Presentazione di Giovanna di Giovanni
La Dott.ssa Crosali è italiana ma vive da molti anni in Francia, soprattutto a Parigi. È psicologa, membro dell’Ecole de la Cause Freudienne e dell’AMP. Ha un Dottorato di Psicopatologia e di Psicoanalisi. È autrice del libro: La depressione: affetto centrale della modernità (La dépression: Affect central de la modernité, Editore: PUR (Presses Universitaires de Rennes).
Relazione di Cinzia Crosali
Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio è quasi un manifesto della psicoanalisi. Si situa in un momento cerniera nell’insegnamento di Lacan.
Dal titolo si pongono due questioni centrali: il soggetto e il desiderio. Sono questioni strettamente collegate, perché il soggetto è già da subito considerato come il prodotto dell’impatto che ha il desiderio dell’Altro sulla materia vivente. Quindi due operazioni: la sovversione e la dialettica.
“Sovversione” è un termine molto importante, tant’è vero che appare per ben due volte nel quarto di copertina degli Scritti di Lacan nell’edizione francese: «L’epistemologia qui avrà sempre torto se non parte da una riforma che è sovversione del soggetto», e «A trascrivere di questa sovversione, di ciò che c’è di più quotidiano della loro esperienza che Lacan si adopera per loro da quindici anni». Ho fatto una traduzione letterale. Questo “loro” è rivolto agli psicoanalisti ed è quindi del quotidiano del lavoro degli psicoanalisi che si occupa, è quindi anche lì che si trascrivere questa sovversione.
“Sovversione” indica un rovesciamento, una rivoluzione. Lacan, alla fine degli anni ’50, si riferiva molto freudianamente a una sorta di rivoluzione copernicana, nel senso che la psicoanalisi decentrava il soggetto psicologico e mostrava, come dice Freud, che non è padrone in casa sua. Così Lacan, in un’intervista del 1957 a L’Express, diceva alla giornalista Madeleine Chapsal: «La psicoanalisi nell’ordine del mondo ha in effetti tutti i caratteri di sovversione e di scandalo che ha potuto avere nell’ordine cosmico il decentramento copernicano del mondo. La Terra non è più il centro del mondo. Ebbene, la psicoanalisi vi annuncia che voi non siete più il centro di voi stessi perchè c’è in voi un altro soggetto, l’inconscio. È una notizia che all’inizio non è stata bene accettata». Parliamo, dunque, di un soggetto che è sovvertito anche se nello scritto che studiamo oggi, non è ancora molto chiaro da che cosa sia sovvertito, bisognerà aspettare il testo successivo, Posizione dell’inconscio del 1960-64, che Lacan aveva presentato nel congresso di Boneval, perchè ci giunga a dire che è sovvertito dall’oggetto, è quindi l’oggetto che gli rinvia qualcosa del suo godimento. Qui non siamo ancora a questo punto, e vedremo che la soversione è piuttosto operata dal significante.
L’altro termine è dialettica. È un chiaro riferimento a Hegel, da cui proprio qui Lacan si discosta, e usa Hegel in termini didattici per operare questa sovversione, lo dice proprio nel testo: «Donde il nostro riferimento, puramente didattico, lo si sappia a Hegel, perchè si comprendesse in che termini stia la questione del soggetto così come essa è propriamente sovvertita dalla psicoanalisi». Bisogna passare prima per Hegel per intendere cos’è la “sovversione”. Come diceva recentemente Philippe Lasagna a Parigi, bisognava passare per la dialettica del servo-padrone e il grafo del desiderio per permettere a Lacan di distaccarsi da Hegel e definire il soggetto nella sua articolazione significante. Un soggetto, quindi, che non è più definito dialetticamente, tramite l’intersoggettività, l’affrontamento, la dialettica servo-padrone. La dialettica non è più nel soggetto, ma si sposta sul desiderio. Il soggetto non è più dialettico, ma è il desiderio che risponde a una dialettica. Il soggetto risponde a una logica strutturale, a partire dall’idea dell’inconscio strutturato come un linguaggio. Infatti, Lacan si chiede: «Ma una volta riconosciuta la struttura del linguaggio nell’inconscio, quale sorta di soggetto gli possiamo concepire?» (p. 802). Tutto il testo è un tentativo di dare una risposa a questa domanda.
