o che il corpo è angosciato, perché nell’angoscia non c’è più soggetto, c’è qualcosa che fa cadere il soggetto.
In “Posizione dell’inconscio” Lacan si riferisce a un organismo i cui limiti vanno al di là del corpo. Questo evoca la concezione del corpo come forma immaginaria, perché il corpo immaginario ha limiti dati dalla sua forma. L’organismo varca invece i limiti del corpo immaginario, rimescola un po’ le frontiere tra il soggetto e l’Altro. Il soggetto non sa più dove si trova, è catturato dall’Altro, è alienato, separato da se stesso.
Quest’organismo che possiamo quindi definire come la terza concezione del corpo in Lacan, prefigura l’ultima concezione, presente nel suo ultimissimo insegnamento, chiarita e sviluppata da Jacques-Alain Miller: quella del corpo parlante, il corpo traumatizzato dalla lingua, il corpo toccato dalla lingua.
Nell’ultimissimo insegnamento di Lacan il corpo parlante appare come una riformulazione del tema classico dell’unione dell’anima e del corpo, tema della filosofia, in particolare di quella cartesiana.
Il nostro “corpo parlante”, dice Jacques-Alain Miller, non è l’unione dell’anima e del corpo, ma della parola e del corpo, ed è questo, come Lacan dice nel Seminario XX, a essere misterioso, ovvero il fatto che nella cura, alla fine, si trova questa unione della parola e del corpo al tempo stesso in cui si incontra un mistero, si incontra qualcosa di indecifrabile. Paradossale è il fatto che questa unione costituisce un mistero, ma genera contemporaneamente una sorta di certezza. Quando cioè nella cura si incontra questo punto, si sa che proprio questo è qualcosa di reale. Il soggetto incontra qui qualcosa che non è un miraggio, che non è un baluginio, ma che esiste.
Possiamo dire che la parola, a partire da “Posizione dell’inconscio” e fino alla fine dell’insegnamento di Lacan, è quel che si rende parassita del corpo, fino al punto di fare delle parlessere un essere vivente disadattato, le cui condotte possono facilmente rivolgersi contro se stesso. Questa tesi si trova formulata in “Posizione dell’inconscio” un po' più avanti rispetto al passaggio che abbiamo presentato, quando Lacan dice che ogni pulsione è virtualmente pulsione di morte, a p. 852.
Lacan non dice che da una parte c’è una pulsione di vita e dall’altra una pulsione di morte, ma che la pulsione, in quanto vivente, genera per altro verso qualcosa di mortale.
A partire quindi da questo momento, a partire da “Posizione dell’inconscio”, quel che Lacan chiama la dialettica del soggetto, non testimonia più solo del discorso dell’Altro, ossia nel modo in cui le parole dell’Altro hanno colpito il soggetto,  ma anche di come l’organismo è implicato, è in gioco. La dialettica del soggetto quindi non è pura dialettica.
Andiamo ora al passaggio a p. 843-845 di “Posizione dell’inconscio” per affrontare questo nuovo approccio della dialettica del soggetto.
Lacan introduce due operazioni che chiama alienazione e separazione, per mostrare quello che causa il soggetto; vi do la tesi d’insieme prima di entrare nei dettagli. Lacan mostra come il soggetto sia prodotto dalla dimensione significante ma, al tempo stesso, anche dalla libido e dal corpo. Ciò vuol dire che il rapporto con il significante, con l’operazione simbolica, ha effetti e conseguenze di godimento. C’è qualcosa che l’essere parlante perde per il fatto stesso di parlare. Nelle operazioni, che Lacan chiama alienazione e separazione si tratta di articolare il registro del significante con quello del godimento, ovvero il simbolico con il reale. L’alienazione indica al tempo stesso il modo in cui il soggetto si identifica e si perde nella relazione  con l’Altro, e la separazione, che è la seconda operazione, indica la risposta di godimento in rapporto a questa perdita.
