Dalla relazione fra la rappresentazione e l’affetto in Freud alla relazione
fra il simbolico e il reale in Lacan.
L’articolazione tra il registro simbolico e quello reale, o come dice Lacan
nelle prime pagine del seminario, “la relazione dell’affetto con il
significante” (Jacques Lacan, Il seminario. Libro X. L’angoscia
1962-1963, Einaudi, 2007, p. 17) può essere considerata la tematica
centrale sottesa a tutte le elaborazioni che si sono prodotte nella
psicoanalisi, dai primi scritti freudiani fino all'insegnamento ultimo di
Lacan.
Si inizia con il Freud degli Studi sull’isteria, che annunciano la
prima topica. È il momento in cui Freud affronta le formazioni dell'inconscio -
sogni, lapsus, atti falliti e sintomi - in un modo totalmente innovativo: dove
non sembrava esserci alcun senso, dove il soggetto dice: “non so perché mi
succede, non è logico, non lo capisco”, lui dice che c'è un senso. Accade che il significante che lo direbbe è rimosso, è fuori dalla coscienza.
Dove sembrava non esserci soddisfazione - quando il soggetto dice: “mi
fa soffrire, lo vivo male, è sgradevole” - Freud dice che c'è una
soddisfazione, ma è una soddisfazione che non si può riconoscere perché
l’affetto che include è spostato, non corrisponde.
Ne è l’esempio la ragazza che si sveglia angosciata per un sogno nel quale
si vede durante il funerale del suo secondo nipote, cosa che le risulta
tremendamente dolorosa dato che non è passato molto tempo dal funerale del
primo nipote qualche tempo prima. Lei presenta il suo sogno a Freud come
obiezione a quello che lui afferma rispetto al sogno: che è una realizzazione
di un desiderio. La ragazza dice di non trovare nessun senso a quel sogno, e
ancora molto meno una soddisfazione. Così, Freud le propone di associare, di
parlare delle prime cose che le vengono in mente, finendo per fare emergere
quello che Freud cercava: il funerale del primo nipote fu l’ultima volta in cui
lei vide il suo amato, e… un nuovo funerale sarebbe l'occasione ideale e unica
per un nuovo incontro. Il senso e la soddisfazione che erano in gioco non
avevano nulla a che fare con il funerale ma con l’amato, che era il
significante rimosso: recuperato
questo significante si chiarisce la soddisfazione in gioco.
Questa doppia incidenza dell’operazione freudiana - semantica ed economica,
o detto in altro modo, di linguaggio e di pulsione - si è mantenuta sempre
presente durante tutte le sue elaborazioni.
La teoria freudiana si è modificata, si è arricchita e si è corretta,
mantenendo però un punto immodificabile, basato su una doppia affermazione che
fu l’asse centrale di tutte le successive trasformazioni: c’è una verità
occulta e c’è una causa sessuale.
Anche rimanendo nella terminologia freudiana, questa doppia affermazione
può essere espressa in modi differenti: c’è senso e c’è soddisfazione, o anche,
c’è linguaggio e c’è pulsione. Soltanto molto più tardi, con Lacan, parleremo
di verità e di godimento o di simbolico e reale.
Quale fu la lezione iniziale di Freud?
Agli inizi della psicoanalisi, la clinica pose a Freud due questioni
diverse: da un lato quello che con Lacan chiamiamo “le formazioni
dell’inconscio” e dall’altro lato un affetto, l’angoscia. Si aprirono così
due percorsi di lavoro che portarono a sviluppi molto diversi.
Freud affrontò il percorso delle formazione dell’inconscio mediante le
psiconevrosi, cioè l’isteria, l’ossessione e la fobia. Per queste categorie,
Freud ritenne che il meccanismo fondamentale alla base delle stesse fosse la
rimozione (e il suo fallimento). Si rimuove un significante e l’affetto a cui esso era
vincolato, oppure si sposta su un altro significante, producendo ad esempio
idee ossessive, o si fissa nel corpo, come un sintomo di conversione o, ancora,
rimane libero trasformandosi allora in angoscia.
Tuttavia Freud affrontò il percorso dell’angoscia già nel 1894
attraverso una clinica diversa, che non aveva niente a che fare con la
rimozione: all’interno di quelle che chiamava “le nevrosi attuali”, creò
una sezione propria denominata nevrosi d’angoscia.
Per Freud, la nevrosi d’angoscia era dovuta alla trasformazione diretta
dell’energia pulsionale in angoscia. L’angoscia, diceva Freud, sorge proprio
quando non é stata possibile la “trasformazione psichica della pulsione”,
ovvero quando la pulsione, in mancanza di un processo di elaborazione
significante, si trasforma direttamente in quell’affetto doloroso e sgradevole
che è l’angoscia. Freud riscontrava questa situazione nei casi di donne che
usavano la pratica sessuale del “coitus reservatus”, o il “coitus interruptus”,
in cui emergeva l’angoscia della gravidanza, abbandonando però subito questa
costruzione, quando si è reso evidente che l’angoscia sorgeva anche in soggetti
che non temevano né rifiutavano la gravidanza.