Il soggetto che concepisce Lacan è soggetto del desiderio, ma questo soggetto può desiderare solo a partire dalla sottomissione al significante.
Il testo marca il passaggio dal soggetto costituito nella dinamica dell’intersoggettività, dal riconoscimento “io sono un soggetto perché l’altro mi riconosce come soggetto”, al soggetto strutturale, prodotto dalla catena significante. Questa è la “sovversione” del soggetto in questo testo del 1960. Si tratta di un soggetto diviso, barrato, che sta all’opposto del soggetto intero, con un’identità compiuta, che accede al sapere assoluto, dove la verità è ciò che manca alla realizzazione del sapere, al soggetto che è identico a se stesso… tutto ciò viene barrato. Prima era il soggetto a produrre la struttura, ora è la struttura a produrre il soggetto. Prima si trattava del soggetto della parola, di un soggetto che parla, adesso è il soggetto dell’inconscio, è parlato: non più un soggetto dialettico ma strutturale. “Strutturale” significa che per avvenire come tale, il soggetto deve inscriversi in una struttura pre-esistente ad esso. Si tratta della struttura del linguaggio, della struttura intesa come catena significante. È il significante che sovverte il soggetto, rappresentandolo per un altro significante. Venendo ad abitare il linguaggio, il soggetto acquisisce una struttura. Nel momento stesso in cui entra nella struttura è diventato, a sua volta, abitato dal linguaggio.
Il Grafo del desiderio ha una data di nascita: il 6 novembre 1957, è la prima lezione del Seminario V Le formazioni dell’inconscio. Lacan fa nascere il grafo del desiderio dal motto di spirito, precisamente da uno di quegli esempi che Freud ha portato, quello del famoso neologismo “familionari” che condensa “familiari” e “milionari” in un unico significante che si situa fuori dal codice, non c’è nella lingua, non c’è nel vocabolario, ma è portatore di senso e che dà accesso al desiderio del soggetto che lo formula. Il soggetto convoca una combinazione significante, “familiari”, e subito dopo un’altra combinazione significante arriva a parassitare, “milionari”, mescolandosi con la prima, formando il neologismo “familionari”, sovvertendo il codice e svelando il desiderio del soggetto, in questo caso il desiderio di essere anch’egli un milionario. Il messaggio risulta sovvertito dal desiderio inconscio del soggetto. Inoltre, come ci insegna Jacques-Alain Miller in un corso del 20 marzo 1985, poiché “familionari” non c’è nel codice della lingua, non c’è nel tesoro dei significanti ricevuti, «esso impone già di introdurre il significante dell’Altro barrato», significa che “familionari” è il significante della mancanza dell’Altro, perché non figura nel codice, nel luogo dell’Altro.
