lunedì 29 aprile 2013

Seminario del 13 marzo 2013. Docente: Alfredo Zenoni


Alfredo Zenoni è membro dell’École de la Cause freudienne (ECF, Parigi). Italiano d’origine, lavora in Belgio, per molti anni è stato Direttore di una comunità terapeutica per psicotici.


Svilupperò un confronto fra un passaggio di Television e alcuni elementi che Lacan ha sviluppato in seguito nel suo insegnamento.
Il passaggio si trova nel paragrafo 5 di Television. Jacques-Alain Miller evoca davanti a Lacan le proteste, le rivendicazioni post-sessantottine: se si gode male, o si gode meno, è a causa della repressione che si esercita sul sesso. Responsabili di questa repressione sono, afferma Miller, innanzi tutto la famiglia, poi la società, e in particolare la società capitalistica. 
Lacan reagisce a questa provocazione rovesciando i termini della questione. In un certo senso Lacan dice: non è perché c’è repressione che c’è rimozione, non è perché c’è una repressione della società che c’è rimozione, ma è perché c’è rimozione che c’è repressione. 
Anche se Freud è partito dal considerare che la castrazione era una conseguenza della minaccia brandita dal padre, quindi come se la castrazione fosse un effetto aneddotico della repressione paterna, Lacan afferma che poi Freud giunse sempre più a considerare la rimozione come primaria. Lacan dice: la rimozione non è un effetto della civiltà ma è, a suo modo, causa della civiltà. Rovescia i termini. Afferma quindi che, per esempio, la golosità del Super-Io, come Freud la evoca nel Disagio della civiltà, non è un effetto della civiltà, ma questo Super-Io goloso è effetto di qualcosa d’altro, altrettanto quanto la civiltà. Questo qualcos’altro è la rimozione che è all’origine, nello stesso tempo, di formazioni come la famiglia e la società. L’accento è messo sul carattere strutturale della rimozione e non sul carattere consecutivo ad uno stato della società. 
La rimozione è correlativa dell’esistenza dell’inconscio, come motivata dalla struttura. In questo periodo Lacan diceva che è il linguaggio la condizione dell’inconscio, e non l’inconscio che è la condizione del linguaggio. Questa è una netta presa di posizione di Lacan in questa epoca, intorno al ‘71: è ancora un Lacan sulla scia strutturalista del ritorno a Freud. 
Però, nello stesso tempo, un altro movimento è in corso in Lacan, si potrebbe dire quasi sin dall’inizio del suo insegnamento, un movimento “a-strutturalista” o “post-strutturalista” che in un primo tempo si sviluppa in modo minore ma che finirà con il dar luogo ad una separazione tra la struttura e il Reale. Mentre in un primo tempo la struttura è il Reale, o c’è una struttura del Reale, progressivamente Lacan si sposterà a considerare il Reale e la struttura come distinti. 
La struttura apparirà come una costruzione, una fiction, o come dirà più tardi una “elucubrazione” rispetto al Reale, rispetto ad un Reale a sé stante, senza legge e senza significante; ciò avrà delle ripercussioni sullo statuto dell’inconscio, della rimozione e della clinica. 
Vorrei sviluppare questo spostamento dell’insegnamento di Lacan.
Già in questo passaggio di Television la rimozione primaria è fatta equivalere ad un’impossibilità del Simbolico di dire il senso. Quello che Lacan chiama una “male-dizione sul sesso”, una impossibilità di dire-bene il sesso, va già nel senso della disgiunzione tra Simbolico e Reale. Questa separazione tra i due registri si è svolta principalmente su due versanti, su quello del fondamento del Simbolico e su quello della sessualità.
Il punto di partenza di Lacan, che resta fino a tardi, anche quindi in Television, è considerare Simbolico e Reale come sovrapposti: è la posizione strutturalista, la struttura è la struttura del Reale o il Reale è strutturato. Al centro di tale coincidenza di Reale e Simbolico c’è il Padre come fattore di rimozione.
Al contempo Lacan si scosta da questo movimento iniziale: è il progressivo disgiungersi del Simbolico e del Reale. Il primo versante su cui la disgiunzione si effettua è il piano del fondamento del Simbolico. 
L’idea iniziale di Lacan è che il Simbolico abbia un fondamento, cioè abbia un significante che appartiene all’insieme dei significanti e che fa sì che questo insieme tenga, faccia un ordine. In una struttura questo elemento lo chiama “punto di capitone”: ciò che tiene insieme tutti gli elementi, permette che tutti gli elementi tengano insieme, cioè che abbiano un orientamento, sfocino su una significazione. È quello che chiama il Nome-del-Padre, che ha la stessa funzione che può avere un significante in una semplice frase: finché una certa parola non arriva in una frase non si sa bene cosa voglia dire, quindi ci vuole una parola decisiva che permetta di capire l’insieme della frase. Ad esempio se io dico: “Su quale piano metti la composizione”, si capisce il significato di ogni parola, ma non si capisce cosa sto dicendo. “Su quale piano metti la composizione che dobbiamo suonare?”, oppure: “Su quale piano metti la composizione di questo pittore?”. Non è lo stesso “piano”. Non è la stessa “composizione”. Ad un certo punto, c’è una parola che fa precipitare la significazione della frase. Il Nome-del-Padre è ciò che permette al linguaggio di precipitare una significazione, di sapere da che parte si va, di avere un orientamento. È il significante, come dice Lacan, che ferma lo slittamento della significazione. Questo significante permette ad un certo punto di dire: “è così”, “vuol dire ciò”, il linguaggio si dirige verso questo punto. Se non c’è questo decisivo significante la significazione scivola, fugge.
Ma assai rapidamente Lacan finisce con l’isolare il carattere necessariamente ipotetico, indimostrabile, puramente supposto di questo significante. Lo estrae dai miti di Freud, che Lacan interpreta con una nozione religiosa, come dice lui stesso, che è quella del Nostro Eterno Padre di tutti.
Ma per il fatto stesso di ricondurre questa trascrizione del mito freudiano in termini che vengono da una lunga tradizione, lascia intendere che questo Nome-del-Padre non può essere iscritto nel discorso della scienza. Logificando, Lacan giunge a mostrare che questo fondamento del Simbolico nel Nome-del-Padre non è possibile perché nessun fondamento del Simbolico è possibile. 
Il Nome-del-Padre è uno dei fondamenti possibili… se ci crediamo. Il Nome-del-Padre è uno dei fondamenti possibili accanto ad altri fondamenti possibili. Il sistema Simbolico come tale, ogni sistema Simbolico, non può trovare in se stesso i mezzi per assicurare la propria consistenza, per dimostrare la propria tenuta, ci vuole sempre un elemento supplementare, un elemento esterno, una regola o un assioma che permetta di avere la coerenza del sistema, di stabilire un punto di partenza. 
Quindi altri significanti fondatori diversi dal Nome-del-Padre possono svolgere questa funzione di arrestare lo slittamento della significazione, di svolgere la funzione di sapere dove si va, dove ci si può fermare. Altri significanti possono avere questa funzione di punto di partenza o di fondamento, ma non sono derivabili dal sistema stesso: sono delle ipotesi, degli assiomi… uno crede ad un assioma, un altro crede ad un altro assioma. La storia mostra che di Nome-del-Padre c’è n’è più d’uno, quindi che nessuno può essere il fondamento ma soltanto essere uno tra gli altri che svolge il ruolo di fondamento. La logica viene a confermare questo: il significante iniziale che fonda la dimostrazione non è esso stesso dimostrabile, fonda il sistema ma è lui stesso senza fondamento, fonda l’ordine ma è fuori ordine, fa eccezione all’ordine. 
Questo elemento speciale che annoda tutta la trama del Simbolico risulta indispensabile, perché se esso non c’è il Simbolico va da tutte le parti e la significazione fugge; tuttavia questo elemento indispensabile è molteplice, è ogni volta ipotetico, è ogni volta postulato, è un mito, una credenza. Nulla nel Reale può corrispondere questa funzione di fondamento. 
Nel Reale non vi è né inizio, né centro, né fine, quindi nel momento stesso in cui il Nome-del-Padre può svolgere questo ruolo di punto di capitone del Simbolico appare anche che non è Reale. Questa messa in luce della natura di sembiante del significante maestro, come si dice “l’albero maestro”, significante cardine, centrale, Lacan finisce con il mostrare che è una pura finzione, una pura ipotesi, un assioma, qualcosa dell’ordine del postulato, della credenza. Questa logificazione svela l’esistenza di un altro possibile posizionamento soggettivo, specificamente femminile, un posizionamento che non ha bisogno di postulare un significante maestro, un Uno trascendente che fonda l’insieme. È una modalità differente di soggettività, un modo senza fondamento, un modo che è singolarità pura. Lacan non lo ha detto subito, ma già nel Seminario V vi è l’idea che ci fosse un altro modo di soggettività possibile, la soggettività specificatamente femminile. La donna può essere lei stessa cittadina o collega, ma come modo di soggettività specificamente femminile, dice Lacan, non richiede un fondamento, si definisce per il fatto stesso di non avere un fondamento. La messa in questione della natura reale del fondamento va di pari passo con gli sviluppi sulla specificità della soggettività femminile. Per questo Lacan sostiene che la soggettività femminile è più vicina al Reale, perché è più direttamente in rapporto all’assenza di fondamento simbolico, più in rapporto con una beanza che non si nasconde dietro una parvenza di fondamento d’essere trascendente, più direttamente in rapporto con l’Altro che non esiste. Questo sviluppo della soggettività femminile accompagna la relativizzazione del Nome del Padre, la trasformazione del Nome-del-Padre in sembiante.
Esiste poi un altro versante: la sessualità, dove, già dal Seminario IV, Lacan mostra che è impossibile estrarne una norma dello sviluppo perché l’intervento della castrazione, cioè l’intervento del fallo, stacca lo sviluppo dalla natura poiché sia per il bambino sia per la bambina ciò che è pertinente per questo sviluppo è il fallo della Madre. Desimmetrizza lo sviluppo, qualunque sia il sesso dei figli, essi sono confrontati alla medesima problematica del Desiderio Materno. Tale desimmetrizzazione mette fine ad ogni prospettiva che concepisce la relazione d’oggetto come armoniosa ed uniforme. Già nel Seminario IV Lacan mette in questione l’idea che esista un modello del rapporto sessuale. Anche nel registro della sessualità, parallelo al registro del padre, si è imposta a Lacan la separazione tra le dimensioni del Simbolico e del Reale. Da un lato il Simbolico agisce sul Reale, lo struttura, ma anche lo destruttura, lo altera, lo denatura, dall’altro lato il Simbolico denatura lo sviluppo naturale della sessualità e, al contempo, è incapace di fornire un’istruzione per l’uso della sessualità, non fornisce una norma o un modello per la sessualità, e non fornisce neppure un sapere inconscio per ciò che è nella relazione tra i sessi. Nel registro della sessualità ci sono solo formule discorsive diverse, storiche, culturali. Si passa da una prospettiva in cui il Simbolico sublimava la razza umana, la elevava alla dignità della cultura, ad un’altra nella quale Lacan dice che il Simbolico trasforma la razza umana in una specie di esiliati da una relazione tra i sessi che non c’è. Negli ultimi tempi Lacan dice che il Simbolico è un principio di disordine o, come nel Seminario Il Sinthomo, principio di un girare intorno ad un buco senza fine. 
La separazione del Simbolico e del Reale, e il passaggio del Simbolico al regime di sembiante, sono le due facce dello stesso spostamento post-strutturalista nell’insegnamento di Lacan, che sfocerà sulla nozione di Sinthomo. 
Dove abbiamo il Simbolico che struttura il Reale, che produce sapere, che produce l’inconscio, che comporta il Nome del Padre, tutto ciò si mette intorno ad un buco. Laddove c’era il Nome-del-Padre ora c’è un buco: c’è un Reale che non è simboleggiato, non è strutturato. Qui avvengono strutturazioni, ma sono sembiante, ipotesi, dei miti. Il Reale come tale non è avvicinabile, qui non c’è inconscio. Questo buco è anche un buco nell’inconscio. Quando Lacan parla del non rapporto sessuale vuol dire che non c’è rapporto sessuale nell’inconscio, cioè abbiamo a che fare con un inconscio bucato da un Reale. Laddove c’era un fondamento c’è un buco. L’elemento fondatore diventa quindi multiplo, sostituibile, variabile, fonda in modo provvisorio il Simbolico, lascia vedere che al livello del Reale non ce n’è. 
Questa trasformazione sul piano logico, epistemologico, non è senza rapporto con delle modifiche profonde che si sono prodotte nella nostra società, tanto sul piano dei discorsi quanto sul piano della clinica. Per il fatto stesso di manifestarsi come diversi, equivalenti, sostituibili, significanti importanti come “ideali“, “principi”, “tradizioni”, che garantivano la gerarchia, le istituzioni, i posti, i doveri, la rimozione, si sono affievoliti, sono impalliditi, hanno cessato di essere sinonimi dell’ordine delle cose, sinonimi del Reale. Ora tutti questi significanti tendono ad essere relegati al rango di versioni, interpretazioni, modalità culturali, abitudini che coesistono democraticamente con altri, ma si staccano dal Reale. Reale che è sempre più appannaggio della scienza. Nessun Padre può ormai far valere un sapere supposto, un sapere rivestito della luce della verità, un sapere autorevole che ci guidi alla nostra relazione al godimento; nessun Padre può far valere un tale sapere perché la scienza lo ha scacciato da questo posto, introducendo la prova, la dimostrazione, laddove precedentemente si trattava soltanto di credenza, di fede. 
