Relazione tenuta presso l’Istituto freudiano di Milano il 22 settembre 2012.
Presentazione del Relatore
José María Álvarez è psicoanalista, membro della ELP (Escuela Lacaniana de Psicoanalisis), lavora all’Ospedale Universitario Río Hortega di Valladolid, presso il quale è anche Coordinatore degli specializzandi di Psichiatria e Psicologia clinica. Autore di diversi testi, si ricorda un importante trattato sui fondamenti della psicopatologia psicoanalitica e La invención de las enfermedades mentales. Centro della ricerca del Relatore è il tema della psicosi.
I. Il Seminario XXIII nella prospettiva della psicopatologia
Il Seminario XXIII di Lacan è molto complicato. Studierò il Seminario XXIII nella prospettiva della psicopatologia, questo ci porterà a riflettere sulle forme discrete della follia e ad illustrare un modello attualmente in auge nella psicopatologia: il modello continuista.
Ho indirizzato l’interesse sulle domande: Joyce era folle? E se lo era, quale era la sua follia? E se non era folle, perché non lo era? Per rispondere a queste domande farò riferimento al Seminario XXIII, e ad altre chiavi che attraversano l’opera di Lacan.
In primo luogo cercherò di armonizzare le due cliniche di Lacan. Dopodiché cercherò di interrogare la nozione attualmente in auge di “psicosi ordinaria”. Successivamente, proporrò che la diagnosi di qualunque forma di psicosi (straordinaria o ordinaria) si possa diagnosticare con la clinica classica di Lacan, e così farò rispetto al rapporto di Joyce con sua figlia Lucia. Infine, voglio anche proporre che il trattamento della follia o della psicosi, a partire del Seminario XXIII, o della teoria dei nodi, è più ottimista: non solo per ciò che possono fare gli analisti, ma anche perché i folli sono alla ricerca continua di riequilibrarsi. C’è una frase che ripeterò nel corso di questa conferenza, che sintetizza in modo volgare la tesi di Lacan sul nodo borromeo, è un proverbio spagnolo: “c’e sempre uno strappo per una scucitura”, vuol dire che c’è sempre un rimedio per una disgrazia.
Il filo conduttore di tutta quest’argomentazione si centrerà sul rapporto fra Joyce e la figlia Lucia, perciò prenderò come riferimento un’idea illuminante di Lacan, che si trova più o meno a metà del Seminario XXIII secondo l’edizione francese.
A proposito del rapporto di Joyce con Lucia, Lacan dice che Joyce attribuisce a sua figlia Lucia qualche cosa che sta nel prolungarsi del suo proprio sintomo. Se capisco questa frase, mi do per soddisfatto. Di quale sintomo si tratta? Lacan lo precisa continuamente dicendo che a Joyce si impone qualcosa rispetto alla parola in un modo che il sintomo di Joyce, rispetto all’imposizione di parole, si trasferisce, o si prolunga, in sua figlia nella forma della chiaroveggenza o telepatia. Chiarirò questi termini, posto che Lacan parla di “telepatia” e Joyce di “chiaroveggenza”, e gli psicotici sono “molto rigorosi”, come Lacan dice in una conferenza in un’università americana. Se Joyce dice “chiaroveggenza”, lo dice per qualche motivo, come spiegherò.
La tesi che voglio sostenere è che se c’è qualcosa di folle in Joyce è la convinzione sulla chiaroveggenza di sua figlia Lucia. Dal punto di vista psicopatologico, questo è [l’elemento] più forte rispetto al resto delle idee che Lacan cerca di verificare nel corso del Seminario. Per difendere il mio punto citerò una frase di un amico e collaboratore di Joyce, il cui nome è Paul Léon, che dice: “Il signor Joyce si fida di una sola persona e quella persona è Lucia. Ciò che lei dice o fa, è l’unica cosa che lo guida.”
Il Seminario XXIII si inserisce nella grande tradizione della cultura occidentale, per esempio la relazione tra la creazione e la follia, e poi la relazione tra il linguaggio e la soggettività; questo va al di là della psicopatologia ed è inserito in ciò che ha a che fare col nostro mondo culturale.
Dirò brevemente qualcosa sulla relazione tra creazione e follia. Su questo punto si sono scritte intere biblioteche. È il problema fondamentale della cultura e della psicopatologia occidentale riferito alla melanconia. È il problema XXX di Aristotele rispetto al genio e al folle, recuperato da Ficino e dalla tradizione rinascimentale. Non entrerò su queste questioni che mi interessano molto ma sono molto ampie da sviluppare, vi dirò qual è la proposta di Lacan: l’inconscio non è la fonte della creazione, ma per Lacan è il sintomo la fonte della creazione. Lo dice chiaramente nell’Università di Yale: “spiegare l’arte attraverso l’inconscio mi sembra sospetto, questo è tuttavia ciò che fanno gli psicoanalisti. Spiegare l’arte attraverso il sintomo mi sembra più serio”. Nella dottrina di Lacan, l’artista è un inventore, è qualcuno che sa fare qualcosa. Quest’invenzione originale è la cosa più originale di ciascuno, il sinthomo. Una breve differenza tra sintomo e sinthomo: il sintomo contiene una significazione che può essere decifrata, interpretata, mentre il sinthomo è irriducibile alla significazione. Questo ha molto a che fare con Joyce. Da qui derivano due questioni fondamentali che dopo spiegherò con più dettagli: una riguarda la nominazione e l’altra riguarda il godimento.