Il progetto del Seminario è di costruire passo passo il grafo, per far questo Lacan deve partire dal rapporto tra il significante e il significato, un rapporto esemplificato con la metafora del materassaio. Al tempo di Lacan, i materassi erano fatti di lana e i materassai li facevano cucendo la fodera con dei punti tramite un ago ritorto. I punti che tengono insieme le due fodere e la lana si chiamano “punti di capitone”. Il punto di capitone è il nodo dell’imbottitura e Lacan ne fa la metafora del nodo che lega il piano dei significanti con il piano dei significati, altrimenti separati, come accade nella psicosi. Nel Seminario III Le psicosi, Lacan dice che il rapporto del significante e il significato è mobile, tende a disfarsi, invece nei punti in cui il significante si incrocia con il significato si producono effetti di senso. Il punto di capitone è la nozione necessaria per situare l’intenzione di significazione, cioè l’intenzione che mobiliterebbe il significante. Per colui che ascolta, ma anche per chi parla, quando si ascolta qualcosa che è stato detto è sempre nel momento successivo, in après coup, che si può accedere a quest’intenzione di capire qualcosa. Lacan presenta questa proprietà del punto di capitone con uno schema in cui traccia un vettore, che rappresenta il flusso significante, che va da sinistra a destra (S ----- S’), rappresenta quindi un ordine cronologico, poi traccia un secondo vettore che va in senso inverso e incrocia il primo in due punti, ed è il vettore del significato, che è istantaneo. Questa cellula elementare del punto di capitone è l’istante di vedere, di cogliere il significante che conta, un istante correlato immediatamente con l’istante di comprendere. Questa cellula ci permette di schematizzare come il significante, grazie al punto di capitone, arresti lo scivolamento altrimenti indefinito della significazione. La significazione si realizza nell’ultimo termine di un’enunciazione, in quanto ciascun elemento è anticipato nella costruzione degli altri e, inversamente, il senso è sigillato come l’effetto retroattivo. Per esempio, se dico: “Ieri ho preso l’aereo per venire a Milano”, è quando finisco la frase che si capisce il senso delle prime parole. Si comprende nell’ultima parola il senso delle precedenti, in modo retroattivo. Nel Seminario V Lacan fa l’esempio della parola concupissent, indicando che solo quando si sono sentiti tutti i quattro fonemi si produce un effetto di senso che toglie l’equivoco di una serie di insulti (i quattro fonemi, uno per uno, sono delle parolacce in francese). Ciò accade perché il vettore del “voler dire”, il vettore retroattivo, aggancia un significante nell’altro producendo, così, una nuova significazione. Grazie alla predominanza del significante sul significato, il vettore S-----S’ è il luogo favorevole alle operazioni di metafora e di metonimia, cioè alle operazioni di sostituzione significanti. Il vettore S-----S’ è costituito di fonemi, cioè di piccole unità senza senso la cui combinazione produce significanti. Un commentatore di Lacan, Joel Dor, fa un esempio di gioco di combinazione di fonemi, di minima grandezza, in due frasi: Il y a un as en moins e Il y a un os en mois. È cambiata solo una a con una o e le due frasi vogliono dire due cose diverse: “C’è un asso in meno”, e “C’è un osso in meno”. La connotazione di a e di o produce un effetto di senso completamente differente, il primo ci mette in un universo di carte da gioco, il secondo in un universo di scheletri, di ossa. A seconda di come i fonemi sono codificati nelle diverse lingue, la loro codificazione permette di distinguere i messaggi.
Il grafo 1 (p. 807) indica il punto capitone. Lacan complessifica la cellula del punto capitone con il grafo 2 (p. 810). Possiamo considerare il primo piano del grafo come il rapporto del soggetto con il significante. E c’è anche un’altra linea, un sottosuolo, che è il rapporto del soggetto con l’immagine. Poi, ritroviamo i due punti di intersezione, che abbiamo appena visto, indicati con A e con s(A). A è il punto in cui si trovano fissati i diversi impieghi del significante, è il luogo del codice. Il punto A è il riferimento simbolico che permette agli umani di parlarsi, è il luogo del grande Altro che Lacan chiama il luogo del tesoro dei significanti. Il secondo punto, s(A), è l’interpunzione in cui la significazione si costruisce come prodotto finito, è il punto in cui si costruisce il senso del messaggio a partire dal codice. s(A) è il luogo del messaggio, A è il luogo del codice. s(A) è anche il luogo della verità di colui che parla, luogo che si avvicina alla parola piena, però Lacan avverte che spesso questo non accade: il discorso non arriva alla catena significante, non arriva al vettore che va da sinistra a destra, ma passa in cortocircuito con il segmento m ---- i(a) cosicchè il discorso gira a vuoto e si sfinisce in una ripetizione della parola vuota… è la macina delle parole, come ad esempio dei luoghi comuni. A proposito di questo circuito del grafo, già nel Seminario V Lacan diceva: «Il più delle volte non viene annunciata alcuna verità, per la semplice ragione che il discorso non dice assolutamente niente se non segnalare che io sono un animale parlante. È un discorso comune fatto di parole che non dicono niente grazie al quale ci si rassicura che non si ha a che fare con quel che l’uomo è al naturale, vale a dire una bestia feroce». È il discorso ammaestrato, banale.