Di queste due vie di approccio al disagio soggettivo - le psiconevrosi e la
nevrosi d’angoscia - Freud decise di sviluppare le prime, abbandonando la
seconda senza troppe spiegazioni.
Relativamente a questa nevrosi d’angoscia freudiana é importante
sottolineare che presentava l’angoscia come un affetto estremamente singolare
nel suo rapporto con il significante: qualcosa che si presenta proprio quando
manca il significante, quando il significante non funziona o non è
raggiungibile.
Tuttavia, il grande cambiamento che Freud fornì nel 1926 con il testo Inibizione,
sintomo e angoscia, fu quello di definire come l’angoscia, che qualsiasi
soggetto può incontrare in determinate congiunture della sua vita, non sia che
un ritorno di una prima esperienza d’angoscia infantile. È per evitare questo
segnale di pericolo che l’angoscia è, che il bambino introduce la
rimozione. Freud individuò così
l’angoscia come motore della repressione.
Perché, allora, Freud abbandonò lo studio delle nevrosi d’angoscia? A mio
avviso, la sua scommessa teorica e la sua grande scoperta fu l’inconscio, l'inconscio
come insieme di rappresentazioni - significanti, diremmo con Lacan - eliminate
dalla coscienza, confinate fuori dal pensiero cosciente perché superano il
soggetto, lo sopraffanno. Rappresentazioni dalle quali il soggetto si difende
rifiutandole, ma che al tempo stesso non perdono la loro capacità di influire
sulla sua vita perché grazie alla propria abilità di condensarsi e spostarsi -
come ad esempio nel sogno della giovane innamorata - sono capaci di produrre le
formazioni dell’inconscio. Freud aveva scoperto, senza saperlo, le leggi della
strutturazione del linguaggio e il loro effetto negli esseri parlanti.
Comparato a tutta questa creatività delle psiconevrosi, l'affetto
dell’angoscia, che localizzava nelle “nevrosi d’angoscia”, era alieno ai
processi di condensazione e di spostamento in quanto li considerava come
meccanismi di produzione delle formazioni dell’incosciente; di conseguenza non
gli era di nessun aiuto per lo sviluppo delle sue teorizzazioni sull'inconscio
e per il metodo psicoanalitico che stava costruendo.
Così Freud fece crescere la psicoanalisi attraverso il percorso delle
nevrosi, si focalizzò sul processo simbolico della rimozione e il ritorno di
quel rimosso, con in mente un obiettivo: localizzare l’inconscio, produrre il significante
non raggiungibile dal soggetto attraverso l’interpretazione, favorendo
l’insorgenza di un effetto di verità che consegnava il senso del sintomo, del
sogno, e liberava così la soddisfazione che lo riguardava. In questo modo
il sintomo, in teoria, non aveva già nessuna ragione per continuare a esistere.
Dovrebbe diluirsi fino a sparire.
Freud mantenne questa concezione del sintomo e alla fine trovò un problema:
la soddisfazione che comporta il sintomo non si lascia ridurre - Lacan lo
formulerà come: “È godimento quello che la verità trova nel resistere al
sapere”. Decifrare i significanti intrappolati nel sintomo non elimina la
soddisfazione che è in gioco. Il sintomo resiste.
In qualche modo, Freud arrivò a quello che nell'ultimo insegnamento di
Lacan potrebbe sintetizzarsi come: il piacere non si lascia ridurre al
significante, il reale è irriducibile al simbolico.
Come inizia in Lacan lo studio della coppia simbolico/reale?
Nei primi tempi dell’insegnamento di Lacan, il registro simbolico regna
sugli altri registri, il linguaggio è onnipotente, il reale si confonde con
l’immaginario e il simbolico lo cattura e lo riduce, introducendolo nelle vie
del significante.
La metafora paterna - il significante più importante dell’insegnamento
strutturale di Lacan che si può considerare un mix tra il complesso di Edipo e
il complesso di castrazione - e, in questa, il Nome del Padre, è risposabile di
modulare, regolare e limitare il godimento del soggetto, introducendolo nella
significazione fallica: il fallo è l’operatore fondamentale, è la soluzione.
Nel seminario VII, L’etica della psicoanalisi, il registro del reale
comincia a prendere forma, Lacan fa emergere, partendo dai testi di Freud, il
concetto di godimento. Però sarà solo nel Seminario X, L’angoscia, che
comincerà a produrre la riduzione del simbolico in relazione al reale, del
significante in relazione al godimento e introdurrà anche il valore reale - non
già immaginario - dell'oggetto a del fantasma. Il concetto di reale
inizierà a prendere forza.
È forse per questo motivo che, nella prima pagina del seminario X, Lacan
dice che sceglie l’angoscia perché “l’angoscia è precisamente il punto
d’incontro dove vi attende tutto quello che è stato il mio discorso precedente.
Vedrete come ora potranno articolarsi tra loro un certo numero di termini che
forse, sino a oggi, non vi sono sembrati sufficientemente collegati”. (p.