La globalizzazione del capitalismo, per cui tutti diventano vicini di tutti, fa sì che la sovranità degli Stati e delle leggi sia scavalcata da poteri ben più efficaci, transnazionali, poteri finanziari ed economici. La nozione di un’istanza superiore si sgretola e tutto ciò a rischio di provocare dei ritorni al Reale di forme di separazione più brutali, maggiormente basate su modi di godimento che su simboli, che su significanti. Queste istanze regolatrici si sgretolano, svaniscono, mentre sono le istanze più potenti che guidano le sorti del mondo. 
Una conseguenza dell’irruzione della scienza, e delle sue applicazioni nel mondo, è che perde sempre più credibilità anche la nozione di natura come base dell’ordine del Reale. Oggi ciò che la scienza permette di fare o modificare, dal momento che questo sembra corrispondere ad un diritto o basarsi sull’eguaglianza di diritti, spazza via ogni considerazione etica che faccia appello alla natura come Reale ordinato, come incarnazione del Simbolico nel Reale. 
Nuove modalità di procreazione, filiazione e coniugalità, permesse dal diritto e rese possibile dalle biotecnologie, non sono semplicemente fenomeni di superficie, forme marginali della famiglia, ma esasperano la constatazione già manifesta dal secolo scorso della fine della famiglia come legame sociale naturale. 
Ciò che ormai permette la biologia giunge fino ad invertire i termini di ciò che sembrava fondare agli occhi di Freud l’eminenza della paternità nella configurazione edipica della famiglia. Infatti, Freud aveva considerato che la paternità costituisse un progresso per l’umanità, in quanto essa è precisamente fondata sulla parola e sulla fede: è padre colui che è detto essere padre, colui che le giuste nozze dicono essere padre, in opposizione alla maternità che è fondata sulla biologia e sulla percezione. Quest’idea di Freud Lacan la rievoca in diversi testi nella prima parte del suo insegnamento. A livello della procreazione, oggi sta emergendo l’opposto: è la maternità che può divenire una funzione giuridica, non necessariamente biologica e, inversamente, la paternità può essere stabilita sul piano del reale. L’evoluzione del diritto tende ad accogliere tutte le forme di legami sessuali tra cittadini come suscettibili di formare un’entità familiare, oltre alla modalità naturale della procreazione mediante l’unione di un uomo e di una donna. Questa evoluzione è il risultato di un’alleanza fra la scienza ed il mercato. Come dice Eric Laurent in una conferenza, lo sperma ora è venduto nei supermercati nei quali le signore fanno la spesa e ci sono dei club femminili che valutano le verifiche cui è stato sottoposto, cioè la freschezza del prodotto e il tasso di riuscita; con ciò è possibile razionare la produzione di bambini in modo più efficace confronto ai metodi artigianali. Questo accesso alla parentalità per tutti, come è ora in discussione in Francia, che separa ormai radicalmente la procreazione dalla sessualità, in particolare dall’eterosessualità, rende ancor più percettibile lo stacco dalla natura dall’esistenza umana nei suoi vari registri. Ciò che aveva l’aria del costitutivo della affiliazione, cioè la presenza di un padre e di una madre, risulta orami essere l’irriducibile di due funzioni che possano essere espletate da altre finzioni.  La filiazione nella specie dei parlanti si distingue sempre più da ciò che sarebbe una filiazione anteriore del simbolico, una filiazione naturale, ed appare essere soprattutto la conseguenza di un atto di parola, di nominazione, di adozione. Queste forme recenti di famiglia, di coniugalità, mostrano ancor di più che la famiglia umana è staccata dalla natura, soprattutto rileva della dimensione della parola, nell’adozione. Ogni filiazione, nel pieno esercizio, ha il suo fondamento nella parola, senza questo atto di adozione un bambino, anche se è nato da una coppia eterosessuale, rischia di non avere un posto nel legame sociale o nel discorso, e dovrà sbrigarsela altrimenti per averne uno. 
Tutti questi fenomeni di trasformazione della coniugalità e della famiglia vanno nello stesso senso dello stacco del Simbolico rispetto al Reale. La nozione di natura in qualche modo garantiva la giunzione tra Simbolico e Reale, la natura era il Simbolico incarnato nel Reale o era il Reale attraversato da leggi, dal simbolico. 
Il deterioramento del potere tradizionale del Simbolico come organizzante il mondo umano è riassunto da Lacan prima di Television, nel 1968, nei termini di una “evaporazione del padre”: ciò non è da intendere come una evaporazione del Simbolico, che è una componente ineliminabile della costituzione del parlessere, ma come una de-realizzazione del suo punto di capitone, del suo fondamento che ormai è soltanto mutevole, multiplo, sostituibile, fittizio. Ciò che l’antico, tradizionale, concetto di Padre aveva come autorità, potestà, ora è ridotto ad un miraggio. Ed è con questo Pater familias che Lacan si diverte a fare un gioco di parole, mettendo “pater” nel verbo francese “épater”, per dire che ora la virtù paterna è quella di sorprendere la sua famiglia, di fare dell’effetto, di ottenere una certa ammirazione, di lasciare a bocca aperta, dicendo, in modi scherzoso, che Lacan prende distanza da un’idea della funzione paterna come funzione simbolica universale, valida per tutti. Anzi, in quest’ultimo tempo nel suo insegnamento, riprende una nota che era già presente in Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi dove l’accento è messo soprattutto su ciò che un padre non deve essere, ciò a cui non deve identificarsi: niente padre educativo ma un padre arretrato, un po’ indietro rispetto a tutti i magisteri. È in questo periodo, negli anni ‘70, a partire da questa constatazione di evaporazione, che Lacan affronterà in un modo completamente diverso la questione del padre, cioè a partire da ogni singolo padre, un padre colto non già in funzione di ciò che definisce le prerogative simboliche, la definizione della sua funzione valida per tutti, ma un padre colto nella singolarità del suo rapporto alla causa del desiderio, al godimento che motiva il suo desiderio. In questo senso, ogni padre è singolo, è diverso da un altro perché la sua causa del desiderio è un’altra, considerando il padre da un punto di vista singolare nel suo rapporto alla donna, che per lui incarna la causa del desiderio. Questa versione che il padre offre della paternità Lacan la chiama “per-version”, padre-versione, versione del padre, con l’equivoco sulla “perversione” cioè sulla dimensione del godimento, della pulsione. Tale versione è necessariamente approssimativa, personale, zoppicante, in una parola: sinthomatica. Siccome prendiamo la cosa dal punto di vista della singolarità del rapporto pulsionale di un uomo al suo partner, ogni volta abbiamo a che fare con qualcosa che non corrisponde ad una formula universale del rapporto sessuale ma a qualcosa di più o meno improvvisato, personale, più o meno rabberciato, che fa mettere il Padre sotto la rubrica del Sinthomo. 
Siamo passati dal Padre centrale del Simbolico che struttura il Reale a un padre che “viene al posto di”, una versione di ciò che non esiste del rapporto sessuale, versione necessariamente sinthomatica di ciò che non ha norma. Quando Lacan parla della funzione di Padre come funzione di sinthomo, come nel Seminario RSI, non si limita a dire che il padre si riferisce ad una donna come al suo sinthomo, il sintomo che ha, bensì considera anche un padre lui stesso come versione del godimento, come versione della sessualità, segno di un’assenza fondamentale di formula del rapporto sessuale e nello stesso tempo un modo di rimediarvi, rimediando a quest’assenza di rapporto sessuale in un modo singolare, approssimativo, imperfetto. Non soltanto un padre ha un sinthomo, ma il padre è un sinthomo. Avvicinare il padre sotto quest’angolatura ha come conseguenza di farne un caso di una funzione più generale di segno di un buco e modo di rimediarvi, di supplire: funzione che Lacan chiama “Sinthomo”, che è una funzione più generale di annodamento del Reale e del Simbolico, laddove questo annodamento nel Reale non c’è. Il fatto che ci sia il segno dell’assenza di un funzionamento universale, di una norma per tutti, di una norma nel Reale e che ci sia, nello stesso tempo, un modo per porvi rimedio, per tentare di cavarsela con questa assenza di norma, sono due aspetti del Sinthomo. A partire dagli anni ‘70, per Lacan il padre fa parte della serie dei sinthomi, modi di rimediare al buco di cui nello stesso tempo testimonia. 
Lacan utilizza la nozione di sinthomo in opposizione ad altri fenomeni clinici, per esempio al passaggio all’atto, all’allucinazione, all’angoscia. Non tutti i fenomeni clinici hanno la funzione di annodare i registri (Simbolico, Reale, Immaginario), solo il sinthomo la possiede. È sempre importante vedere a che cosa si oppone una nozione introdotta da Lacan: quando parla di “significante” non è per utilizzare un termine sapiente, usa “significante” perché mette l’accento sull’opposizione “significato”; quando dice che la sola cosa di cui possiamo essere responsabili in psicoanalisi è di aver ceduto sul nostro desiderio, desiderio si oppone a godimento.
La sessualità è essenzialmente sinthomatica, del resto è da lì che è incominciata la psicoanalisi stessa, con i “disturbi” sessuali. Lacan finisce col dire che il godimento che la caratterizza è soltanto un modo di godimento, individuale, proprio ad un corpo, che sostituisce inevitabilmente il modo di godere che “ci vorrebbe”, ovvero quello del rapporto sessuale che non c’è, dice Lacan nel Seminario Ancora. È ciò che spiega il sinthomo, una volta ridotto a questo modo di godimento sostitutivo, residuo ineliminabile nella sua impossibilità di sostituire qualcosa che manca. Sia la sessualità che la paternità convergono su questa nozione di sinthomo.
Lacan domanda agli psicoanalisti di prendere posizione rispetto alla famiglia e alla questione del Padre, di prendere posizione su ciò che è naturale o su ciò che è artificiale. “Artificiale” può essere considerato come l’effetto di un’alleanza tra il mercato e la scienza. Con i soldi e con la biotecnologia si può ormai fare quasi tutto. L’altro aspetto è relativo alla inesistenza di una legge nel Reale, il fatto che la vita umana è una vita di discorsi, di sembianti. Quindi, ci si può domandare se questa funzione sinthomo del Padre possa essere espletata anche da un uomo la cui causa del desiderio sia un altro uomo. Ciò che conta è che il desiderio dell’uomo che è padre non sia motivato da un godimento, come  un addestramento del bambino, un possesso del bambino o dominio sul bambino. Quando Lacan dice che il godimento che motiva il desiderio del padre deve essere la causa del desiderio che un partner incarna, qui è in opposizione ad un altro tipo di desiderio che il padre può avere, ovvero essere il padre educatore, che addestra, che addomestica, un padre che ha con il bambino un rapporto di proprietà. La questione è sapere quale deve essere il desiderio di un padre rispetto a delle motivazioni, a delle cause del desiderio che mettono il bambino in posizione di oggetto. Questo è ciò che conta, più del fatto di avere un partner dell’altro sesso. Naturalmente, la stessa cosa vale per la madre. La questione che Lacan ha sviluppato nella Nota sul bambino è sapere se il bambino occupa il posto di un oggetto reale, di un soggetto che realizza l’oggetto del fantasma materno, complemento della madre. Ciò che conta è vedere qual’è la posizione del bambino nel fantasma dell’Altro, quale che sia il sesso dei suoi genitori, potendo tale madre vivere anche da sola o con sua sorella, o con la propria madre, o con un’altra donna. Attualmente è una questione molto dibattuta in Francia e sulla quale la Scuola ha preso posizione: considerare che la vita umana, che la società umana è una società di parola, una società di discorso e l’etica di ciò che conta è qual’è la posizione che il bambino occupa rispetto al godimento dell’altro.
Ciò che Lacan dice, in questo ultimo tempo dell’insegnamento, dove la disgiunzione tra il Reale e il Simbolico converge sulla nozione di Sinthomo, è che la funzione di annodamento dei due registri, inizialmente assicurata dal Padre, può essere legata da altri elementi. Come modalità di annodare il Reale che non ha legge con il Simbolico che ha legge, la nozione di Sinthomo è più vasta di quella di Padre, dunque tale funzione non è abolita ma può essere svolta da diverse variabili, da diversi elementi. 
Tutto ciò ha delle conseguenze sulla pratica e sulla clinica, la più grande è quella di un altro paradigma della follia rispetto al modello classico, al paradigma iniziale presente in Lacan ed ereditario della clinica preesistente. 
Il primo paradigma della follia è quello che si deduce quando il Simbolico aveva l’aria di essere identico al Reale, quando il Simbolico era la struttura del Reale, quando c’era un’articolazione tra Simbolico e Reale assicurata da questo significante speciale, fondatore, che era il Nome-del-Padre. 