Per andare al di là della macina di parole occorre un’articolazione significante che giunga alla parola piena. L’articolazione significante è l’effetto di significazione e necessita di una certa intenzionalità, intenzionalità che si esprime nella sua forma più arcaica e primitiva nell’espressione del bisogno. Il bisogno è all’origine della catena intenzionale che è rappresentata dal vettore retroattivo. L’intenzione del soggetto, che sorge dal bisogno, deve dapprima passare necessariamente per il codice, da A, il luogo che permette di tendere alla soddisfazione del bisogno. Nel Seminario VI, Lacan dice: «Il bambino si rivolge a un soggetto che sa che è un soggetto parlante, per esempio la madre, che ha visto e ha sentito parlare, e che lo ha impregnato di rapporti dal momento in cui è venuto alla luce. Molto presto il soggetto impara che è per quella via, per quel defilè, che le manifestazioni dei suoi bisogni devono abbassarsi a passare per poter essere soddisfatte, devono quindi sottostare».
Il punto s(A) rappresenta ciò che è significato dall’Altro, è il messaggio della domanda secondo il senso che l’Altro ha dato, e questo senso l’Altro lo ha dato secondo il proprio desiderio. È tramite il proprio desiderio che l’Altro opera la significazione significante. Per esempio, possiamo immaginare il bambino che grida e la mamma che dice “Hai fame” o “Hai freddo”, secondo il desiderio della madre, la madre cerca di portare un significato al grido. Il fatto che l’Altro, la madre, dia un senso, permette di fissare il messaggio, e ciò che si fissa è un primo segno a cui il soggetto si identifica. A è il luogo dell’Altro in cui il soggetto si inscrive, quindi l’Altro occupa la posizione dominante. È dall’Altro che il soggetto riceve il messaggio che emette, in modo rovesciato.
Lacan propone l’articolazione tra l’Altro, la parola e la verità: «Osserviamo che questo Altro distinto come luogo della Parola, si impone anche come testimone della Verità. Senza la dimensione che esso costituisce, l’inganno della Parola non si distinguirebbe dalla finta» (p. 809). Si tratta della finta che si manifesta, ad esempio, negli affrontamenti, nella lotta o nella parata sessuale, e Lacan nota che l’animale è capace di far finta, per esempio può fare una falsa partenza per metterci fuori strada nella caccia. Però un animale non è capace di far finta di far finta, cioè non lascerebbe delle tracce ingannevoli per far credere che siano false mentre sono vere. L’animale è escluso dal motto di spirito, come nell’esempio di Freud di quell’ebreo che dice al suo amico che sta partendo: “Perché mi dici che vai a Cracovia perché io creda che vai a Lemberg, quando invece tu vai veramente a Cracovia?”. La parola inizia nel passaggio dalla finta all’ordine significante. L’Altro è il testimone necessario perché la verità possa trarre garanzia non dalla realtà, ci dice Lacan, ma dalla parola. È la parola ad imprimere un marchio: «Il primo detto decreta, legifera, è oracolo; esso conferisce all’altro reale la sua oscura autorità» (p. 810). È così che Lacan definisce il tratto unario, ciò che marchia invisibilmente il soggetto, marchio che il soggetto riceve da un significante, un significante elevato alla dimensione di insegna, insegna di onnipotenza, di potere, che aliena il soggetto nella prima identificazione, quella che forma l’ideale dell’Io, I(A) che si trova alla fine del vettore retroattivo. Significa che il soggetto non può cogliersi da solo, ma può cogliersi solo dopo questa identificazione al tratto unario prodotta dal marchio del significante. E, alla fine di questo processo, diventa «ciò che era come da prima», cogliendosi solo nella formula del futuro anteriore, nella forma del «sarà stato» (p. 811). Questo si riallaccia al motto freudiano Wo Es war, soll Ich werden, si sottolinea soprattutto il “dove”, il dove permette di posizionare il soggetto, la posizione del soggetto deriva da dove si situa il desiderio. Lacan dice chiaramente che il grafo ci servirà a presentare dove si situia il desiderio in rapporto a un soggetto definito dalla sua articolazione significante.