5): cosa vuole dire questo? Che il reale era già presente nelle sue
elaborazioni, com’era presente il fantasma, e l’oggetto a… ma da questo
momento penserà a una nuova forma di articolazione fra di loro.
D’altronde dobbiamo tenere conto che il seminario stesso è una progressione
del suo pensiero e delle sue elaborazioni. Ci sono delle intuizioni che si
trovano nelle prime pagine che non sono riprese fino a molto più tardi, per
esempio quando nella prima pagina dice che “la struttura dell’angoscia non è
lontana dalla struttura del fantasma, per la ragione che è certamente la stessa”.
(p. 5)
Cosa si può dire a questo riguardo?
Si può dire che l’angoscia, quale fenomeno soggettivo che può apparire
inaspettatamente nella vita di qualsiasi soggetto, si presenta sempre
destabilizzando quello che già costituiva la “soluzione” ideata dal soggetto di
fronte al reale della vita.
L’angoscia è sempre un certo straripamento del soggetto, uno straripare
dell’organizzazione cosciente e incosciente utilizzata per regolare la vita
quotidiana e le eventualità eccezionali che si presentavano nelle relazioni non
solo con gli altri, ma anche nella relazione con se stesso, cioè, con i suoi
pensieri e con il suo corpo.
L’angoscia è segnale di questo straripamento, segnala che il fantasma ha
fallito nella sua funzione di mantenere il reale a distanza. In questo senso,
angoscia e fantasma si assomigliano: ambedue evidenziano un reale – pericoloso
- in gioco.
Lacan non ha dubbi nell’affermare il carattere irriducibile di quel reale
che si presenta nell'esperienza dell’angoscia (p.174); non a caso utilizza il
termine “irriducibile”, il quale può essere inteso sia come “impossibile da
simbolizzare” sia - se lo immaginiamo nell’articolazione del simbolico con
l’immaginario - come “impossibile dargli senso”. Il reale è quello che è fuori
senso.
Si può cogliere una delusione di Lacan nell’incapacità del simbolico di
metabolizzare il reale?
Non credo che questa sia la formulazione corretta per porre la domanda. La
questione è che Lacan non ritornava sui propri passi quando qualcosa
contraddiceva quello che lui stesso aveva sviluppato per anni. Di fronte a
quella difficoltà, a quell’altra contrarietà, Lacan non dubitava nel proseguire
il suo insegnamento orientandosi, non già in un “Ritorno a Freud” ma in un
“Lacan contro Lacan”.
Forse per questo, nel Seminario X, afferma che non farà riferimento al
testo di Freud perché “non c’è tema in cui la rete del discorso freudiano
sia più prossima a darci una falsa sicurezza”. (p. 12)
In un certo modo, se i sogni erano per Freud la strada principale per
accedere all’inconscio, a quel rimosso in quanto simbolico; l’angoscia potrebbe
avere una funzione simile rispetto al reale.
Quello che l’angoscia mette in gioco nella sua apparizione fenomenologica è
qualcosa che riferisce a qualcosa di primario nel vivente - la sostanza
godente, la chiamerà poi Lacan - nel suo incontro con il linguaggio.
Per inciso, rispetto alla definita sostanza godente, Lacan, a pagina
96 domanda in maniera molto diretta ed esplicita: “Come entra il
significante nel reale per far nascere il soggetto? Cosa permette al
significante di “incarnarsi”?” Non elude di
rispondere a questa domanda, anzi lo fa in modo contundente: “(...)Lo
permette, d’inizio, quello che abbiamo qui per presentificarci gli uni agli
altri, il nostro corpo”.
Vediamo, allora, il corpo in una funzione che va molto al di là della pura
immagine dell’identificazione speculare. Occupa già il posto di punto
d’incontro fra il reale e il significante, in quello che mi appare come
un’anticipazione del posto centrale del corpo nell’ultimo insegnamento di
Lacan.
Molto spesso è attribuito a Lacan di avere riscattato il corpo nel suo
ultimo insegnamento, per metterlo allo stesso livello degli altri due registri,
come se precedentemente, nel periodo mediano del suo insegnamento, lo avesse messo da
parte, dimenticandolo. Forse - visto quello che diceva nel Seminario X -
sarebbe più corretto dire che lo ritroviamo nel suo ultimo insegnamento perché
abbiamo imparato a leggerlo bene.
Primo capitolo: l’angoscia nella rete dei significanti
Nel primo capitolo Lacan mostra molti significanti e crea una rete di significanti
(p. 6):
1. Da una parte prende degli interrogativi che erano emersi nel grafo del
desiderio: Che vuoi? Mi ami? Questi interrogativi indicano: “La
relazione essenziale dell’angoscia con il desiderio dell’Altro”.
2. Dall’altra parte prende i significanti dei filosofi, alcuni li nomina
soltanto: Kierkegaard, Marcel… di altri, sceglie un significante, per esempio
di Sartre: la serietà; di Heidegger: la preoccupazione… per poi
inserirsi lui stesso in questa serie, ed è interessante perché identifica se
stesso con un significante, ovvero l’attesa. Di tutti questi
significanti dice che non ci danno niente per abbordare l’angoscia.