Qui la follia era definita principalmente come un disordine dovuto al difetto di questo significante speciale, alla sua preclusione dal sistema, nella misura in cui il Nome-del-Padre è l’operatore della rimozione: questo passo di Television Lacan lo riprende nel Seminario RSI quando dice che Dio è la rimozione stessa, la rimozione in persona, anzi è la persona supposta a rimozione. Quando dice “Dio” è come se dicesse il Nome-del-Padre. La follia può essere concepita come il negativo di una normalità, il cui criterio è la rimozione. La distinzione follia/normalità, alla quale si sovrappone la distinzione psicosi/nevrosi, allora è una relazione di opposizione binaria, una si definisce per mezzo della negazione dell’altra. La normalità è la presenza del significante del Padre che tiene insieme tutto il Simbolico e impedisce che la significazione fugga, slitti, mentre la follia ne è l’assenza.
Invece, nell’ultimo suo insegnamento Lacan non è tanto lontano dal dire che tutto l’ordine simbolico è un delirio, come dice Miller, compresa anche la propria speculazione sull’ordine del simbolico.
Il paradigma cambia radicalmente per far posto ad una nozione post-strutturalista della follia: non abbiamo più a che fare con un’opposizione tra follia e non follia, ma una diversità di follie nei confronti di una noma che manca, nei confronti di un Reale senza norma e senza bussola. 
In questo paradigma lo schema è completamente diverso: non-rapporto e tentativi di supplire a questo non-rapporto, cioè di trovare un rapporto tra i tre registri e questo livello abbiamo quello che Lacan chiama “Sinthomo”, fra cui possiamo mettere anche il Padre. 
La funzione Sinthomo viene al posto del non-rapporto tra Simbolico e Reale, del non-rapporto tra uomo e donna. Ciò fa sì che la clinica sia una gran varietà di sinthomi, di tentativi di rimediare a questo non rapporto. Dunque, rispetto al Reale disgiunto dal Simbolico, Reale senza norma, qualsiasi teoria, pensiero o credenza appare sempre come più o meno delirante, come un discorso fra gli altri. E il Nome-del-Padre, e la rimozione che la accompagna, appaiono essi stessi come correlativi di un discorso fra altri. Anche la nozione di “inconscio”, con le sue formazioni, risulta essere soltanto un’elucubrazione di sapere, come dice Lacan, un’ipotesi che copre un buco radicale, un buco nel sapere per quanto riguarda il godimento e il sesso. In qualsiasi parlessere qualcosa del godimento sfugge al suo trattamento da parte di un operatore universale, il fallo stesso appare il segno di uno scacco, di una assenza di orientamento e di un tentativo di supplirvi, una forma per compensare una impossibilità. 
Se prendiamo sul serio le indicazioni dell’ultimo insegnamento di Lacan, dobbiamo dedurre un paradigma altro rispetto a quello che presiedeva al binomio nevrosi/psicosi. La questione non è più sapere se c’è follia o meno, piuttosto di quale follia si tratta. Non siamo più di fronte ad una opposizione tra assenza/presenza di un significante fondamentale ma di una impossibilità di fondamento per tutti, alla preclusione irrimediabile di una legge nel Reale che è sostituita da discorsi, costruzioni, soluzioni di fortuna. La questione non è più di sapere se c’è Nome-del-Padre o meno, ma più fondamentalmente se c’è un elemento, fra cui il Nome-del-Padre, che ha o potrebbe avere la funzione di connettere Immaginario Simbolico Reale, avere cioè funzione di Sinthomo, di stabilizzare o orientare un’esistenza.
Tenuto conto che il Padre non è necessariamente il miglior elemento, si deve cambiare anche la nozione di “supplenza”. “Supplenza” non è ciò che sostituisce un elemento esistente che manca, bensì “supplire” è sostituire un elemento inesistente, in ogni caso inesistente. 
Se prendiamo come funzione di annodamento non più il Nome-del-Padre ma il Sinthomo, non si tratta più di notare la presenza o l’assenza di una funzione, piuttosto di apprezzare la diversità delle variabili che possono svolgerla, quale elemento può svolgere questa funzione e se è possibile.
Ora siamo di fronte ad una diversità di modi di trattamento di una stessa impossibilità: sia sintomi più comuni, standard, come il sintomo Padre, sia sinthomi singolari, fatti con gli elementi propri di un soggetto.
In Television Lacan evoca un tipo di “disagio nella civiltà” che non è più soltanto quello classico freudiano dovuto alla rimozione (le nevrosi come conseguenza della rimozione), ma dovuto all’evanescenza della rimozione. Un certo indebolimento della rimozione dovuto non ad una rimozione di godimento, ma ad un eccesso di godimento. È un altro tipo di disagio, post-freudiano, che si accompagna ad una eclissi relativa del desiderio ed ad una esacerbazione del godimento, un godimento non trattato dalla dialettica significante. La dialettica significante è quella che rifiuta il godimento per poterlo raggiungere sulla scala rovesciata del desiderio: si rinuncia per potervi accedere al livello del desiderio. Ebbene, questa dialettica significante non copre tutto. C’è un godimento-in-più del godimento preso nella dialettica significante. C’è del reale che non è ripreso nel significante, che non è ristrutturato dal significante. 
In un contesto di ridotta metafora paterna non ci sorprende più il fatto che la clinica che incontriamo nel nostro studio sia sempre meno una clinica degli effetti della rimozione: è una clinica caratterizzata da una certa evanescenza della nevrosi.
Si tratta di un cambiamento rispetto a ciò che si supponeva essere della clinica dello psicoanalista trent’anni fa, quando si considerava che l’essenziale della nostra pratica fosse divisa in due parti diseguali: un’accoglienza delle nevrosi per l’essenziale e una accoglienza della psicosi nei margini. Le coordinate della nostra pratica non corrispondono più né a questa bipartizione né a questa proporzione.
Questo cambiamento della clinica caratterizzato da una evanescenza della nevrosi (nevrosi intese come manifestazioni dovute alla rimozione, e al ritorno del rimosso nelle formazioni dell’inconscio) corrisponde ad un cambiamento nell’orientamento della cura. La generalizzazione della funzione Sinthomo è venuta a dare all’analista la possibilità di accogliere ed accompagnare un soggetto orientandosi su un altro criterio rispetto a quello della semplice presenza o assenza del Nome del Padre. Nei confronti di un Reale che risulta essere senza norma, senza spiegazione, opaco, qualsiasi invenzione, abitudine o condotta, per quanto inabituale o singolare, può ormai funzionare come principio di ordinamento, di gravitazione di una vita, se funziona come arresto dello slittamento della significazione, come nodo, come modo di tenere insieme Immaginario Simbolico Reale. 
Tutto ciò non vuol dire che aboliamo le differenze tra i diversi sintomi, tra il Nome-del-Padre e altre forme di sinthomo, ma le relativizziamo, le mettiamo in serie anziché opporle. 
L’arrangiarsi in modo non edipico nella vita non è più situato come un deficit edipico, come nel primo paradigma, ma è situato come un modo tra gli altri di arrangiarsi, di sbrigarsela con ciò che in ogni caso fondamentalmente non si arrangia per nessuno, con un difetto che è sottostante a qualsiasi sintomo. 
Le differenze strutturali sono relativizzate a vantaggio di una prospettiva che si orienta piuttosto sulla nozione di Sinthomo come nome generico di ciò che può funzionare come ancoraggio, orientamento, bussola per un soggetto.
Ora la questione è sapere se c’è una modalità possibile di sinthomo per un soggetto, anziché  sapere se appartiene a questa o a quella categoria clinica. “C’è sinthomo o possibilità di sinthomo per questo soggetto?”. Non sempre c’è la possibilità di sinthomo. Questa domanda si pone sempre più spesso nella nostra clinica di fronte a problematiche, sofferenze, in cui la dimensione della rimozione, del ritorno del rimosso, appare sempre meno operante, tuttavia senza che una sintomatologia tipica della psicosi s’imponga. S’impone soprattutto una specie di evanescenza della nevrosi. Se alcuni fenomeni possono essere facilmente situati nel quadro del primo paradigma come fenomeni psicotici (il neologismo, l’allucinazione verbale, ecc.), la maggior parte dei fenomeni che questa clinica presenta può difficilmente essere situata in funzione della pura opposizione psicosi/nevrosi poiché si tratta della presenza di problematiche vicine, simili, che differiscono soltanto in termini di modalità e di grado di intensità da un soggetto all’altro. 
Rispetto a una opposizione tra follia e non follia i fenomeni clinici sono molto più in continuità tra loro. Le situazioni relazionali insopportabili, penose, inestricabili, nella famiglia, nella coppia, sui luoghi di lavoro, che sono all’origine di una lamentela o di una domanda di cura, non sono facilmente riferibili a questo o quel tipo di posizione soggettiva, come nel caso di un fenomeno di linguaggio o di un delirio. Come ciò che può avere di devastante la relazione tra la madre e la figlia (è il caso di una paziente venuta a chiedermi una analisi per pacificare la sua relazione con la propria figlia che la provoca), oppure scontri o litigi con il padre, la scelta ripetuta di partner alla deriva e violenti nella relazione amorosa, il dubbio o l’incertezza per quanto riguarda la scelta d’oggetto (come un paziente invaso da fantasmi omosessuali che incontra una donna e poi va a vivere con lei), una sessualità essenzialmente ridotta alla masturbazione con o senza internet, il rifiuto della sessualità, l’esitazione di fronte alla prospettiva di diventare padre o dinanzi ad un progetto comune, l’insopportabile di una separazione non accettata, rifiutata o semplicemente impossibile da prendere in considerazione, lo svanire del desiderio, una gelosia insormontabile, l’assenza di progetti o la presenza di un pensiero invadente, l’angoscia, il senso di colpa, l’isolamento, la difficoltà a stare solo, ecc… Tutte queste problematiche cliniche non presentano differenze strutturali ma soltanto diversità di intensità, di grado, di modalità da un soggetto all’altro. Dal punto di vista del primo paradigma, s’incontrano tanto nelle nevrosi che nelle psicosi perché rinviano tutte ad un difetto più generale che riguarda la costituzione stessa del parlessere. Un programma per il trattamento del godimento senza residui non esiste per nessuno. 
È per esempio il caso di una donna che viene dall’analista a causa di una difficoltà che vive nel lavoro. Brigitte è tormentata dalla paura di sbagliare nell’esecuzione delle direttive che le sono assegnate. Ogni giorno deve effettuare il compito di lanciare su internet delle operazioni commerciali. Verifica a tal punto ogni elemento che certi giorni preferisce non accendere il computer per non angosciarsi. L’analista interviene: “sono cose semplici, più semplici di come lei potrebbe pretenderle”. La paziente ne conviene. Il primo incontro si conclude con una osservazione dell’analista su come questa focalizzazione della sua angoscia sul suo lavoro sia uno spostamento che misconosce l’idea delle cause della sua sofferenza. All’incontro seguente, la paziente dichiara di non aver più sentito questa angoscia nel suo lavoro, cosa che non le succedeva da molto tempo. Dopo questo rapido effetto terapeutico, l’analizzante sviluppa la sua problematica più fondamentale, quella della sua relazione con gli uomini. È stata sposata per dieci anni. Con il marito ha avuto una relazione “costruttiva”, è il suo termine, dalla quale sono nati i loro bambini. Tuttavia era molto insoddisfatta e ha lasciato suo marito per conquistare una soddisfazione sessuale che dice di aver trovato da tre anni con il suo compagno attuale, ma quest’ultimo la ha appena lasciata e questa separazione le è insopportabile. Brigitte non capisce come lui non abbia potuto trovare nel loro godimento sessuale il cemento della loro relazione. Lo incalza perché ritorni, pur additando incessantemente come egli si sia mostrato sgradevole e negligente nei suoi riguardi. 
In questa problematica nulla permette di decidere se ci troviamo nell’Edipo o fuori dall’Edipo. Alcuni elementi possono forse darci un’indicazione. Ad un certo momento confida una sorta di sogno diurno, di cui non ha mai parlato a nessuno: “Immagino di essere al mio lavoro. Arriva mia madre e si scusa di averci abbandonati, a me e a mia sorella. In realtà non è morta. Dinanzi ai miei colleghi, vedo me respingere mia madre e dirle che ce l’ho con lei terribilmente”. In realtà la madre si è uccisa quando la paziente aveva 17 anni: “Aveva preparato la cena e dato da mangiare a mia sorella più piccola. Nostro padre era partito in viaggio. Sono andata a studiare la materia dei miei esami in camera mia e quando a mia volta ho voluto mangiare ho chiesto a mia sorella dov’era la mamma e mi ha detto: mamma mi ha detto di andare a letto e l’ho vista fare un nodo con una fune”. Brigitte è entrata nella stanza accanto, immersa nella oscurità, e vi ha scoperto l’irrevocabile con una sensazione d’orrore intensificata dall’accorgersi che la sorella stava osservando la stessa scena dallo spiraglio della porta. Aggiunge che non ne ha mai parlato. “Non ho fatto il lutto di mia madre, non ho capito il suo smarrimento prima del suo suicidio”. Si ricorda delle parole enigmatiche di sua madre negli ultimi tempi: “Gli uomini sono duri, vostro padre mi ucciderà”. “Non sapevo che fare per mia madre, credevo che fossero parole incoerenti, senza significato, perché la sera beveva”. Ma confessa anche che non le aveva mai detto ciò che tuttavia sapeva, cioè che suo padre l’avrebbe lasciata. 
Nonostante la loro rottura, Brigitte tiene a recuperare il suo compagno. “Benché questa soluzione sia insostenibile”, commenta l’analista, “per quest’uomo ha lasciato non solo il marito ma anche i figli”, e “non accetta la fine di questa relazione”. 