Per costruire il primo piano del grafo Lacan prende in considerazione anche il rapporto del soggetto con l’altro, il piccolo altro, partendo dallo stadio dello specchio. Il bambino nasce prematuro, il sistema motorio e il sistema piramidale non sono ancora mielinizzati, quindi non c’è una coordinazione motoria corretta. Un bambino prematuro di sei mesi, prematuro non nel senso che è nato prematuro ma perché costituzionalmente nasce non maturo, messo davanti allo specchio riconosce se stesso con l’aiuto dell’adulto che lo sorregge. L’immagine che vede allo specchio è simile all’immagine di altri piccoli bambini della sua stessa età, viene poi assunta come propria immagine. Questa immagine provoca nel bambino delle reazioni di giubilazione perché gli permette di vedere unificato nell’immagine allo specchio ciò che in lui non è né unificato né completo, e grazie allo sguardo, al dire dell’Altro, dell’adulto che lo sorregge, trova conferma della sua unità. Tuttavia, c’è una prima lacerazione tra il soggetto e la sua immagine: è lui, ma non è lui. Questa dialettica è rappresentata nella parte bassa del primo grafo, è la linea m ---- i(a), in cui m sono io e i(a) è la mia immagine. Tale prima opposizione è alla base della rivalità immaginaria. Il primo piano del grafo, in cui si compie il processo immaginario che va dall’immagine speculare alla costruzione dell’io, si articola in due percorsi. Un percorso passa sotto, e a questo livello c’è una fissazione all’immagine primordiale. L’altro percorso, invece, fa tutto il giro in alto e passa dalla significazione confermata dall’Altro, da s(A). La linea dell’immaginario m ---- i(a) corrisponde all’asse a ---- a’ dello schema L. Ci sono delle differenze tra lo schema L e il primo piano del grafo: il circuito dello schema L si chiude, mentre il grafo è un sistema aperto. Si potrebbe dire che questo grafo è una variante del tema dello stadio dello specchio, che porta la tappa in cui il simbolico domina l’immaginario. In questo primo piano del grafo, si attua un processo che va dall’immagine speculare alla costituzione dell’io sul cammino della soggettivazione ad opera del significante (p. 812). Sono proprio queste quattro parole, “ad opera del significante”, a segnare la svolta rispetto allo stadio dello specchio del 1936-39 quando, in una logica tutta immaginaria, la strutturazione dell’io era prodotta dall’unificazione dell’immagine dell’io realizzata grazie all’immagine dell’altro. La svolta è data dalla predominanza del simbolico. Occorre una coordinazione simbolica perché la relazione al simile nello specchio produca un effetto di significazione, e occorre del significante che permetta di soggettivare l’identificazione immaginaria. Dunque, è sbagliato pensare che il primo piano sia quello dell’immaginario e il secondo il piano del simbolico, in entrambi c’è un’articolazione con il simbolico.