3. Infine aggiunge tre significanti, quelli che orienterebbero verso
l’ultimo Freud e quanto disse a proposito dell’angoscia nel suo testo Inibizione,
sintomo e angoscia, ovvero che “a proposito dell’angoscia non c’è rete”
(p. 12): in rapporto a l’angoscia, la rete dei significanti fallisce, non
funziona.
Questi significanti sono però utili a Lacan per produrre una matrice organizzata
in funzione di due assi: la difficoltà e il movimento. Questo schema gli
permetterà di sviluppare i due modi che il soggetto ha di rispondere
all’angoscia: “uscire” (di scena, ndr.) oppure fare una rappresentazione,
ovvero il passaggio all’atto e l’acting out. In questo primo momento comunque
prende l’asse della difficoltà e aggiunge due significanti, impedimento
e imbarazzo, mentre prendendo l’asse del movimento aggiunge emozione
e (emoi) turbamento.
Nella dimensione del movimento prende l’emozione, di cui dice che è
estremamente opportuna perché, etimologicamente, si riferisce a movimento. C’è
emozione solo dove c’è shock, scuotimento. Lacan dice che è “il movimento
che si disaggrega”, nel senso di un movimento o una reazione smisurata
rispetto a quello che succede, una reazione smisurata che fa sì che l’essere
nella sua totalità ne sia affetto.
Alcuni, come Goldstein, hanno detto che l’angoscia era questo, una reazione
catastrofica, però questa reazione catastrofica l’hanno anche messa in relazione
con la crisi isterica, o con la collera, pertanto, non è sufficiente per
distinguere l’angoscia, ci dev'essere qualcosa di più.
Innanzitutto, con questo, Lacan separa già l’angoscia dall’aspetto
puramente organico - dall’organismo mosso in modo organizzato o disorganizzato
- per iscriverlo, anche se non lo dice, del lato del soggetto.
Propone, per ultimo, emoi (turbamento) nell’estremo dell’asse
dell’alterazione del movimento, dicendo che con questo termine, “l’etimologia
lo favorisce di maniera favolosa” (p. 20), cosa che non succede con il
termine che si è trovato per la traduzione italiana, turbamento. Forse si
potrebbe proporre, invece di “turbamento”, il termine “commozione” che contiene
l’ambiguità di una perturbazione violenta, ma anche nel senso di perdita di
potenza, per esempio quando si parla di commozione cerebrale.
Lacan non finisce di riempire tutte le celle, ne lascia alcune vuote, però
è a questo punto, dopo aver chiarito il terreno della triade freudiana, che
potrà parlare dell’angoscia.
“L’angoscia – si chiede - cos’è? Abbiamo scartato che si
tratti di un’emozione. (...) Dirò che è un affetto” (p. 17)
Cosa dice degli affetti?
In primo luogo, Lacan cerca di distinguere l’affetto dell’emozione:
l’emozione è dell’ordine del comportamento, del movimento, mentre l’affetto,
tra cui l’angoscia, è sempre dell’ordine di un segnale.
Allo stesso tempo, fa un altro passo complementare, avvicinando l’affetto
alla passione. La tesi, “l’affetto è passione” è in questo seminario
toccata velocemente, qualche paragrafo più avanti - in relazione a Aristotele e
la retorica - però sarà sviluppata più esplicitamente nel testo Televisione.
Per fare un esempio degli affetti passionali non prende l’angoscia ma
ricorre alla collera (p. 17), che non è precisamente un esempio nuovo in Lacan,
lo aveva già usato nel Seminario VII, L’etica. Lì rammentò il tema della
collera dicendo che gli affetti “non si devono confondere con la sostanza
che cerchiamo al di là dell’articolazione significante” (p. 127), il campo
di quello che c’è “dietro al soggetto” (p. 128) perché gli affetti, “sebbene
non siano significanti, si possono sempre ridurre a una segnale” (p. 127).
Come sarebbe questo segnale? Lacan lo spiega in modo dettagliato
nell'esempio della collera: “una reazione del soggetto a una delusione, al
fallimento di una correlazione sperata fra un ordine simbolico e la risposta
del reale”, quando “i cavicchi non entrano nei buchi”. Ossia, il
soggetto spera che le cose siano in un certo modo, che quello che lui sta
vivendo si sviluppi seguendo certe previsioni che si era fatto, che si sviluppi
come aveva previsto e, improvvisamente, si presenta qualcosa d’inaspettato: il
segnale che il reale non si adatta all’ordine simbolico come si vorrebbe. In
spagnolo c’è una espressione molto chiara per questo: “ha perdido los
papeles”, “ha perso le staffe”.
Nel Seminario X, come già nel Seminario VII, Lacan ricorda
che è stato accusato di non interessarsi sufficientemente agli affetti, lui
ricusa quest’affermazione dicendo che ha provato a dire cosa non è l’affetto.