Questo vuol dire che nel rapporto con il significante, nell’alienazione, c’è qualcosa di profondamente insoddisfacente, qualcosa che ineluttabilmente è mancato, che fallisce. Cito una frase di Jacques-Alain Miller nel suo testo sui sei paradigmi del godimento, dove commenta il passaggio sull’alienazione: “Si chiama soggetto quel che è veicolato da un significante per un altro significante”. È la definizione che Lacan dà del soggetto, ma Miller aggiunge “Questa rappresentazione tende a ripetersi perché nessuna identificazione è completa, perché nessuna rappresentazione identificativa è esaustiva”.
Ciò vuol dire che il soggetto è rappresentato da un significante e, al tempo stesso, non lo è mai completamente, c’è una parte che viene mancata dal significante, ed è questa parte mancata che permette di introdurre la seconda operazione, la separazione, che riguarda non più il significante, ma l’oggetto a minuscola.
Prima di analizzare l’alienazione, Lacan mostra come l’inconscio sia una struttura che si apre e si chiude. Lo ricordo perché quando presenta alienazione e separazione Lacan riprende la questione dell’apertura e della chiusura. L’alienazione è dalla parte dell’apertura, perché c’è la catena significante che si dispiega, mentre la separazione è sul piano piuttosto pulsionale, perché c’è qualcosa che viene a chiudere l’operazione.
Lacan presenta quindi l’inconscio in rapporto all’organismo, come una zona erogena che si apre e si chiude, e mostra come questo nome, “inconscio”, non debba essere rappresentato come la caverna di Platone. Lo dice perché, nel momento in cui parliamo di apertura e di chiusura, potremmo pensare che si tratti di un interno e di un esterno. Lacan vuole invece mostrarci che non penetriamo all’interno di qualcosa. In effetti, perché l’inconscio si apra, dice, bisogna già essere all’interno, non si può aprire l’inconscio dall’esterno. Vi cito un breve passaggio a p. 841, dove Lacan dice che è molto più difficile entrare nell’inconscio che non nella caverna di Platone, perché nel mito della caverna si vede il filosofo che va a liberare il prigioniero, e lo costringe a vedere la luce uscendo dalla caverna.
Lo psicoanalista non può fare così, non può costringere l’analizzante portandolo a vedere la verità o il godimento. Lacan dice che le cose sono meno facili che non nella caverna, perché con l’inconscio c’è un’entrata alla quale si arriva soltanto nel momento in cui si chiude, e nel momento stesso in cui si arriva, l’ingresso è già chiuso. Il solo modo perché si apra un po’, è di chiamarla, di evocarla dall’interno. C’è qualcosa di chiuso a doppia mandata nel soggetto, e se non si trova dall’interno qualcosa che fa eco, non si potrà mai entrare. 
Questo ha a che fare con alienazione e separazione, perché si tratta di apertura e di chiusura, e mi ha fatto pensare a un passaggio della cura dell’Uomo dei lupi di Freud. Sapete infatti che nella storia dell’Uomo dei lupi, il soggetto fa un incubo che presenta la scena di una finestra che si apre da sola dall’interno. L’Uomo dei lupi, quando la finestra si apre, vede un albero con dei lupi fermi, fissi, che lo guardano. Lacan commenta quest’incubo nel Seminario X sull’angoscia, mostrando l’importanza dell’apertura della finestra. Non bisogna lasciarsi incantare soltanto dai lupi, si tratta dell’apertura di qualcosa, e quest’incubo mostra come Freud, nella cura, abbia saputo aprire qualcosa dall’interno, ovvero che la finestra dell’inconscio sì è aperta sull’Altra scena, si è aperta da sola.