Le conseguenze che Lacan vuole sottolineare a partire dalla costituzione dell’io concernono la coscienza e la conoscenza. Egli critica il fatto di considerare la coscienza e la conoscenza come chiare e trasparenti, e considera la stessa trasparenza dell’io come ingannevole. Il cogito cartesiano del Disorso del Metodo e delle Meditazioni Metafisiche, “penso dunque sono” o “io sono in quanto penso”, viene considerato da Lacan una «sequela storica» (p. 812). Il Dizionario Zingarelli dà di “sequela” questa definizione: «sequela di cose e di fatti sgradevoli, di noie o di accidenti». Lacan trova l’Io di Cartesio problematico perché Cartesio considera il soggetto una sostanza e non un effetto del significante. Cartesio non si accorge che il punto principale della sua formulazione è proprio quando, nelle Meditazioni Metafisiche, dice: «Infine bisogna concludere, e tenere per costante, che questa proposizione: io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio». “Tutte le volte che la pronuncio”, cioè si tratta di una proposizione pronunciata, detta, che passa per i defilè del significante. Lacan, ne L’Etourdit, del ’72, diceva: «Perché un detto sia vero bisogna prima di tutto che sia detto, che ci sia un dire».
L’altra considerazione riguarda Hegel che, nella Fenomenologia dello Spirito, non può evitare di cogliere la confusione costitutiva della coscienza: coscienza di sé che in realtà si fonda sul riconoscimento di un’altra coscienza, e quando il riconoscimento della coscienza si gioca tra l’io e il proprio simile si produce una rivalità aggressiva, la famosa lotta all’ultimo sangue. Lacan definisce lo schema hegeliano della lotta per puro prestigio come «un mito più che una genesi effettiva» (p. 812), e sottolinea che Hegel ha ignorato la questione della prematurazione dell’essere vivente dalla nascita, che per Lacan è alla base della cattura speculare. Hegel ha fatto della morte stessa il fulcro della lotta; la morte è il principio che differenzia le due coscienze: quella che le si avvicina di più, ovvero correndo il maggior rischio di perdere la vita, è la coscienza che vince, quella che cede, perché ha paura di morire, è la coscienza che perde, e diventerà lo schiavo, il servo. Ma in questa lotta c’è un patto, una regola, che precede la lotta stessa: bisogna che il vinto non perisca perché se ne abbia uno schiavo. Questo significa che c’è un patto simbolico, una legge, prima della lotta. Lacan afferma che vi è una legge preliminare alla violenza, mentre sembrerebbe che per Hegel la legge sia una conseguenza della lotta. Inoltre, mentre Hegel attribuisce il godimento al padrone e l’obbedienza al servo, per Lacan c’è un godiemnto del servo e, all’interno di questo testo, ne dà un esempio clinico, quello del nevrotico ossessivo che aspetta la morte del padrone e gode di questa attesa. Più volte ritorna in queste pagine la questione dell’“astuzia della ragione” che Lacan riferisce alla logica dell’ossessivo. L’“astuzia della ragione” è di matrice hegeliana e significa che il soggetto fin dall’origine, e fino alla fine, sa ciò che vuole, al contrario Freud sostiene che, poiché il soggetto non sa quello che vuole, c’è un divario tra la verità e il sapere. Questa rivoluzione freudiana non è considerata da certa psicologia, includendo anche alcune derive della psicoanalisi, che Lacan critica apertamente definendola banale, caduta nella mollezza e che non tiene in conto delle radici linguistiche dell’inconscio, che la domanda deve passare in ogni caso per i defilè del significante. È attraverso il passaggio dalla domanda, per il defilè del significante, che i bisogni passano dal registro iniziale, arcaico, al desiderio. Questo accade perché l’ananke somatica, il destino somatico, l’impotenza a muoversi, la prematurazione con cui l’essere umano viene al mondo e in cui persiste nei primi mesi di vita, lo colloca in una situazione di dipendenza in cui la psicologia rileva solo la dipendenza comportamentale, il bisogno di cure, senza cogliere che si tratta soprattutto di una dipendenza dal linguaggio. È la presa nell’Altro, l’agganciamento nell’Altro a permettere il passaggio dal bisogno al desiderio.