Per esempio in questo paragrafo: “non è l’essere dato nella sua
immediatezza, e neppure il soggetto in una forma bruta. Non è, in nessun
caso, protopatico (...)”. Per finire dicendo: “(...) l’affetto ha una
rapporto stretto, di struttura, con quello che è un soggetto”. (p. 17)
Questa è la linea essenziale di Lacan: l’affetto non è un indice che ci
rivelerebbe qualcosa di un essere occulto, un essere che - essendo anteriore a
qualsiasi processo significante - sarebbe stato trasformato o velato a causa
del significante, a causa del linguaggio.
Lacan rifiuta l’idea del soggetto protopatico - un soggetto elementale, che
ha reazioni indiscriminate, in modo automatico, come la sensibilità della
reazione tattile al calore, al dolore o alla pressione - più o meno confuso con
la pulsione o anche con l’istinto. Per lui l’affetto e il soggetto hanno una
relazione che non è associativa, non si vincolano posteriormente
all’apparizione di quest’ultimo ma è una relazione strutturale. Ci può essere
affetto, come segnale, solo per un soggetto che è frutto del linguaggio.
Inizialmente Lacan aveva messo l’angoscia in stretta relazione con il
fantasma, mentre adesso mette l’affetto in stretta relazione con il soggetto.
Questa relazione strutturale tra affetto e il soggetto è qualcosa che
Lacan formula adesso che la categoria del reale e quella del piacere stanno già
prendendo forza, o era già un’intuizione anteriore? Lacan lo sosteneva già in
piena epoca di primato del simbolico.
Per esempio, nel Seminario VI, Il desiderio e la sua interpretazione,
diceva: “Il cosiddetto affetto non è qualcosa di assolutamente opaco e
chiuso che costituirebbe un al di là del discorso, una specie di nucleo vissuto
di cui non si saprebbe da quale cielo ci è piovuto addosso. L’affetto è molto
precisamente e sempre, qualcosa che si connota in una certa posizione del
soggetto rispetto dall’essere. Intendo dire in relazione all’essere in quanto
ciò che gli si propone nella sua dimensione fondamentale è simbolico. Ma capita
anche che, al contrario, esso costituisca all’interno di quel simbolico
un’irruzione del reale, in tal caso piuttosto sconvolgente. (...) La collera
non è altro che questo: il reale che arriva in un momento in cui abbiamo
compiuto una bellissima trama simbolica dove tutto va a gonfie vele, l’ordine,
la legge, il nostro merito e la nostra buona volontà. All’improvviso ci si
accorge che i cavicchi non entrano nei buchi. Ecco l’origine dell’affetto della
collera”. (pp. 159-160).
Cosa vuol dire “origine dell’affetto della collera”? Si tratta
dell’origine, nel senso della causa che diviene opportunità concreta per un
soggetto di provare collera o si tratta dell’origine della possibilità medesima
di sperimentare quell’affetto?
Nel corso dell’insegnamento di Lacan si farà via via più chiaro che gli
affetti, in tutta la loro diversità - ne troviamo 53 nel suo insegnamento -
sono un prodotto, un risultato, un effetto. Non sono un elemento già lì
dall’inizio, a disposizione dell’essere umano, e non è così neppure per gli altri
viventi.
C’è la possibilità di sperimentare affetti soltanto per chi è affetto da
linguaggio, cioè, i parlêtres, gli esseri parlanti.
Ci sono occasioni in cui gli esseri parlanti vogliano avvicinarsi ai
viventi in generale, seguendo una fantasia di “umanizzazione” della natura, e
si raccontano delle favole su come la natura stessa sia affetta dalle parole;
alcune persone pensano che le piante crescano di più se parlano loro… e
addirittura in un film francese un gruppo di amici cercava di verificare l’effetto
delle parole su due vasetti di riso: parlano a un vasetto con amore, con
termini dolci, e all’altro vasetto lo insultano, lo maltrattano verbalmente…
non essendo il tema centrale del film non si arrivava a nessuna conclusione
fortunatamente!
Procedendo nell’insegnamento di Lacan, la sua posizione rispetto alla
relazione fra affetto e significante si fa sempre più chiara ed esplicita. Nel Seminario
XVIII, Il rovescio della psicoanalisi, lo esprime in questo modo:
“(...) affetto ce n’è soltanto uno, cioè, il prodotto della cattura
dell’essere che parla in un discorso” (p. 162).
Nel seminario XX, aggiunge: “il linguaggio senza dubbio è fatto
della lalingua. È una elucubrazione di sapere sulla lalingua. (...) Siamo
affetti dalla lalingua prima a causa di tutti gli effetti che racchiude e che
sono affetti”. (pp. 167-168).
Tornando al Seminario X, a pagina 17, si coglie un’altra caratteristica
dell’affetto che Lacan ci propone: “l’affetto -dice- non è rimosso.