Una nota di molestia è presente nella sua relazione con quest’uomo, possiamo porci la questione se siamo di fronte ad una problematica del desiderio o certezza, essendo l’erotomania una caratteristica dell’amore femminile, come dice Lacan alla fine di Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano. La questione di sapere il tipo di posizione soggettiva passa in secondo piano rispetto alla posta in gioco nel proseguimento dell’analisi, tra il rifiuto di tornare a vivere con suo marito, che è anche rifiuto di tornare presso i figli, e il rifiuto del suo amante. 
Intorno a queste problematiche cliniche che si presentano senza comportare i contorni ben definiti della nevrosi, che sono in un certo qual modo indifferenti al riferimento edipico, non va da sé che i clinici lacaniani possano ogni volta concordare nel situarli come psicotiche. Forse, la reticenza di evocare in questi casi la psicosi (il cui aggettivo “ordinaria” non sembra attenuare l’impatto del sostantivo “psicosi”) può essere letta come un segno di disagio relativo al modo di interrogare la clinica secondo il paradigma binario, che definisce un tipo clinico come il negativo di un’altro.
Il secondo paradigma della follia permette di includere il primo con l’opposizione nevrosi/psicosi, ma trasformandone il senso perché un conto è considerare la psicosi come una variante di sintomo, un altro è considerarla come l’opposto della nevrosi. “Psicosi”, nel secondo paradigma, non vi designa più un difetto ma una risposta di difetto nel Reale, al quale qualsiasi soggetto è confrontato, salvo che nella psicosi questa risposta, se raggiunge lo statuto del sinthomo, articola elementi che appartengono soltanto ad un soggetto. In questo senso, Eric Laurent può dire che è mettendosi all’ascolto della psicosi che si trovano gli elementi che fanno onore alla seconda clinica di Lacan, dove si tratta del Sinthomo in quanto costituito da ciò che in un soggetto si riduce alla singolarità del suo modo di godere, al suo modo di cavarsela con il godimento, ognuno secondo la propria invenzione. 
Resta il fatto che la nozione di “psicosi” che ci viene dalla clinica classica, ripresa nel primo paradigma, continua a sollevare connotazioni negative e deficitarie.
Ma non è soltanto per evitare queste connotazioni che ricorriamo a volte a metafore diagnostiche come “fragilità“, “precarietà“, “porosità delle difese”, ma è anche per il bisogno di una clinica la cui costruzione non sia troppo rapidamente bloccata dall’opposizione presenza/assenza del Nome-del-Padre, ma sia motivata dalla ricerca, dalla possibilità, di una soluzione su misura per un soggetto a prescindere dal fatto che sia edipica oppure no. 
La nozione di “psicosi” può essere utilizzata se designa la dimensione della clinica dove la problematica soggettiva può trovare una formulazione ed una via di uscita  mettendo in funzione elementi che appartengono ad un soggetto. Allora “psicosi” designa la dimensione della soggettività dove il modo di sbrigarsela, di venirne fuori, di andare avanti nella vita è inventato, messo a punto personalmente da un soggetto e non è derivato da un discorso condiviso, comune. Dipende dai contesti dove lavoriamo, dai colleghi con cui parliamo, ma se “psicosi” deve ancora evocare le connotazioni del primo paradigma della follia io direi è meglio non menzionarla. Verrà forse un giorno dove la parola “psicosi”, dice Eric Laurent nella conclusione del congresso di Tel Aviv, sarà tanto estranea allo spirito del tempo che occorrerà parlare di deliri ordinari, ovvero rivolgendosi ad altre forme di nominazione che saranno sempre più legate all’originalità di ogni singola problematica. 
Un caso esposto nelle ultime Conversazioni delle Sezioni cliniche può illustrare questa altra prospettiva della clinica basata sul pluralismo delle soluzioni sintomatiche. Una collega greca ha discusso l’analisi di una giovane donna che si lamentava di una difficoltà insormontabile nella relazione alla parola e di una inibizione precisa nella sua attività di pittrice, il non poter completare i propri quadri. L’analizzante evoca un amore appassionato per la madre, correlativamente riporta  una anoressia nella sua infanzia legata al disinteresse della madre per la bambina. Parla anche della figura di un padre che ama molto cucinare e tutto occupato a volerla farla mangiare: “Cosa ti faccio da mangiare ?”, le chiede ancora oggi. Parla anche di momenti di isolamento, di ripiegamento su se stessa, di un certo smarrimento nella sua vita amorosa, ma è l’attività di dipingere che finisce con il prendere un posto centrale nella sua vita e nell’analisi. Riferisce l’impossibilità di dipingere che si produce ad un certo momento, nel momento in cui si tratta di rappresentare il corpo, quando è sul punto di assumere una forma si produce come una scivolata delle figure, e il quadro non può completarsi. In fin dei conti, dice: “Sulla tela è il mio corpo che entra in gioco”. È come se in quel momento il suo corpo si trovasse proiettato sulla tela. A seguito dell’intervento dell’analista, che lungi dall’interpretare il contenuto delle tele gli dice semplicemente: “Tutto il suo problema è di sapere come inquadrare le figure”, che l’analizzante troverà la soluzione alla sua impossibilità di completare i quadri. Inventa di servirsi di un frammento di pittura che raschia da un’altra tela per fissarlo su quella che non riesce a terminare, e a questo punto il quadro è considerato terminato. L’elemento estraneo che non rappresenta nulla, che preleva su una delle tele, gli permette di stabilizzare lo scivolamento delle figura e del quadro stesso. Il quadro è finito ma bisogna che aggiunga quest’elemento senza senso, che non rappresenta niente, una crosta. Qualcosa che non è immagine permette al quadro di fissarsi, di inquadrarsi, consentendo di passare ad un altro quadro, quindi di sbloccare la sua attività di pittura. Evoco questo caso perché ha dato luogo ad una discussione focalizzata non tanto sulla diagnosi, quanto sulla soluzione che ha trovato l’analizzante. La soluzione che questo elemento supplementare, eterogeneo, che il soggetto stesso ha potuto costituire, è ciò che ha funzionato come un principio di annodamento, permettendo al soggetto di fare dell’attività di dipingere la sua occupazione  principale, traendone un orientamento per la sua vita.
Oggi la clinica alla quale risponde la pratica ordinaria dello psicoanalista non presenta solitamente, alcuni colleghi dicono tre volte su quattro, i contorni di una nevrosi chiara e distinta. Si tratta di una conseguenza della civiltà che traduce una minore efficacia dell’operatore delle rimozione? È una conseguenza della diffusione del riferimento alla psicoanalisi in ambienti più ampi che precedentemente? Oppure, l’evanescenza della nevrosi è conseguenza di una modifica nella nostra lettura della clinica? Forse un po’ di tutto ciò. S’impone la necessità di trovare nuovi modi di nominare o di situare le cose a partire dalle coordinate cliniche derivabili del secondo paradigma, a partire dal paradigma che suppone una separazione del Simbolico e del Reale e un modo fra altri di rimediarvi. 
In questa Conversazione, Jacques-Alain Miller diceva che possiamo avanzare nella nostra elaborazione per cercare degli strumenti per captare questi casi lasciando le rive conosciute, dove nevrosi litiga con psicosi. Nevrosi e psicosi sono già in pace da molto tempo, ciascuna nel suo rispettivo territorio. Se lasciamo le rive conosciute dove si distribuiscono nevrosi e psicosi, abbiamo bisogni di matemi, di riferimenti, di strumenti che non abbiamo ancora. Bisogna orientarsi a partire da una clinica dove la divisione nevrosi/psicosi non è più una divisione sufficiente, ma dove la chiave si trova nella pluralità delle soluzioni sintomatiche. Aggiunge ancora Miller, che per tentare di andare nel senso di questi nuovi matemi, di questi nuovi modi di nominare le cose, abbiamo bisogno di un altro tipo di strumenti di cui ancora non disponiamo ma che iniziamo ad elaborare grazie ad un modo di costruire la clinica in funzione del carattere esemplare di ogni caso, singolare ed insegnante, dove si espone un modo di sbrogliarsela con il Reale singolo. Si tratta di costruire una problematica clinica e la soluzione sintomatica che eventualmente si delinea in modo da farne un caso paradigmatico, un caso che possa essere designato da un nome proprio, sintomatico, sul modello dei nomi che i pazienti di Freud hanno finito con l’assumere: l’uomo dei topi, l’uomo dei lupi… sono dei nomi singoli del sintomo di un soggetto. 
Come ha ricordato ancora recentemente Miller, ci fu un tempo dove si pensava di poter selezionare i soggetti in funzione della loro attitudine clinica al discorso analitico, questo tempo è passato, per lo meno per i lacaniani. Ormai, chiunque si rivolga ad un analista sa che troverà una risposta per lui solo, indipendentemente dalla singolarità della sua domanda o del suo modo di rivolgersi. Spetta allo psicoanalista arrangiarsi e modulare la sua pratica in funzione che ciò è richiesto dal paziente, orientandosi su una concezione della follia che non è vista come una carenza di norma verso la quale si dovrebbe tendere, ma come una risposta ad un Reale che è senza norma per chiunque, condizione dell’essere parlante. 
Sempre più colleghi testimoniano di una pratica che si presta meno ad una classificazione in tipi clinici, o dove questa classificazione passa piuttosto in secondo piano a vantaggio di uno sviluppo originale, monografico, della problematica di una cura che ogni volta è l’esempio di se stessa. Nei confronti di una clinica che riduce il dramma di una vita umana agli acronimi di una classificazione dall’andatura psedoscientifica, noi dobbiamo promuovere una clinica che mostri che gli elementi di cui è fatta una esistenza singolare sono anche la sua modifica sintomatica possibile. 
Ogni singola vita è una storia, testimonia di un incontro col Reale che è solo di quel soggetto. In questo senso, si può dire che ogni vita umana è il proprio romanzo, più o meno drammatico. 
Il miglior modo per comprendere questa clinica asintomatica è di istruirsene, di seguire la pubblicazione dei numerosi testi che la espongono nei piccoli volumi della Biblioteque  lacanien e nelle nostre pubblicazioni: lì si vede che ogni caso è diverso nella sua problematica e nella sua soluzione, e che la maggior parte dei casi esposti non può essere facilmente messa sotto la rubrica psicosi o nevrosi.
Siamo portati ad una pratica che è più pragmatica, molto più orientata dalla questione di un altro impiego del sintomo, un altro modo di orientarsi rispetto a ciò che è confuso, di sbrogliarsela con ciò che non si sistema in un modo differente in ogni caso, piuttosto che orientata dalla questione all’adattamento a norme e ideali. Si tratta soprattutto di un’operazione del soggetto rispetto a se stesso, rispetto al suo modo di soddisfazione, piuttosto che di una operazione rispetto ad una norma. 
E la psicoanalisi pura che diventa? Il rinvio è alle testimonianze di passe, che è l’altra nostra clinica, quella della formazione degli analisti, e ai corsi di Jacques-Alain Miller che dispiegano, ogni volta in modo nuovo, le conseguenze e le sfide per la psicoanalisi pura degli elementi dell’ultimo insegnamento di Lacan. 
Prendendo il sintomo come perno dell’ultima clinica, in quanto momento irriducibile di godimento, sintomo non più da interpretare ma da farne qualcosa, non può mancare di colpire una certa parentela tra psicoanalisi pura e psicoanalisi applicata alla terapia. 
Infatti, nei due casi si tratta di mettere a distanza la parola ed il senso che veicola, per una operazione che mira piuttosto a leggere, isolare, l’irriducibile di un godimento  che nessun senso può spiegare o riassorbire. Si tratta di individuare un elemento che fa o che può fare punto di arresto agli ingarbugliamenti del senso, limite alla ricerca di spiegazione, di interpretazione, limite al complemento di S1 con S2. Si tratta di individuare un punto sintomatico che è anche un punto di nominazione, dove sintomo e nuovo nome convergono. È una punteggiatura che isola o che si tende ad ottenere nella dimensione del nome, nel senso in cui il nome è un elemento della lingua che non si traduce, che non vuol dire. Una punteggiatura, non ha un significato. Nella misura in cui il sintomo raggiunge la propria nominazione, costituisce una nominazione, ciò fa sì che non si vada più in là, che ci si fermi, ci sì fissi, che la significazione non fugga più, vi è un orientamento che si stabilisce nella vita di qualcuno. Si tratta di ottenere una conclusione, una punteggiatura sul godimento che condensa la differenza irriducibile di un parlessere, che non sia un passaggio all’atto. Sinthomo e non passaggio all’atto. Si tratta di convergenza fra nominazione e formazione di un sintomo. 
I risultati della psicoanalisi pura si investono nella sua applicazione alla terapia, perché è impossibile funzionare come analista se non ci siamo noi stessi, un po’ grazie alla nostra analisi di quella che è la nostra relazione con gli altri, del nostro modo di pensare, di fare, ciò che comporta di fantasmatico, di delirante, il nostro modo di vedere il mondo. Questo ci permette di prendere una certa distanza rispetto ad obiettivi ideali,  professionali o personali, ed essere più disponibili ad accompagnare un soggetto nel suo modo proprio, singolare, inedito, di cavarsela con ciò che del godimento non si dissolve, di cavarsela in un modo sintomatico. 