Il rapporto di Joyce con il sinthomo. Joyce ha incarnato il più singolare. Joyce incarna il sinthomo fino a fare di esso il suo proprio nome. Non si tratta di leggere l’opera di Joyce, specialmente Ulisse o Finnegans Wake, cercando un senso, o una significazione oppure “che cosa vuol dire questo”. Joyce è, come dice Lacan, disabbonato all’inconscio, è alieno all’interpretazione, al rapporto tra inconscio e interpretazione, è al margine di questo. Ciò che ci interessa di Joyce è il lavoro che fa per farsi un nome, e per sopravvivere per sempre. Lacan sviluppa una tesi, che lo conduce lungo tutto il Seminario, sull’importanza per Joyce di farsi un nome. Lacan dice: “ho centrato la questione intorno al nome proprio e ho pensato, facciate voi quello che volete su questo pensiero, che dal fatto di crearsi un nome, Joyce ha fatto una compensazione della mancanza paterna”. Questa è la via che percorre tutto il Seminario. Non dimenticate questa frase per il caso, che vedremo dopo, di Erminia Macola che ripete un aforisma di Nietzsche: “quando qualcuno non ha un padre, deve fabbricarselo”.
Volevo fare un’avvertenza. Troviamo una gran difficoltà quando dobbiamo fare una diagnosi di una persona che è anche un artista. Per esempio Stanislaus Joyce, il fratello di Joyce, nel suo libro con l’affascinante titolo: “Il guardiano di mio fratello”, avverte che molti passaggi del libro Il giovane artista sono romanzati, non bisogna prenderli come dei fatti biografici diretti. Bisogna mantenere una certa prudenza secondo la mia opinione. Anche Freud menziona questo. Ricorderete la frase in cui Freud parla dei cristalli che al cadere e rompersi si infrangono seguendo linee di rottura predeterminate: è la frase su cui appoggiamo la visione strutturalista della psicopatologia freudiana. Tuttavia, quando scrive il saggio sulla Gradiva, Freud scrive questo: “la frontiera tra gli stati animici chiamati normali e quelli patologici è in parte convenzionale, e in ciò che resta è tanto fluida che probabilmente ciascuno di noi la attraversa varie volte nel corso dello stesso giorno”. Così abbiamo due prospettive contrarie all’interno dello stesso Freud: una categoriale o strutturale, l’altra dimensionale. Lo stesso che troviamo in Lacan nel rapporto tra il Seminario III e il XXIII, è lo stesso che troviamo nel DSM IV e nel futuro DSM V. Tornerò su questo argomento.
Rispetto alla seconda questione tradizionale nella nostra cultura, il rapporto tra linguaggio e follia, vorrei introdurre il concetto fondamentale per intendere Joyce: lalingua (lalangue). Il linguaggio è stato usato tradizionalmente in funzione della comunicazione, tuttavia oggi tutti sappiamo, o sospettiamo che il linguaggio sia costitutivo. Questo è una novità nella storia della cultura del XIX secolo, che ha in Freud il grande protagonista e in Lacan il grande teorico che afferma questa questione. Vi siete mai chiesti perché non ci sono allucinazioni uditive prima delle descrizioni del XIX secolo? È una domanda fondamentale per capire che il linguaggio fino ad allora si manteneva sul piano della comunicazione, ma con l’andata in pensione di Dio e l’emergenza del discorso scientifico appare una nuova soggettività, un nuovo spazio nella soggettività, e con essa la schizofrenia o l’automatismo mentale. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che il linguaggio parla al soggetto. “Die Sprache spricht” dice Heidegger, lui ci parla, il linguaggio ci parla. Tutto questo si è potuto addensare come conoscenza nel campo della letteratura per esempio con Joyce o Virginia Woolf, nel campo della filosofia con Wittgenstein o Heidegger, ma soprattutto i grandi ispiratori di questo grande cambiamento radicale sono gli allucinati, gli psicotici. Sono i primi che nella loro esperienza cominciano a trasmettere che il linguaggio parla attraverso di loro. Nell’ambito della clinica è chiaro dalla Grecia, fin da Platone, che il linguaggio si usa per guarire le malattie dell’anima, ma a nessuno prima di Freud viene da pensare che il linguaggio costituisce e dà forma al sintomo. Con questo vi fate un’idea di ciò che Joyce rappresenta, come grande testimone, sia sulla base della sua esperienza personale sia come artista, di questa nuova presenza del linguaggio che ci parla, che ci usa per farsi sentire. Lacan inventa un concetto straordinario al riguardo, è un concetto vincolato a Finnegans Wake: il concetto di lalangue.
Che cos’è il linguaggio di cui gode l’essere parlante? Non citerò la lunga frase del seminario Ancora, ma vorrei che rimaneste con l’idea che prima di quando noi parliamo ordinatamente, i bambini piccoli, i bebè, fanno le lallazioni, balbettano, e da questo balbettare, di questo lalangue due cose richiamano l’attenzione e le possiamo osservare nei bambini piccoli: la dimensione sonora e il godimento. È straordinario osservare i bambini piccoli con un’emozione fortissima al momento di emettere questi suoni, con un godimento straordinario. Joyce è per eccellenza un adulto che sta immerso ancora in questo godimento parossistico di lalangue, Joyce e alcuni pazienti che chiamiamo maniacali o melanconici in fasi maniacali. Qualunque studioso della psicopatologia sa, leggendo Enrico A. Morselli, Eugenio Tanzi o Kraepelin, che la caratteristica della fuga delle idee è la costruzione per suoni, per fonetica. Miller quando analizza la costruzione letteraria di Joyce parla di omofonia, stiamo parlando dello stesso fatto, lo stesso fatto trattato in modo molto diverso dal maniacale che da Joyce. Joyce impiegò sedici anni per scrivere Ulisse, e molti anni per scrivere Finnegans Wake. Si tratta di une opera che è costruita con fonemi di diverse lingue, che non vuol dire niente. Finnegans Wake bisogna leggerlo a voce alta perché è suono. La moglie di Joyce si chiama Nora Barnacle, che vuol dire cozza. È una cozza. È molto interessante perché è la relazione che aveva con Joyce. Questa signora, quando morì suo marito, la intervistarono e disse: “A casa mia venivano degli scrittori e alcuni scrittorucoli, André Gide…, al mio Jim non piacevano affatto le parole, ciò che gli piaceva erano i rumori e i suoni. Per questo è molto contento di essere sepolto vicino allo zoo perché ascolta i leoni, gli elefanti, era ciò che gli piaceva…”. Ed era vero che la sera, dopo aver bevuto come ogni irlandese che si rispetti, lui scriveva, e sono celebri le sue risate che svegliavano tutta la famiglia. Questo ci fa capire il godimento che provava Joyce al momento di scrivere. Pertanto, non si tratta di senso ma di godimento.