(...) È stato tolto dalla stiva e va alla deriva. Lo si ritrova spostato,
folle, invertito, metabolizzato, però non è rimosso. A essere rimossi sono i
significanti che lo ancorano”. In
questo passaggio Lacan dice di appoggiarsi a Freud, il quale sempre sostenne
che nell’inconscio non c’è niente dell’ordine di un’energia animale, di un
qualcosa sconosciuto o strano, di una profondità che conterrebbe alcuna
sostanza. Freud concepì l’inconscio - dall’inizio e non cambiò mai questa idea
- come una serie d’iscrizioni, tracce mnestiche, rappresentazioni, quello che
Lacan tradusse come significanti e che lo portò, temporaneamente, a formulare:
“l’inconscio è strutturato come un linguaggio”. È per questo che la
psicoanalisi non ha niente a che vedere con una psicologia del profondo.
La tesi che l’affetto è spostato dal suo luogo non è una tesi tardiva del
psicoanalisi, è qualcosa che Freud aveva situato da tempo e sviluppato
ampiamente in Progetto di una psicologia per neurologi, dove spiegava
come la rappresentazione traumatica cada sotto l’effetto della rimozione,
mentre la quantità di eccitazione, l’affetto legato a detta rappresentazione,
non segua lo stesso percorso. Non è rimossa ma rimane spostata, vincolandosi a
un'altra rappresentazione diversa da quella traumatica.
In questo senso, se gli affetti si separano del significante che li produce
- quando il significante è rimosso - e si legano a significanti diversi da
quelli che li corrispondevano originariamente, possiamo capire perché Lacan
affermi che gli affetti ingannano, che il senti-mento, mente, che quello
che sento, mente. Però attenzione! Non vuol dire che l’affetto in se stesso sia
bugiardo ma è la sua associazione con il significante quello che gli dà questa
caratteristica.
Qual è la particolarità dell’angoscia come senti-mento?
È a proposito di questo inganno che Lacan fa dell’angoscia un affetto in un
certo senso eccezionale: l’angoscia è l’affetto che non inganna. Non inganna
precisamente perché appare sciolto del significante e, piuttosto, nella
pratica, nella clinica, quello che facciamo è accompagnare l’analizzante, il
paziente, a poterla legare al discorso, così che provi a vestirla con le
parole. È il conosciuto effetto terapeutico del senso.
Alla fine della prima sessione del Seminario X Lacan ha già detto
che l’angoscia è un affetto, però non ha fatto una teoria generale sugli
affetti, e lo giustifica dicendo che sarebbe “sviluppare una psico-logia”
(p. 18), e sottolinea “non siamo degli psicologi, siamo degli psicoanalisti”.
Gli psicologi sono quelli che studiano la psiche, i processi propri della mente
umana, presi in opposizione ai processi che sono puramente organici, e
sviluppano un discorso su questo, insomma una continuazione dell’idea classica
dell’essere umano come corpo e anima.
Su questo punto Lacan si allontana da Freud, il quale aveva usato più volte
il termine “psiche”: intanto parlando di apparato psichico, ma il termine
stesso “psicoanalisi” etimologicamente significa la scomposizione di qualcosa
complesso in ognuna delle sue parti. È precisamente quello che ha fatto Freud
con le sue due topiche dell’apparato psichico: inconscio-preconscio-conscio;
io-Es-super-Io.
Un altro esempio è il termine metapsicologia, creato per nominare il
congiunto della concezione teorica e distinguerla della psicologia classica in
quanto per lui era centrare l’interesse nell’aldilà della coscienza,
nell’incosciente.
In realtà, potremmo dire che Freud riprendeva – seppur in un modo diverso -
un problema classico, quello della natura dell’uomo pensato come corpo e anima,
soma e psiche. Per esempio, Freud propose che la pulsione come concetto di
frontiera, tra lo psichico e il somatico. Inoltre nel 1938, in uno dei suoi
testi conclusivi, “Compendio di psicoanalisi”, Freud tornò sullo stesso
problema segnalando che non sappiamo cosa c’è lì in mezzo, non sappiamo cosa
articola psiche e corpo.
Che cosa ne pensa Lacan di questa “psiche”?
Lacan si burla un po’ - o molto - della psiche in diversi momenti del suo
insegnamento, dice di lei che è “una vecchia superstizione il cui testimone
abbiamo in tutte le epoche” o che “è un sogno che è stato ereditato
dalla filosofia” (1976). La critica anche apertamente: “Quella cosa che
esiste soltanto nel vocabolario dei psicologi - una psiche attaccata al corpo.
Perché diavolo, si deve dire, perché diavolo sarebbe doppio l’uomo? Che ci sia
un corpo già nasconde abbastanza misteri…” (1975).
Com’è riuscito Lacan a sbarazzarsi della psiche? Cosa gli permise di non
averne più bisogno per pensare ciò che è propriamente umano? Cosa mise come
operatore di quella peculiarità umana? Il registro simbolico.
Per Lacan l’apparato non è psichico ma del linguaggio. In un certo senso
Lacan cambia con questo il nome dell’umano: psiche sostituito da simbolo,
psichico da simbolico. Quello simbolico è il registro a partire del quale è possibile
cominciare a parlare dell’essere umano.