Le due operazioni della causazione del soggetto, dice Lacan, sono l’alienazione e la separazione. Per quel che riguarda l’alienazione Lacan mette l’accento sulla priorità del significante rispetto al soggetto. Il soggetto non può cioè essere causa di sé, ma è generato dal significante. Lo dice a p. 844 nel modo seguente: “Quel che era qui pronto a parlare sparisce non essendo nient’altro che un significante”. È strano, perché in questa frase sembra dire che c’è qualcosa prima del significante, che sarebbe il soggetto, e allo stesso modo dice che questo qualcosa sparisce sotto il significante e l’alienazione è su questo piano: il soggetto non ha altra scelta che farsi rappresentare da un significante che al tempo stesso fa sparire qualcosa del soggetto. Nel seminario XI, Lacan spiega questa operazione di alienazione e separazione in modo concreto appoggiandosi su Cartesio, e mostra come Cartesio, nelle Meditazioni, inseguendo una verità che per lui sarebbe una certezza, esamina tutti i saperi che ha acquisito, tutte le certezze che ha avuto, decidendo di respingerli come falsi, decidendo di fare tabula rasa di tutto quel che gli è entrato in mente. Questo ha a che fare con l’alienazione, e cerca però qualche cosa nel soggetto che non sarebbe preso nell’alienazione. Sapete come lo trova? In un processo di rovesciamento. Si trova di fronte al dubbio iperbolico rispetto a tutto quello che ha saputo, domandandosi se alla fin fine qualcosa esista davvero, e improvvisamente ha un insight, e questo insight è: “Penso, dunque sono”.
La lettura di Lacan è interessante perché alla fin fine dice “io penso” è qualcosa che sorge come separato dal resto, e Lacan dice che non è una conoscenza di sé, che sorge come evanescente. E dice qualcosa dell’alienazione in rapporto con il significante, perché il vero Io può sorgere solo in questo punto di svanimento,  altrimenti è sempre tra i significanti. Per rendere conto dell’alienazione, Lacan parla di una scelta che non è una vera scelta, e per spiegare come questa scelta sia forzata, dà un esempio: il brigante che incontra la propria vittima nei boschi e gli dice: “La borsa, o la vita!”
Questa si presenta apparentemente come una scelta, apparentemente c’è un’alternativa, che è appunto tra la borsa e la vita, ma in realtà non c’è scelta possibile, perché se la povera vittima sceglie la borsa, si ritrova senza borsa e senza  vita. L’alternativa “la borsa o la vita” quindi costringe il soggetto a perdere qualcosa, a perdere la borsa, i denari, qualcosa a cui il soggetto tiene. La borsa, il denaro, sono anche l’oggetto a minuscola, l’oggetto anale. La scelta forzata, in rapporto alla quale Lacan pensa al rapporto con il significante, è una scelta di questo genere. Il soggetto si trova così con la vita, ma una vita intaccata da una perdita, senza la borsa. Un altro esempio di scelta forzata si trova in Hegel, nella dialettica del padrone e dello schiavo. Quello che diventerà il padrone è quello che avrà vinto la lotta a morte contro l’altro, e potrà dire allo sconfitto: “La libertà o la morte”, cioè o ti uccido, ti prendo la vita, oppure mi dai la tua libertà, diventi mio schiavo. Questa è una scelta forzata che porta a perdere la libertà, che potrebbe in un certo senso portare alla perdita della vita.
Lacan mostra che il soggetto, nel rapporto con il significante, in realtà non ha scelta. Riceve un senso, ma se rifiuta di riceverlo è morto. Di questo Lacan dà un esempio comico, tratto da una commedia di Moliere, L’avaro. Lacan parla de L’avaro nel Seminario VI sul desiderio. Sapete che l’avaro è quello che tiene al proprio denaro, tiene alla propria cassetta più che a tutto il resto, e ha una sola idea: nascondere la cassetta, perché è convinto che tutti gliela vogliano sottrarre. La seppellisce quindi in giardino, dove è convinto che nessuno la potrà trovare, e alla fine va a verificare che sia sempre lì e si accorge che gliel’hanno rubata. Cosa dice allora? “Assassini, mi hanno tolto la vita, mi hanno assassinato!”
Lacan, nel Seminario VI dice che quando si sarà capito cosa ha perduto l’avaro con la cassetta, si sarà capita la questione del desiderio.
È un esempio per capire che cos’è l’alienazione, e c’è già quel che Lacan chiama separazione.  Ne L’avaro abbiamo un rapporto con l’oggetto “a” che per Arpagone conta più della sua vita, quindi, se all’avaro diciamo: “La borsa o la vita”, lui dà la vita. Vediamo quindi come l’alienazione, nel rapporto di linguaggio con l’Altro, genera anche l’oggetto “a” come modo di recuperare quello che il soggetto ha perduto nel rapporto con l’Altro. L’avaro cerca infatti di recuperare attraverso la cassetta tutto quel che ha perduto nel rapporto con l’amore, col desiderio, con la parola.