La questione è: che cosa ha apportato a Joyce il fatto di scrivere? Nel caso di Joyce sembra evidente che la scrittura gli serviva per mettere un certo limite alla cassa di risonanza, a questi echi infiniti e minacciosi di lalangue. Detto in un altro modo, una forma per limitare gli effetti dell’imposizione delle parole. Miller lo dice con delle parole bellissime: “la scrittura era un paravento protettivo”. Da questo punto di vista, la follia potremmo pensarla come il punto di partenza, cioè: rovesciamo il modello di riferimento della psicosi. Tradizionalmente si pensa che uno entri, parta, dalla normalità e poi impazzisca. Il Seminario XXIII ci invita a pensare il contrario. È come la storia stessa della mitologia greca, partiamo dal Caos per arrivare alla norma, al Cosmos. Riprenderò questi aspetti.
La questione della psicopatologia. Nella prospettiva psicopatologica del Seminario XXIII ci sono solo due modi per pensare la follia. Una è relativa al fatto: le malattie mentali sono costruzioni discorsive o sono fatti della natura? Che cosa risponderemo a questa domanda? Non c’è modo di stare nel mezzo: o uno si pone da un altro o dall’altro. La seconda domanda è: la follia è una oppure è molteplice? Sono solo alcuni a delirare oppure tutto il mondo delira? E ne aggiungiamo un’altra: la follia è continua o discontinua?
Non possiamo pensare la follia se non in rapporto a queste questioni. Infatti, si osserva lungo i secoli XX e XIX un movimento oscillatorio che va da un polo all’altro. Non solo in Freud o Lacan, prendiamo i grandi clinici, per esempio Kraepelin ha passato tutta la sua vita a costruire tutte le categorie delle malattie mentali, differenti una dall’altra, era un uomo categoriale per eccellenza e lui credeva che fossero malattie veramente, fatti della natura. Quando andò in pensione dal suo insegnamento presso l’Università di Monaco di Baviera, scrisse alcuni articoli riguardo alla follia e la sua prospettiva cambiò completamente. Non era più categoriale ma dimensionale, diceva: “non trovo differenza tra la follia maniaco-depressiva e la demenza precoce”. Anche in Freud si può vedere qualcosa di simile, è molto categoriale, strutturale, all’inizio, chiaramente appoggiando le categorie in meccanismi. Ma, per esempio, quando studia la scissione dell’Io, alla fine della sua opera, trova che la scissione dell’Io era dappertutto, nella nevrosi, nella psicosi, nella perversione. Nel caso di Lacan è ancora più evidente. Quando si legge la Tesi di dottorato dedicata al caso Aimée, probabilmente la tesi più forte che richiamò attenzione in quell’epoca è stata la proposta che la paranoia cominciava con una crisi, era cioè discontinua, crisi e discontinuità erano ciò che distingueva la schizofrenia. Tutto il contrario dirà dopo, nel Seminario XXIII, nelle conferenze di Yale... Se leggiamo le opere più classiche di Lacan, il Seminario III, IV, V, ecc., vediamo in quale modo ordina le categorie o strutture freudiane o strutture cliniche, e in quale modo quelle strutture nevrosi versus psicosi sono disgiuntive tra loro. Restate con quest’immagine.
Nel Seminario III Lacan propone un’immagine, una metafora, rispetto alla psicosi e alla preclusione del Nome-del-Padre: “uno sgabello può sostenersi su tre gambe”, anche con due aggiungeremo facendo un certo equilibrio. Un equilibrio di cui potremmo dire che sono identificazioni, sono passaggi all’atto, ma in ogni caso è un modello molto rigido perché è disgiuntivo, o è questo oppure è l’altro. È nel mezzo che cosa c’è? Tra nevrosi e psicosi cosa c’è? Questo modello psicopatologico è molto ricco. Il modello delle strutture è ricco perché articola la clinica psichiatrica classica con una spiegazione psicoanalitica. Perché la clinica classica non aveva nessuna spiegazione, era pura osservazione… ed è meglio che si fermi lì perché se uno legge Kraepelin le spiegazioni che dà sono da ridere… o Séglas o Clérambault. Invece tutta la clinica classica, tutta la semiologia, è ordinata in accordo con la teoria freudiana. Questa è la grande potenza della clinica classica lacaniana. Ma questa clinica ha un difetto molto grande; cosa c’è tra la nevrosi e la psicosi? Per dirlo in un altro modo: la psicosi si costruisce come rovescio della nevrosi, dal punto di vista epistemico. Il nevrotico ama, lo psicotico invece è amato, il nevrotico dubita, lo psicotico ha una certezza. In questo c’è qualcosa di vero, ma anche qualcosa di forzato. Al contrario, nel Seminario XXIII parliamo di una clinica elastica, una clinica favorita dal modello topologico dei nodi, perché ci sono molti modi di annodare tre nodi che si possono sciogliere. Non è uno sgabello, ma sono nodi che si possono annodare in molte maniere. Il modello dei nodi mi ricorda un po’ il fatto che tra reale, simbolico e immaginario non c’è un rapporto naturale. Mi ricorda una teoria che Lacan sicuramente conosceva nella sua formazione psichiatrica e che fu esposta da Philippe Chaslin: è la concezione della discordanza. È un modello di pensare in cui le cose non tornano una con l’altra, ad esempio un soggetto perseguitato però contento, c’è una discordanza tra l’umore e le idee.