Una curiosità: nel secolo XIII, Federico II di Germania, intrigato dal
sapere quale lingua avrebbe usato un individuo crescendo in mezzo a persone che
non gli avessero mai parlato, fece un esperimento con un gruppo di bambini:
prescrisse alle nutrici di alimentarli e lavarli, però senza coccolarli o
parlargli in modo alcuno. Il lavoro fu vano… tutti i bambini morirono poco
tempo dopo.
I risultati di questo esperimento brutale mostrano come la vita umana si sostenga
nella relazione fra il corpo - con la sua forma e il suo flusso vitale - e il
linguaggio. Il linguaggio è l’attrezzatura che ci dà una vita soggettiva, da
essere parlante, da parlêtre.
In questo senso, l’ipotesi dei tre registri - Reale, Simbolico e
Immaginario - è un’ipotesi antimetapsicologica: sono i tre termini di Lacan che
oppone ai tre di Freud. Forse anche per questo Lacan fa un gioco omofonico tra
RSI e hérésie (eresia) e si presenta come un eretico.
Per cosa serve l’angoscia a Lacan?
Non si serve dell’angoscia per fare una teoria generale degli affetti,
quello che gli interessa è la nascita del soggetto, in quale reale può apparire
un soggetto, e di questo soggetto quello che vuole interrogare è giustamente il
suo desiderio, cioè la sua mancanza, perché può esserci desiderio, per
definizione, soltanto lì dove qualcosa manca. Si può desiderare solo quello che
ci manca.
Da questo punto di vista è logico che Lacan affermi di aver parlato sempre
dell’affetto. La psicoanalisi tale come lui la situa, come un discorso su una
praxi - una pratica, non una teoria -, un discorso sugli effetti del
parassitaggio del linguaggio sull’essere, sia nelle formazioni dell’incosciente
sia nel pensiero, dev’essere situato e dedotto anche nella specificità di questo
parassitaggio.
Potremmo dire che in certe occasioni il soggetto si fa rappresentare da un
affetto, lo porta come l’unica cosa, la più importante, che ha per dire di sé.
Tante volte, quell’affetto è l’angoscia.
Vorrei illustrarlo con una vignetta clinica.
Maria è una donna di approssimativamente cinquanta anni che vive
felicemente sposata col suo secondo marito. Viene da me perché improvvisamente
è presa dall’angoscia. Sa bene quando si è scatenato il suo disagio: da quando
suo marito ha svalutato la gravità della situazione che attraversava suo figlio
- figlio del primo matrimonio - che, per problemi nel parto di sua moglie ha
chiesto a Maria di aiutarlo badando all’altro nipote.
La reazione di Maria col marito è stata rabbiosa, di rifiuto, verbalmente molto
violenta, comportamenti inaspettati per lei. Per questo ha pensato di separarsi
e successivamente ha avvertito un forte “dolore di pancia”, come sempre
quando qualcosa la inquieta.
Maria non ha interesse nel raccontare la sua storia, lei vuole soltanto non
essere più angosciata. Dice apertamente che a lei non piace rimuovere le cose
del passato.
Della sua infanzia? Sa che suo padre si ammalò gravemente e morì pochi mesi
dopo che lei vide la luce. La madre, anche se segnata della tristezza di quella
perdita, seppe andare avanti: si risposò ed ebbero tutti una buona vita.
Con difficoltà riesce a raccontare del suo primo matrimonio, la separazione
e anche come si è lasciata “strappare” il figlio dall’ex-marito. Tutte
queste vicende non sa bene come le ha vissute affettivamente, ha soltanto il
suo dolore di pancia a segnare i momenti difficili.
Quel “mal di pancia” appariva regolarmente nel suo discorso. Ho
iniziato a sottolinearlo ogni volta che lei lo nominava, cosa che ci portava al
racconto di ancora un altro episodio, producendo una serie che caratterizzava
gli eventi importanti della sua vita. Era un significante chiave.
Dopo pochi mesi da quando ha iniziato le sedute, si aggiunge un lamento: da
quando viene a trovarmi si sente malissimo fisicamente. Lei, che non è mai
malata, ha dovuto rimanere a letto con febbre più volte per malesseri di
origini diversi. Tuttavia, non lo mette in relazione a questo inizio di messa
in parola ma piuttosto dice che l’angoscia la indebolisce. “Fino ad ora
– mi spiega ancora un'altra volta - avevo soltanto…” “mal di pancia!”,
finisco io la sua frase, con voce alta e decisa.
Maria rimane disturba, si arrabbia. Che il “suo” mal di pancia sia
detto da me la porta fuori dalla sua posizione di bella indifferenza e
amabilità. Ribatte: “Si, già da piccola avevo l’acetone, mal di pancia
nervoso, per gli esami… dovrei ritornare a prima di nascere, perché mia madre
già aveva “mal di pancia” per me”.