Che cosa dimostra la psicoanalisi rispetto alla questione del desiderio? In particolare, rispetto al desiderio sessuale?
Lacan non esclude la serie dei fattori normalmente considerati come la conservazione della specie, la serie degli accidenti della storia del soggetto, dei vari traumi intesi come contingenze, ma insiste a dire che tutto questo avrebbe poca incidenza senza il concorso degli elementi strutturali.
L’essere umano è diverso dall’essere animale perché è un essere parlante. Mentre gli animali hanno una sessualità prestabilita, che si svolge secondo schemi fissi, gli umani, proprio perché parlano, non sono mai a loro agio con la sessualità, la quale non ha niente di naturale. Lacan dice che già Freud si accorse che la sessualità doveva portare la traccia di qualche inclinatura poco naturale, già da qui si profila l’aforisma del “non c’è rapporto sessuale”. È chiaro che gli animali non incontrano gli impacci edipici nella loro sessualità, il divieto dell’incesto e neppure la problematica che ruota intorno alla questione del Padre. Per gli esseri parlanti la questione del Padre si pone come Padre morto, ucciso, come il Padre simbolico che Lacan riprende nei termini del Nome del Padre.
Nel Seminario XVII, Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970), Lacan dirà: «È il Padre morto ad avere la custodia del godimento». Si riferisce al Padre di Totem e Tabù, dell’orda primitiva. Padre primordiale che impediva ai figli di godere della madre e delle sorelle, da loro ucciso perché era lui a goderne senza limiti. Alla sua morte i figli s’impongono una legge, l’esogamia, che prescrive la loro la stessa privazione. Il Padre è quindi considerato da Lacan il rappresentante originale dell’autorità della Legge, purchè non pretenda di erigerla, cosa che farebbe di lui un impostore.
Possiamo considerare questo Padre il garante definitivo? Certamente no, non c’è garante ultimo, non c’è Altro dell’Altro (Il n’y a pas l’Autre de l’Autre). Affermazione non priva di conseguenze... intanto ciò distingue la psicoanalisi dalla religione. Nella prima fase dell’insegnamento di Lacan vi è un Altro che è organizzato e consistente, nella seconda, a partire dai Seminari V e VI, l’Altro non esiste, è inconsistente. È un vero punto di svolta dell’insegnamento di Lacan, che segnerà una nuova fase della sua elaborazione, senza peraltro annullare la prima. C’è un riferimento a questa svolta nel Seminario VI dove Lacan definisce la formula “Non c’è Altro dell’Altro” come il grande segreto della psicoanalisi, ciò nel grafo completo è indicato con S(Ⱥ). In A manca qualcosa, e questo qualcosa che gli fa difetto non può esser altro che un significante. Un significante fa difetto a livello dell’Altro.