Queste sono alcune considerazioni generali rispetto alle due cliniche e ai problemi che ognuna di esse sviluppa. Perché, mentre la clinica classica pone il problema dei limiti, la clinica dei nodi pone il problema delle separazioni, dei casi intermedi, delle nevrosi pseudo-schizofreniche, della paranoia rudimentale, del delirio sensitivo di Kretschmer, ecc. Questo è un problema tradizionalmente trattato nella psicopatologia clinica.
Riassumendo, il Seminario XXIII, in questa prospettiva psicopatologica, cerca di apportare soluzioni sui limiti, sui borderline, sugli inclassificabili. D’altra parte ciò è frutto della maturità clinica propria di Lacan, come succede a tutti noi ci dimentichiamo sempre più delle diagnosi per focalizzarci sulla persona diretta. Tutti gli autori e gli specializzandi lo sanno: all’inizio della nostra pratica si ha bisogno di categorie, per organizzarci e organizzare il nostro panorama… “è un nevrotico, allora…. È un fobico, è un ossessivo, ciò vuol dire che…”. Abbiamo bisogno di questa tranquillità. Man mano che andiamo a sviluppare la nostra pratica ci sentiamo più a nostro agio… Questo pone questione del classicismo del Seminario III se confrontato con il Seminario XXIII, più elastico. Vi è un movimento oscillatorio in tutte le concezioni psicopatologiche, ma c’è anche una maturità clinica. Il Seminario XXIII presta attenzione alle forme discrete o le forme normalizzate di follia, la psicosi chiamata “ordinaria”. Questo Seminario prende una prospettiva elastica e continuista, cosa che ha un grande valore perché avvicina la follia al buon senso. Potremmo pensare che il modello della soggettività di Lacan sia un modello psicotico. Infine, è importante mettere in evidenza che l’insegnamento classico di Lacan ci lascia un po’ legati rispetto al trattamento della psicosi, mentre il Seminario XXIII è molto più ottimista: “uno strappo per una scucitura” è un detto spagnolo che dà una speranza rispetto alla soluzione di qualunque problema.
Adesso, mi piacerebbe dedicare alcune parole alle psicosi ordinarie da una prospettiva clinica, ma anche critica. In alcuni lavori le ho definite “psicosi normalizzate”, perché? Perché sono soggetti che fanno un gran sforzo per passare come normali. Il termine “ordinarie” ha una risonanza brutta, volgare. Si dice sempre che la psicosi ordinaria o normalizzata, o la follia discreta, presenta una sintomatologia piccola: “è un po’ delirante, il legame sociale è ridotto”, quindi abbiamo l’immagine di Jean-Pierre Deffieux quando dice che “sono soggetti psicotici con vestito di nevrotici”. Abbiamo qui un problema clinico, perché effettivamente conosciamo l’identità psicopatologica di un soggetto quando ha una crisi, la prova del nove è la crisi. Invece, le psicosi ordinarie non hanno grandi crisi, ma dall’altra parte ci danno l’idea di quali siano stati i rimedi che hanno usato per non avere la crisi, quale annodamento, quale tappo ha inventato il soggetto per non scatenarsi. Quindi quando leggiamo della psicosi ordinaria abbiamo sempre tre denominatori comuni: una sintomatologia piccola o discreta, una pseudo normalità e il servire come tappo, ciò che evita qualcosa di peggiore. Affrontiamo la questione della psicosi ordinaria attualmente, ma in realtà esiste una lunga tradizione. Menzionerò solo alcuni autori perché possiate vedere che non si tratta di una cosa nuova: alcune forme di “monomania” di Esquirol (le monomanie ragionanti), la “follia lucida” di Trélat che dice: “sono folli nei loro atti più che nelle loro parole perché si esprimono con lucidità”. L’opera classica di Prichard sulla “follia morale” dove si dice qualcosa di fondamentale: “non c’è in questo ordine illusione o allucinazioni percettibili o la mancanza di convinzioni sul giudizio simile alle ingannevoli impressioni”, insomma vuol dire che in questo tipo di follia non ci sono allucinazioni propriamente dette né le convinzioni delle grandi idee deliranti. Invece, troviamo soggetti che non sono molto folli, ci danno l’impressione che sono folli ma è molto difficile provare perché. Vi dirò alcune caratteristiche, come linee generali, su questi soggetti che sono folli ma non lo sembrano. In questo tipo di soggetti, l’unico segno che ho trovato, e che non è descritto dalla psicopatologia classica, è una forma speciale di psittacismo: soggetti imitano o copiano frasi dagli altri e le ripetono come pappagalli. Tutta la clinica si costruisce attraverso i casi estremi, la schizofrenia paranoide è costruita sulla schizofrenia paranoica, la paranoia si costruisce sui grandi deliranti paranoici, ma quando abbassiamo l’intensità, Bleuler per esempio dice: questo è un caso di schizofrenia semplice, questo è un caso di schizofrenia latente. Kraepelin dice: “questa è una forma di paranoia rudimentale, e dov’è la follia? sembra così simile alla normalità”. Bisogna tener conto che la nosografia è un’invenzione che facciamo noi, le classificazioni sono artificiali. Se leggete il testo di Miller El ruiseñor de Lacan, tutto il mondo sa che le classificazioni sono invenzioni nostre, come anche le strutture cliniche. Ci sono alcune costruzioni che sono più adeguate alla clinica e altre meno, ma questo campo dove la follia si avvicina alla normalità è più oscuro, complicato. C’è una formula molto bella di Miller che vorrei trasmettervi: “Noi pensiamo le strutture cliniche come delle nazioni separate da confini, ma forse la soggettività moderna o la nostra maggiore conoscenza della psicopatologia ci fanno vedere che al posto di frontiere abbiamo a che fare con dei litorali”. Come dicevano prima, con la frase di Freud, stabilire una frontiera tra la malattia e la salute è molto complicato, e forse tutti passiamo da una all’altra varie volte durante una giornata.