È in quel momento che sorge il racconto da sempre saputo però da cui aveva
estratto l’affetto, per lasciarlo giacere a lato del suo pensiero: sua madre,
incinta di lei, data la diagnosi mortale della malattia del padre, decise di
abortire. Prese per farlo delle erbe che, fortunatamente, produssero soltanto
un fortissimo dolore di pancia.
Adesso: maternità, abbandono, corpo, non chiedere aiuto, non voler sapere…
cominciano a sfilare nel suo discorso. Appaiono sogni, tristezze che non furono
mai tenute in conto, domande diverse e volontà di sapere di più.
Il dolore di pancia non diceva quello che conteneva, la divisione
introdotta nel transfert apre in un altro modo la possibilità di un percorso
analitico.
Lacan ci dà una definizione generale di affetto in questi capitoli?
No, Lacan elude la definizione di affetto.
In questo, segue i passi di Freud, che non diede una definizione
dell’affetto a livello descrittivo, una definizione con cui si potrebbe
riconoscere, identificare e così distinguere da qualsiasi altra cosa. Freud si
riferisce al termine affetto perché parte dall’idea comune che tutti sappiano
cos’è e, pertanto, siano capaci di riconoscerlo.
Rispetto all’angoscia, in Inibizione, sintomo e angoscia (1926),
dice che è “(...) in primo posto qualcosa di sentito. La chiamiamo stato
affettivo, sebbene non sappiamo che è un affetto”.
Non è che Freud pretenda di ubicare l’esperienza soggettiva come criterio
di verità, però in questo modo evita di dare una definizione generale
dell’affetto, una definizione descrittiva, perché per farlo dovrebbe
appoggiarsi alla nozione di fenomeno – cioè dell’aspetto che le cose offrono
davanti ai nostri sensi dall’infuori, il primo contatto che abbiamo con le
cose. Sarebbe complesso nella teoria psicoanalitica, perché i concetti
analitici non corrispondono a fenomeni osservabili, infatti quello che la psicoanalisi
pretende di dimostrare è che non c’è accesso diretto del soggetto al mondo -
sia esteriore che interiore - che non passi dal linguaggio, che non si produca
senza la mediazione dell’Altro, e che, pertanto, l’espressione degli affetti e
la descrizione di questi varia secondo le società e secondo i soggetti.
Lacan si domanda come potrebbe parlare dell’angoscia in generale quando con
questo termine includiamo “esperienze così diverse come l’angoscia
paranormale, o anche francamente patologica, l’angoscia de (...) i nevrotici e
anche l’angoscia (...) del perverso, anche quella dello psicotico” (p. 27).
Nonostante questo non si rifiuta di classificare l’angoscia come un affetto.
Cosa si potrebbe utilizzare per insegnare qualcosa su questa questione
dell’affetto?
Lacan non parla tanto per parlare ma si riferisce a intenti concreti di
diversi autori che hanno cercato di insegnare qualcosa sugli affetti, intenti
che lui ha esplorato e analizzato. Ci presenta due metodi - il catalogo e
l’analogo - sui quali ci espone quello che ha trovato e come ne sia rimasto
deluso.
Propone un terzo metodo, il suo, che denomina come la chiave, e del quale
dice che è orientato dall’ideale di semplicità che in tutto l’insegnamento
cerca di raggiungere: cos’è la chiave? “La chiave è ciò che apre e che, per
il fatto di aprire, funziona” (p. 14).
Come pensa possibile la semplicità in relazione all’affetto? Perché
tutti i fenomeni umani sono mediati dal linguaggio, nessuno - l’affetto
come gli altri - può essere né compreso né situato correttamente se non è in
rapporto alla relazione dell’essere con il linguaggio. Pertanto anche per
l’affetto, Lacan definisce così la situazione di “initium”: “non c’è
apparizione concepibile di un soggetto come tale, ma a partire
dell’introduzione primaria di un significante, e del significante più semplice,
quello che si chiama tratto unario” (p. 25).
Questo significante dove si introduce? Nel reale del parlante, cioè, nella sostanza
della quale il suo essere è fatto, in quello che Lacan chiamerà, più tardi, la
sostanza godente.
Il reale dell’organismo che ogni essere è, risulta affetto da questa cosa
semplice, simplex, che Lacan chiama anche “singolarità del tratto”.
L’organismo, una volta che è influenzato dal linguaggio, sperimenterà affetti.
Il fatto che Lacan, nel Seminario X, usi il termine “singolare”
ha la sua importanza, perché segna come irripetibile e unico ogni parlante;
segnala l’impossibilità di prevedere, organizzare o orchestrare come e quando
si produrrà quell'evento.
È perché ha un corpo “toccato”, “marcato” dal significante,
che il parlante potrà sperimentare affetti, ed è importante esplicitarlo:
sperimentarli nel suo corpo.
Potremmo dire che questa angoscia iniziale che alcuni contemporanei di
Freud volevano attribuire alla nascita come successo puramente organico, Lacan
l’attribuisce alla nascita, ma a una nascita molta concreta: alla nascita al
linguaggio.
Preparazione redazionale di Alberto Tuccio