Intervento di Luisella Brusa
Alfredo Zenoni, oltre che aver dato alcune indicazioni sulla clinica, ha compendiato numerose e profonde elaborazioni che la Scuola sta portando avanti negli ultimi decenni, a partire dalla rilettura di Miller degli ultimi seminari di Lacan.
Una relazione anche con indicazioni insegnanti per chi comincia, per esempio estremamente preziosa è la nota sulla cautela nell’utilizzare il termine “psicosi” nell’equipe. Può sembrare un consiglio irrilevante, ma proviene da una profonda consapevolezza dell’effetto che il significante produce e della necessaria cautela nel maneggiamento dei significanti, a partire dal fatto che un significante può significare qualsiasi cosa. Le cose si possono dire in modo diverso con altri significanti, evitando effetti che sono contrari a quelli che sarebbero auspicati. 
È di particolare interesse la definizione di “evanescenza della nevrosi” piuttosto che di “psicosi”. Quello che tante volte ci arresta nella formulazione di una diagnosi è questo: c’è una evanescenza della nevrosi. Del resto come  potrebbe non esserci a partire dal fatto che la psicologia individuale è sin dall’inizio psicologia sociale? Una crisi dell’ordine simbolico non può non portare degli effetti sulla costituzione della nevrosi classica. “Evanescenza della nevrosi” è anche una formula che dà delle indicazioni terapeutiche, di direzione della cura: eventualmente, cioè, si tratta di costruirle queste nevrosi.
Riguardo alla primarietà della rimozione rispetto alla repressione, siamo abituati a considerare di Lacan la lettura secondo la quale il Nome-del-Padre sia la persona supposta alla rimozione. Una rimozione primaria che è antecedente, un buco che impedisce il godimento tutto, il godimento senza resto. Un buco che è per tutti. Ed è su questo che il Nome-del-Padre va ad essere supposto come persona che abbia prodotto questo effetto sgradevole, dal quale consegue poi la repressione. In una lettera che Freud scrive ai membri del comitato ristretto, dibatte sulla  questione del rapporto tra il padre e l’interdetto fondamentale, altro nome della rimozione primaria o del buco strutturale che impedisce il godimento tutto. Freud afferma, ai soli membri del comitato perché sappiamo che all’esterno si esprimeva diversamente, di non saper dire se il padre sia un elemento indispensabile oppure secondario rispetto all’interdetto fondamentale. Rank sosteneva che il padre fosse secondario rispetto all’interdetto fondamentale. Freud prende in considerazione questa critica, e dice agli intimi che non si pronuncia su questo, perché quello che constata nella cura delle nevrosi è che il padre è sempre rappresentante di questo interdetto, ma se poi sia necessariamente indispensabile non lo si può affermare. 
Una considerazione, estremamente attuale, è sulla sessualità umana come staccata dalla natura, a partire dalla quale non si possono trarne delle conseguenze normative valide per tutti. La sessualità umana è staccata dalla natura, è perturbata dal linguaggio. In fondo  questo è quello che dà luogo al perverso polimorfo e al catalogo della Psychopathia sexualis di Krafft-Ebing. Se questo è vero però è anche vero, come mi sembra sottolinei Laurent, che non tutte le soluzioni sono buone uguali al problema che la sessualità umana è staccata dalla natura, se pronunciarsi in senso universale è impossibile è altrettanto vero che non tutte le soluzioni si equivalgono. Forse è quello che Alfredo Zenoni avanzava quando diceva che il passaggio all’atto non è una buona soluzione, non è una soluzione con un sintomo costruito.