Ora darò qualche informazione sulla follia normalizzata, la psicosi ordinaria. Prima di tutto: lo psitacismo, ovvero sono soggetti che parlano con parole di altri, con il gergo militare ma non dicono niente. Ripetono frasi nelle quali il soggetto non si inserisce in ciò che dice e il linguaggio non lo sostiene. Si può avere l’impressione di stare a sentire una conversazione tra sordi. La fenomenologia appare dalla parte del corpo, un mio paziente dice: “sono stanco”, e cinque anni più tardi: “sono stanco, si, no, più o meno…”. Sono soggetti che parlano ma non sono inseriti nella “carne” del linguaggio. Un’altra caratteristica che ho trovato in questi soggetti è che non storicizzano, non c’è un racconto: ciò che Freud chiamava il romanzo famigliare, fondamentale per la diagnosi. Non s’inseriscono in una storia. Lacan nel testo Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi parla del sentimento della vita, vuol dire che questi soggetti non hanno il sentimento di essere nella vita, nel corso degli anni. Quando per esempio incontriamo qualcuno e diciamo: “ti ricordi cinque anni fa…,” abbiamo una storia, è integrata, dà l’idea di essere all’interno di una vita storicizzata. Invece, in questi soggetti sembra di avere a che fare con frammenti, istanti. A parte lo psittacismo, abbiamo dei discorsi prefabbricati. Richiama l’attenzione il fatto che questi soggetti non si inseriscono in una genealogia, in una filiazione. Parlano di questioni che noi pensiamo: “ma com’è possibile che questo non sia stato rimosso?”, mettono sul tavolo cose terribili senza alcun pudore. Colpisce la precarietà delle identificazioni sessuali, hanno rapporti con uno o con l’altra. Le identificazioni sono molto cangianti, si sostengono a identificazioni con un determinato tratto di un gruppo e poi passano a un altro. L’ultima caratteristica è il rapporto che intrattengono con il corpo: vi è un sentimento di estraneità.
In questa relazione abbiamo parlato di certezza, di delirio, di allucinazione. Questo è un terreno complicato e probabilmente la diagnosi non si fa con un solo elemento ma con molti: il rapporto con il corpo, col legame sociale, con il linguaggio… Invece con un solo elemento possiamo diagnosticare la psicosi, per esempio se c’è allucinazione verbale. Queste sono alcune complicazioni della psicosi normalizzata o ordinaria.
Tutta la clinica classica si sostiene sulla traduzione dell’esperienza del soggetto in segni osservabili, abbiamo chiamato questa “semiologia”. Per esempio, vediamo una persona che si tira i cappelli e scriviamo “tricotillomania”. È poco interessante dal punto di vista della diagnosi, ma se uno si morde le labbra potremmo pensare che lo fa perché ha delle allucinazioni psicomotrici verbali. In modo che tutta la clinica classica si sostiene sulla forza della semiologia, invece ciò che non dobbiamo fare con la psicosi ordinaria è dedurre la psicosi dalla teoria, sarebbe come dire: “lei è malato di schizofrenia perché ha un’alterazione alla serotonina”, oppure “lei ha una preclusione del fallo e quindi ha una psicosi ordinaria”. La clinica e la psicopatologia sono fatti e dati clinici, e sono questi che ci devono guidare nella diagnosi. Diciamo in Spagna: “Non si può mettere il carro davanti ai buoi”, metter il carro davanti ai buoi è diagnosticare una psicosi ordinaria dalla teoria. Se ha un lapsus nel nodo borromeo, no! I buoi precedono sempre il carro.
Abbiamo un problema con la psicosi ordinaria. A volte, per alcuni analisti, o clinici, la diagnosi di psicosi o di psicosi ordinaria gli impedisce di manovrare per un timore, e la cura passa troppo sulla punta dei piedi: non si interpreta, si dà troppa attenzione al paziente. Questo è un effetto della moda della psicosi ordinaria. In discorsi piccoli come il nostro siamo sempre sottomessi al discorso di gruppo, e con il passare degli anni ci rendiamo conto che abbiamo dato troppa importanza ad alcuni concetti. Pensate a due cose sulla psicoanalisi: la “follia isterica”, dove tanti schizofrenici venivano diagnosticati come isterici, oppure quando si legge il Seminario III di Lacan in modo sbagliato, quando Lacan invita i clinici a cercare i disturbi di linguaggio e alla fine tutto risultò essere disturbo di linguaggio. Dobbiamo avere una certa attenzione rispetto alla psicosi ordinaria e mettere sempre i buoi davanti al carro.