Lacan mostra che il soggetto che parla per esistere è costretto ad acconsentire a essere rappresentato da un significante, altrimenti è mortificato, pietrificato, e l’operazione che lo causa genera al tempo stesso una perdita, questo è il paradosso.
La concezione dell’alienazione e della separazione implica anche una nuova idea dell’interpretazione. Non si tratta più soltanto di fare risuonare i significanti che il soggetto non coglie, o di far pervenire un messaggio. Lacan dice nel Seminario XI a pag.245 “L’interpretazione non ha tanto di mira il senso, quanto piuttosto ridurre i significanti al loro non senso, per ritrovarvi le determinanti di tutta la condotta del soggetto.”
Nel Seminario XI Lacan disegna due cerchi: da un lato c’è il soggetto, dall’altro c’è l’Altro; il soggetto, dice, è dalla parte dell’essere, “Io sono”, e l’Altro è il senso. “Io sono” infatti non basta, perché “Io sono che cosa?” Il soggetto deve essere rappresentato da un significante, ma il problema è che quando è rappresentato dal significante, quando si trova cioè dalla parte del senso, perde qualcosa dell’essere, e questo è il motivo per cui Lacan pone l’alternativa tra l’essere e il senso.
Tra i due, nella zona mediana, c’è il non-senso. I sintomi hanno quindi a che fare con questa zona che sta tra il soggetto e l’Altro. Certamente dalla parte del senso ci sono i significanti che rimandano a un significato, ma c’è anche questa zona di non-senso. Lacan dice che l’interpretazione non deve riguardare soltanto la decifrazione di tutti i significanti del soggetto, ma deve anche far emergere significanti che non hanno altro senso che di godimento. Qui l’alienazione è un processo simbolico, ma al tempo stesso rimanda al godimento, perché questa zona di non-senso è recuperata attraverso il rapporto con l’oggetto “a” minuscola.
Per concludere, Lacan dice che la separazione, l’operazione che viene dopo, è l’operazione dove si chiude la causazione del soggetto. Quel che si tratta di cogliere nella cura, è il modo in cui il soggetto sparisce per recuperare qualcosa dell’oggetto. Lacan mostra, nel seguito di “Posizione dell’Inconscio”, il modo in cui il soggetto può giocare con la propria perdita per creare nell’Altro la mancanza che è in lui, per esempio quando un soggetto minaccia di suicidarsi, o ha una fuga, o comunque si sottrae alla relazione con l’altro, si verifica una torsione attraverso cui la separazione rappresenta il ritorno dell’alienazione.
È il fatto di operare con la propria perdita che lo riconduce al punto di partenza, ovvero: piuttosto che prendere l’oggetto, il soggetto perde se stesso.
Vorrei concludere con una testimonianza di una AE che abbiamo ascoltato nelle ultime giornate della Ecole de la Cause Freudienne, era la testimonianza di Veronique  Voruz, intitolata “Separarsi senza strapparsi”. Veronique ha reso conto del modo in cui nella sua cura si faceva sparire, ed è una testimonianza che potremo leggere o sentire, dove racconta di una volta quando è fuggita per scalare l’Himalaya – lei viene da una famiglia di montanari – per sottrarsi al suo analista e all’analisi. La fine della sua analisi è dunque coincisa con il fatto di trovare un altro modo di separarsi, di separarsi senza strapparsi, e ha fatto un sogno dove lei è in montagna e deve arrivare in cima, il percorso serpeggia intorno alla montagna, e nel sogno dice “No, non prendo questo cammino, vado à l’arrache, con la forza, mi apro la via senza seguire le via prescritte”
Questo à l’arrache non riguarda il senso, ma qualcosa che è le risuonato nel corpo, e mostra come la fine dell’analisi abbia a che vedere con il separarsi, strapparsi, ma nel modo giusto.


Cura redazionale di Alberto Tuccio