Risposta di A.Z.
Nel registro della relativizzazione, quello di dire che ci sono diverse soluzioni alla assenza di norma è un aspetto cui ho fatto più allusione che averlo sviluppato. Per l’essere umano c’è lo stacco dalla natura, ma non tutte le soluzioni si equivalgono. È un capitolo che deve essere sviluppato a sé, lo ho evocato attraverso la nozione di sinthomo. Quando Lacan parla di sinthomo parla di per-versione,  padri-versione, per evocare la dimensione pulsionale, la dimensione dell’oggetto a che è racchiuso nel fantasma del soggetto che si rapporta ad una donna che incarna l’oggetto a. È una dimensione di perversione polimorfa nel fantasma. Un conto è parlare di “perversione” come fa Lacan per evocare questo, altro è il passaggio all’atto. La perversione polimorfa nel senso della padri-versione è una dimensione di responsabilità, come Eric Laurent ha spesso sottolineato, di responsabilità del proprio godimento, rendendone conto. Ciò che può esserci di passaggio all’atto, di violenza nella sessualità, non è una buona soluzione. Eticamente non è una buona soluzione perché non è un trattamento del godimento in termini di sembiante, non è un trattamento del godimento dove il reale del godimento è annodato al simbolico del sembiante. Un conto è fare una carezza, un’altro è violentare una donna: il nodo tra godimento e simbolico non è lo stesso, anzi nel passaggio all’atto c’è una rottura del nodo. Il passaggio all’atto rompe il nodo tra i tre registri o, altra formula di Lacan, è uscire dalla scena attraversare lo schermo del fantasma. Manca tutto un capitolo da sviluppare per fare risaltare la specificità della nozione di sinthomo, che è quella delle pseudosoluzioni, che non sono soluzioni perché non sono dei nodi, non collegano i tre registri ma li rompono. 
La questione del padre come operatore della rimozione è ampliata. Lacan la riprende quando, come ha detto Miller, la prima metafora paterna è stata sostituita da una seconda metafora paterna, dove al posto del padre viene il linguaggio. S di A barrato: è un modo di dire l’assenza di rapporto, un modo per dire l’assenza di fondamento. Ciò è sfociato sulla nozione di soluzione sostitutiva, quella del sinthomo, che è più generale della rimozione e del ritorno del rimosso, che quindi include una clinica più vasta e ci porta in questa zona della clinica dove dibattiamo sul peso reciproco da dare alla diagnosi e al sintomo (è più importante fare diagnosi o vedere se c’è una soluzione sintomatica?).