II.- La follia di Joyce
Questa seconda parte dell’esposizione tratta in particolare della follia di Joyce focalizzata dal punto di vista del rapporto con la sua figlia. È uno degli aspetti che Lacan mette in risalto nel Seminario. Quali sono i punti che segue Lacan per supporre che Joyce fosse pazzo? Lacan non dice mai psicotico, ma folle. È molto interessante vedere perché Lacan parla di follia e non di psicosi. Riassumerei in cinque punti ciò che Lacan segue per verificare la follia di Joyce.
La mia classificazione è molto arbitraria, ha l’obiettivo di ordinare solo dal punto di vista espositivo.
1) Prima di tutto il linguaggio, in due aspetti: epifanie e parole imposte. Quando Joyce parla di epifanie si riferisce, cito testualmente: “a una repentina manifestazione spirituale”. Lui camminava per le strade di Dublino e la sua attenzione veniva catturata da una determinata scena, lui prendeva nota di questa scena: brevi note che poi avrebbe incorporato in testi che avrebbe pubblicato molti anni dopo. Suo fratello Stanislaus Joyce le definisce così: “un’altra forma esperienziale del suo impulso letterario è consistito, mentre vivevamo in quella casa - una delle tredici o quattordici case dove visse la famiglia Joyce - nell’annotazione delle epifanie, manifestazioni o rivelazioni. Jim ha sempre disprezzato la simulazione, e quelle note furono in principio osservazioni ironiche su scivolamenti, piccoli errori, gesti, cose banali, tramite le quali la gente tradisce le molte cose che è capace di dissimulare. L’epifania erano abbozzi, non avevamo mai più di 12 righe, ma erano sempre osservazioni molte esatte su un tema futile”. Ho portato questo paragrafo di suo fratello per un motivo: quelle epifanie erano destinate a catturare ciò che Freud avrebbe chiamato lapsus, ciò che tradiva la volontà del soggetto. Joyce aveva una capacità analitica di vedere o osservare la soggettività lì dove non c’è finzione, dissimulazione. Ci sono alcuni autori che hanno voluto spiegare queste epifanie come esperienze enigmatiche. Le esperienze enigmatiche sono esperienze per eccellenza della psicosi e sono legate alla certezza, forse questa è una linea di ricerca un po’ eccessiva.
Il secondo punto: le parole imposte. Non sono né l’automatismo mentale né la xenopatia, ma si legano alla carenza del Padre che, secondo Lacan, colpiva Freud. Lacan aveva ragione. Probabilmente Lacan non avrebbe letto la lettera che adesso citerò, ma in questo breve testo è molto chiaro. È una lettera che Joyce scrisse a Miss Weaver, che fu la sua protettrice. Joyce parla della voce del padre: “Mi sembra che la sua voce in qualche maniera è entrata nel mio corpo e nella mia gola, ultimamente più che mai, specialmente quando sospiro”. Scritto nel 1932, è l’anno in cui la figlia Lucia impazzisce, un anno dopo la morte di suo di padre. Ma la morte del padre non modificò in nessun modo questa esperienza della voce. Dal punto di vista analitico e psicopatologico, abbiamo qui due suggerimenti fondamentali per la diagnosi di psicosi, ma dobbiamo mantenere una certa riserva dato che le parole imposte ci colpiscono tutti. C’è un parlottìo linguistico, il linguaggio come un parassita, come un cancro che affetta tutti quanti. La differenza fondamentale tra un folle e un equilibrato sarebbe la presenza reale di quelle parole imposte, per esempio attraverso un’allucinazione. Pertanto, la mia opinione è che le parole imposte e le epifanie sono molto affascinanti, ma bisogna mantenere una certa riserva.
2) In secondo luogo: il corpo. Lacan dà una grande importanza a un frammento del Ritratto dell’artista da giovane dove Joyce viene picchiato dai compagni di scuola: il suo rapporto col corpo e con gli affetti è tanto singolare che Lacan dice che ogni psicanalista sarebbe colpito da questo rapporto.
Nel libro che dedica a suo fratello James, rispetto a quest’episodio Stanislaus dice: “La discussione su Byron e l’eresia, e le botte con tre discepoli che risultano nel Ritratto dell’artista, non sono inventate né esagerate. È stato brutalmente spinto contro un fil di ferro spinato e mia madre ha dovuto rammendare gli strappi dei suoi vestiti”. Alcuni compagni lo colpiscono con bastoni e con un cavolo, Joyce si arrabbia ma il giorno dopo, quando ricorda l’incidente, dice: “Avevo sentito che c’era una forza occulta che andava a togliermi la cappa di odio accumulato, in un momento, con la stessa facilità con cui si stacca la pelle di un frutto maturo”. Ho riassunto, ma ciò che ha richiamato l’attenzione di Lacan è che il rapporto col corpo è troppo vuota di affetto, rabbia, collera o dolore. Questo curioso rapporto con il corpo colpì tanto Lacan che da esso dedusse una faglia, una mancanza nell’annodamento borromeo nel quale l’immaginario, cioè il corpo, scivola; una sorta di scivolamento del proprio corpo che sembra andarsene come una pelle. Questo episodio delle botte, come pista di ricerca mi sembra interessante, e va aggiunta ad altre piste dato che, a mio avviso, questo non è un fenomeno patognomonico, non è un fenomeno esclusivo della psicosi.
3) In terzo luogo: il Padre, questa è una pista sia teorica sia clinica. Lacan con buon criterio parte dall’idea che c’è una carenza: il padre di Joyce era carente. Dice Lacan: “Ho centrato la cosa intorno al nome proprio e ho pensato che per volersi fare un nome, Joyce l’artista, l’unico artista, con questo compensava la carenza del padre”. Non continuerò questa pista poiché mi sembra più teorica che clinica.