Domanda
Il passaggio all’atto e l’acting possono essere dei modi in cui il soggetto trova un nome o cerca di realizzarlo? 


Risposta di A.Z.
Gli elementi clinici che Lacan ha sviluppato nel seminario Il Sinthomo si limitano al sinthomo. Altri nostri colleghi hanno cercato di andare al di là, di produrre dei modi di annodamento fra i tre registri. Il passare all’atto e un modo di dire “le cose stanno così”, è un modo di nominazione, però è un modo di nominazione, che rompe con il Simbolico. Dare uno schiaffo è un atto con cui si mette fine ad una relazione, è anche un modo di dire all’altro ciò che io penso che tu sei, è anche un modo di nominarsi ma che rompe il rapporto tra Simbolico e Reale, tra i registri, per questo non è una buona soluzione.
Certi soggetti prendono la soluzione di mettere fine alla loro vita, concludono, arrivano ad un punto dato. Lacan arriva anche a dire che, in fondo, il suicidio è il solo atto riuscito. Però non è un sintomo. L’etica della psicoanalisi è piuttosto quella di favorire il sintomo anziché il passaggio all’atto, di annodare i tre registri in modo che la soluzione trovata sia compatibile con il discorso, con il legame sociale, e che in qualche modo limiti il godimento. Il suicidio, il passaggio all’atto, è Reale slegato. È rompere il legame tra i tre registri. Domina solo il Reale, la pulsione di morte. Scopo dell’etica della psicoanalisi è di annodare la pulsione di morte, o annodare il godimento con i registri del sembiante, con i registri del legame sociale, cioè trovare il nodo che permetta al soggetto di mantenersi in vita.In fondo, potremmo dire che la psicoanalisi è una pratica che è stata trovata per rispondere a ciò che ha scoperto: la pulsione di morte, il fatto che la soddisfazione che persegue l’essere umano è una soddisfazione contraria al piacere, nociva, mortifera. 
Anche l’ingiuria è un modo per nominare l’altro, ma è un modo che non annoda i tre registri.


Domanda di Alberto Visini
Ha accennato alla rottura tra il simbolico e il reale, e alle forme contemporanee sul diritto, la scienza e il mercato. La questione del diritto è sostanzialmente simbolica, in qualche modo dovrebbe intervenire sulla questione della scienza dove tutto sarebbe possibile. È il diritto che arriva a regolare. La questione del mercato si può leggere come la questione del godimento. Volevo un vedere come ciò si potesse legare un po’ insieme.


Risposta di A.Z.
C’è tutto un aspetto del diritto che consiste soprattutto nello sviluppare più diritti che doveri. Il diritto di uguaglianza, di avere figli, di morire… tutti questi diritti sono individualisti e apertamente in rottura con la natura. Questi diritti manifestano sempre di più il carattere innaturale, staccato dalla natura, della vita umana, dell’esistenza umana. Questo proliferare di diritti è intrecciato con una specie di deregolazione del godimento, legato al mercato, che invade il campo della procreazione, della biologia, della farmacologia. Non vedo altra soluzione che quello di produrre norme di norme. Il mercato produce artificialità, gadget come diceva Lacan, oggetti che vengono al posto dell’oggetto a e finiscono per riempire. Fanno parte di questi oggetti anche i farmaci.
Recentemente la Scuola si è impegnata nella problematica della famiglia non naturale, il diritto di avere figli anche se non si è uomo e donna. 
Il criterio di una azione sarà sempre quello di sapere se è motivata dal riferimento ad una norma supposta esistere nel Reale o nella natura, oppure se il criterio della nostra azione è legata a qualcosa che non è dell’ordine del sinthomo, qualcosa che consiste nel distruggere la vita, nel minacciare la salute, cioè tutto ciò che è dell’ordine della pulsione di morte, che per Lacan è un sinonimo della scienza.  La scienza è una specie di pulsione di morte, un significante che va da solo, che va contro le forze vitali della natura. Da un lato noi seguiamo il movimento della scienza, dall’altro dobbiamo essere attenti a quella dimensione della scienza compresa nei registri della procreazione e della biologia quando si trasforma in un trionfo della pulsione di morte. Il criterio che abbiamo è anche lì quello di sinthomo. I tre registri si gonfiano reciprocamente in qualche modo: il Reale trattato dalla scienza è sempre più alleato al Reale trattato dal mercato, con conseguenti effetti mortiferi. 


Intervento di Luisella Brusa
Per integrare clinicamente la questione, è necessario riprendere nel nostro ambiente una riflessione sulla categoria di perversione, che è oscurata dalla contrapposizione nevrosi/psicosi. Se è vero che la sessualità umana è staccata dalla natura questo vuol dire che prende immediatamente forme perverse, che sono ovviamente diverse (perversione fantasmatica, perversione di struttura…), ma tutto questo è estremamente implicato nelle questioni che solleva Alberto Visini perché, come la definisce Lacan, la perversione è sulla strada del godimento tutto. 
C’è differenza tra il rapportarsi all’interdetto fondamentale supponendo in una credenza in un Padre che produrrebbe il divieto, piuttosto che scartasi rispetto a questa posizione ed essere sulla strada del godimento tutto, del rapporto sessuale. È  una posizione che è implicata direttamente in tutte queste questioni che dibattiamo, soprattutto nelle questioni che riguardano il mercato e il proliferare del diritto che cerca di normare quello che non è più normabile attraverso la credenza condivisa in un interdetto fondamentale. Non c’è più questa credenza. C’è l’idea collettiva che si possa essere sulla strada di un godimento tutto, di cui il diritto cerca di frenare gli effetti mortiferi moltiplicando i provvedimenti.


Risposta di A.Z.
Vi sono distinzioni tra la perversione in senso stretto, clinico, e il passaggio all’atto, la violenza, nella misura in cui per Lacan la perversione resta ancora nel registro della scena, resta ancora una messa in scena. Voyeurismo ed esibizionismo sono delle perversioni classiche, sono essenzialmente delle messa in scena, un modo di recuperare il godimento perduto e di “compensare” la castrazione. Noi consideriamo che la pedofilia è passaggio all’atto, non è soltanto messa scena. La perversione come teatro, Masoch, Sade, ecc…, sono essenzialmente dei fantasmi. Un registro diverso è il serial killer, la tratta delle persone… qui non siamo nell’ordine della perversione, siamo in qualcosa che è dell’ordine del passaggio all’atto. Sarebbe interessante paragonare e fare le differenze tra tutto ciò, per avere dei registri differenziati nel trattamento del godimento, nelle modalità possibili di una sinthomaticità.
L’idea di Lacan è che il padre “perverso” è soprattutto il padre che è responsabile del suo godimento. La sua responsabilità consiste soprattutto nel dare una sua versione del godimento che sia di fare di una donna la causa del proprio desiderio, anziché un’altra versione, una versione pedagogica, di addomesticamento. La responsabilità nell’assenza di norma è quella del padre individuale.

Alfredo Zenoni
Trascrizione di Michela Occhi
Revisione di Giuseppe Perfetto

1 commento:

  1. Viene elusa, mi pare, una specifica del passaggio all'atto come diverso dall'acting out...

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