4) La quarta pista che segue Lacan, anche se non va molto lontano, è se Joyce era un redentore. È una delle posizioni per eccellenza della follia. Chiede al professor Aubert se Joyce era un redentore. Aubert non voleva dare una risposta chiara, ma Lacan insiste - era un testardo - e finalmente Jacques Aubert dice: no, non era un redentore. Per cui questa linea di ricerca, se Joyce era un redentore, la lasciamo fuori.
5) La quinta pista che svilupperò è sul rapporto di Joyce e Lucia Joyce, la figlia. Credo che qualunque clinico quando conosce questa relazione alla fine abbia una certa sicurezza che Joyce fosse folle e che sua figlia fosse ancor più folle, era una schizofrenica.
Prima devo dire che ci sono altre linee di ricerca che richiamano l’attenzione dello psicoanalista e dello psicopatologo che non sono state studiate, per esempio l’abuso di alcol di Joyce. Joyce era un bevitore, non andiamo a approfondire se fosse un alcolista o no, però beveva. Che ruolo avesse l’alcol nel suo marasma interiore non è stato studiato. Una questione fondamentale e cruciale che appare nella sua vita e nella sua opera è il tema della gelosia. La gelosia rispetto a sua moglie Nora. Nell’Ulisse si vede chiaramente: come Leopoldo Bloom esce di casa, sua moglie si incontra con il suo agente teatrale. Nei racconti che sono presenti nel libro Dubliners, l’assunto delle fedeltà è presente. Trovai nell’ultimo libro che ho letto su Joyce, di Ian Pindar, la seguente citazione: “Quando Joyce ritorna per la prima volta in Irlanda, si incontra con uno dei suoi amici e questo amico gli insinuò che era stato con Nora quando Joyce pensava che Nora stesse lavorando in un albergo”. In quel momento il mondo di Joyce crolla, e questo autore, Pindar, scrive: “Dopo una notte tormentata tornò a scrivere a Cosgrave, con dubbi più recenti: è Giorgio figlio mio? Forse ridono di me quando mi vedono passeggiare con mio figlio lungo la strada”. Quando visitò un altro amico si trovava in uno stato di assoluta paranoia, e gli raccontò dell’infedeltà di Nora. Quest’aspetto della gelosia è sempre presente in tutta l’opera di Joyce.
Un altro aspetto che colpisce il clinico è la querulomania. Al momento di pubblicare le sue opere, il rapporto che Joyce ha con i suoi editori è querulomane: discussioni su una riga che non vogliono pubblicare, ecc.
Poi Ellmann, il maggiore biografo di Joyce, evidenzia gli episodi depressivi e melanconici che Joyce viveva in alcuni momenti della sua vita, dopo ne vedremo alcuni.
Un altro punto che colpisce, che Lacan non analizza perché non gli dà importanza, è quello che potremmo chiamare il carattere paranoico di Joyce. Ciò che si definisce tradizionalmente come carattere paranoico, vale a dire superbia, egolatria, sospettosità. Joyce era superbo. Il carattere non è sufficiente per diagnosticare, questa è la tesi di Lacan del ‘32 ma colpisce.
Ci sono altri due elementi fondamentali che ci permettono di capire perché Joyce non diventò più folle. Questo lo vediamo anche nei nostri pazienti: il rapporto di sostegno con sua moglie, con una donna che è stata sempre presente, anche se Joyce era assolutamente insopportabile, in più la presenza di suo fratello Stanislaus, che lo ha sempre aiutato nelle difficoltà economiche e che quando nacque il suo primo figlio dovette presentarsi a casa sua perché Joyce non sapeva cosa fare. Queste due figure sono fondamentali, Nora e Stanisluas, perché gli psicotici hanno sempre bisogno di alcuni supporti.
Andiamo adesso a Lucia, la telepate, la chiaroveggente. Il nome, Lucia, colei che porta la luce, non è un nome casuale. Joyce soffriva rispetto alla visione, non vedeva e diventò cieco, ma a sua figlia dette il nome di Lucia, nata il giorno di Sant’Anna la chiamò Lucia Anna. Questa donna nacque a Triste in un padiglione per indigenti nel 1907 e morì in un manicomio in Inghilterra, a Northampton, nel 1982. Voleva fare la ballerina moderna, ma i genitori si opposero sempre; studiò con il fratello di Isadora Duncan, Raymond. Il rapporto di Joyce con sua figlia fu sempre singolare, sappiamo abbastanza di questa relazione, ma le lettere tra i due furono distrutte dal nipote di Joyce, il figlio di Giorgio. Gli studi su Lucia dicono molto sulla sua follia, l’ultimo di Carol Shloss, To dance in the wake (Ballare nel funerale), minimizza la follia di Lucia e sostiene, come fece Jung al suo tempo, che fu l’ispiratrice diretta di Finnegans Wake e dello stile di Joyce, e il modello di riferimento per il personaggio di Anna Livia Plurabelle. Dice Shloss che Lucia fu una musa fondamentale per Joyce. Afferma anche che la nascita di Lucia implicò una liberazione del potenziale creativo di Joyce, allora era bloccato nella scrittura del Ritratto. In questo lungo libro di Shloss c’è una frase molto interessante, si suggerisce che padre e figlia potevano “comunicare con una voce inarticolata e segreta”.
Lucia credeva di essere un’artista, era gelosa dei successi del padre. Quando avvenne la pubblicazione di Ulisse negli Stati Uniti, nel 1922, Lucia tagliò i cavi del telefono perché il padre non ricevesse i complimenti. Lei urlava: “sono io l’artista!”.
Andiamo ora alle fotografie, che sono sempre così rivelatrici. Si conservano molte foto: Lucia appare sempre di profilo perché era strabica. Il rigore della psicosi arriva fino alla anatomia. Joyce chiamò sua figlia Lucia: colei che porta la luce, come la santa che si strappò gli occhi e che la storia dei santi ha convertito nella patrona dei ciechi e l’avvocato dei problemi della vista. Questa questione è fondamentale per capire il rapporto tra padre e figlia, un rapporto mediato dalla telepatia e chiaroveggenza, cioè dalla percezione che va al di là dei sensi, un vedere al di là degli occhi. Lacan parla nel Seminario di telepatia e si riferisce a Lucia come telepatica, ma Joyce quando parla di lei dice che è chiaroveggente. Perché Joyce parla di chiaroveggente? La chiaroveggenza è una capacità di percezione extrasensoriale che permetterebbe ad alcune persone di ricevere informazioni relative ad eventi futuri. La telepatia, invece, consiste nel trasferimento di pensieri o sentimenti tra individui senza l’uso dei sensi. Lacan conosceva bene questo mondo, uno dei suoi primi lavori, scritto con Lévy-Valenci, si chiama Scritti ispirati, e la follia di cui Lacan parla è molto simile a quella di Lucia. Si ha così un’idea di questo rapporto singolare, mediato dal fatto di vedere al di là degli occhi. In più vi è un’altra caratteristica: Lucia era schizofasica. La schizofasia è una insalata di parole, quando lo schizofrenico parla senza nessun tipo di logica, di articolazione. Sorprendeva tutti il fatto che Joyce intendesse sua figlia, la ascoltasse con un’attenzione curiosa e seguisse la conversazione.
È importante capire in quale momento Lucia diventa folle e vedere che cosa accade a suo padre. Probabilmente accade nel 1932: Lucia inizia a presentare segni molto evidenti di follia un anno dopo la morte del padre di Joyce. Qui inizia tutta la questione della visione e dello sguardo, non solo della visione degli occhi ma della questione dello sguardo come oggetto. Quando morì suo padre, e glielo comunicarono mentre era nel manicomio, Lucia rispose: “Che la smetta di fare cavolate quel cretino e che si tiri su dalla terra, mi stava sempre ad osservare”. Qua si intreccia tutta l’articolazione della visione, dello sguardo di Joyce attraverso gli occhi di sua figlia e della chiaroveggenza. Alle persone che lo conoscevano colpiva che Joyce si avvicinasse con tanto credito a sua figlia per chiederle cosa gli sarebbe successo nel futuro. Joyce non ha mai pensato che sua figlia fosse schizofrenica, pensava che fosse chiaroveggente e un’artista incompresa. Visitò molti medici, quasi venti medici, compreso Jung, ma Joyce non ha mai pensato che la figlia fosse malata. Cercò anche di aiutarla, di trattarla. Come lo fece? La psicosi è la psicosi, ha un rigore. Le raccomandò di disegnare e ritagliare lettere dell’alfabeto. Perché Joyce era stregato dalle parole, come racconta una sua amica, Maria Jolas, che riferisce un aneddoto: Joyce si avvicinava tutti i pomeriggi alla stazione dei treni, saliva sui vagoni e toccava le iscrizioni dei vagoni per verificare che cosa dicevano e poi chiedeva alla sua amica Jolas di che cosa parlassero i passeggeri. Abbiamo qualcuno che è sommerso nei suoni e nel godimento. Sono le due caratteristiche che abbiamo messo in evidenza prima, parlando di lalangue.
La proposta che facevo è che con la clinica classica si possono diagnosticare le psicosi discrete, dato che probabilmente hanno qualcosa dell’esperienza psicotica chiara, è a tal punto così che anche Jung che conobbe sia Joyce che Lucia, che trattò, disse: “Questo è folle, è uno schizofrenico latente, mentre sua figlia non è latente, è una schizofrenica chiara”. Considero che entrambi affogarono nel fiume, per seguire la metafora di Finnegans Wake, mentre Lucia affondò nella profondità, Joyce riuscì a sopravvivere. Con la clinica classica possiamo diagnosticare qualsiasi tipo di psicosi, come chiaramente fece Jung. Ma Jung, la clinica classica, non seppe dar valore alla scrittura, all’opera in cui Joyce era immerso… e pensare che quella era la sua stabilizzazione. Questo lo possiamo fare a partire della clinica dei nodi, in modo che, concludendo, credo che la clinica classica ci permetta di diagnosticare, di trattare ma rimane insufficiente per spiegare i multipli maneggi, equilibri che gli psicotici inventano e che fanno di loro i loro sinthomi.
Domanda
La clinica continuista implica già la clinica classica o è possibile un superamento?
Risposta
La clinica elastica o dei nodi è ancora da sviluppare, va sviluppata perché lì manca un supporto semiologico. Credo che sia una linea di ricerca. Ma nella nostra formazione, nella nostra pratica partiamo dalla rigidezza delle strutture fino a quando non le possiamo abbandonare. Al principio ci interessa molto la diagnosi, dopo il trattamento. Non si tratta tanto perché questo tizio è folle, ma che cosa ha fatto o può fare per stabilizzarsi. C’è uno spostamento dall’interesse diagnostico alla terapia. Dal mio punto di vista, non si devono invertire le questioni. Si deve iniziare dalla clinica classica, bisogna studiare i sintomi, l’esperienza, il transfert, ecc., poi mettere tutto questo sottosopra e interessarci a ciò che è più particolare di questa persona. Dal generale al particolare. Questo è il tracciato dell’opera di Lacan. Credo che non si possa iniziare dal particolare.
José María Álvarez
Trascrizione di Florencia Medici
Redazione di Giuseppe Perfetto
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