La prima conseguenza riguarda il desiderio: se non c’è Altro dell’Altro, qual è il posto del desiderio? Dov’è la garanzia? Lacan articola così la dialettica bisogno-domanda-desiderio: «il desiderio si abbozza nel margine in cui la domanda si strappa dal bisogno». Non solo ogni domanda è una domanda d’amore, ma la domanda è sempre incondizionata, ed è sempre insoddisfatta perchè il bisogno introduce una specie di difetto nella domanda. La domanda d’amore è incondizionata, mentre il desiderio è condizione assoluta. La domanda che traduce l’esigenza, il bisogno del soggetto, necessita della presenza dell’altro perchè il bisogno sia soddisfatto. Senza la presenza dell’altro non c’è possibilità di accedere all’oggetto del bisogno, per poterlo fare è necessario passare nei circuiti della domanda. La domanda è incondizionata perchè non dipende dalle situazioni: la domanda è sempre domanda d’amore, cioè presenza dell’Altro. Invece, il desiderio è “condizione assoluta” nel senso che va al di là della domanda. C’è qualcosa di irriducibile, di assoluto che caratterizza il desiderio e che ha la sua radice nel bisogno, ma si stacca dall’elemento sensibile del bisogno. È come se il bisogno per poter essere espresso e soddisfatto dovesse passare per il setaccio della domanda, tuttavia c’è qualcosa che non passa, qualcosa d’irriducibile alla domanda, quel residuo, quella pepita, quel nucleo, è il desiderio. Lacan sottolinea che poi avviene una metamorfosi: l’oggetto del bisogno si muta in oggetto del desiderio, e la domanda si trasforma in domanda incondizionata d’amore. Una sorta di rovesciamento che Lacan esprime in questi termini: «Per una singolare simmetria il desiderio rovescia il carattere incondizionato della domanda d’amore, in cui il soggetto resta in soggezione all’Altro, per portarlo alla potenza della condizione assoluta (dove assoluto vuol dire anche distacco)» (p. 817). Miller, nella lezione del 23 marzo 1994 del Corso Donc, ci aiuta a leggere questo passaggio. Miller rileva che la soggezione di cui parla Lacan è la dipendenza, nel senso che il soggetto è assoggettato all’Altro dell’amore. È il desiderio che produce un rovesciamento e porta un distacco. Lacan gioca sulla radice della parola “assoluta” che par suonare come “assoluzione”, “assolvere”, infatti “distaccare” in francese si dice détacher, “togliere una macchia”, “assolvere”. Il desiderio svincola e sdogana il soggetto dall’Altro dell’amore, c’è un’emancipazione dei segni dell’amore, tanto che un desiderio deciso non si imbarazza troppo dei segni dell’amore… Miller però precisa che non si deve pensare che il desiderio deciso possa giustificare tutto, e allora propone che a desiderio deciso corrisponda amore cortese. Quindi, c’è un’opposizione tra l’amore e il desiderio, e Lacan illustra la genesi di questa emancipazione, che il desiderio produce nei confronti dell’Altro, con l’esempio dell’oggetto transizionale di Winnicott. Prendendo un piccolo pezzo dell’altro ci si può poi congedare dall’altro senza troppi affanni: questo è l’oggetto détacgé, staccato, anche se non è dell’altro. Questo produce un guadagno sull’angoscia, sappiamo come può rassicurare il peluche o il pezzo di stoffa che il bambino tiene in mano o che porta alla bocca. Occorre chiarire che non si tratta dell’oggetto a, concetto che al tempo di Sovversione Lacan non ha ancora a disposizione. L’oggetto transizionale non è l’oggetto a ma è solo un emblema, una rappresentazione immaginaria, a differenza dell’oggetto a che invece è inconscio.
Il bisogno porta un difetto nella domanda, ciò significa che non c’è la soddisfazione universale, ed è questa impossibilità della soddisfazione universale che fa sorgere l’angoscia. La soddisfazione del bisogno non soddisfa completamente la domanda, c’è sempre una beanza, una mancanza, un buco. Il desiderio è sempre antinomico, il soggetto desidera quello che non vuole. Come nel caso della bella macellaia che desidera il caviale ma non vuole assolutamente che il marito le dia il caviale, quando lui sarebbe pronto a fornirglielo ogni mattina. Il suo desiderio deve rimanere insoddisfatto. La sua domanda è domanda d’amore. Il sogno della bella macellaia, riportato da Freud nell’Interpretazione dei sogni e ripreso da Lacan, è un esempio della dialettica del desiderio e della domanda. In questo caso si tratta di un desiderio isterico, di un desiderio insoddisfatto in cui l’insoddisfazione circola dal soggetto all’altro, l’amica che vorrebbe ingrassare ma che resterà insoddisfatta e non mangerà salmone. È un esempio che mostra l’aforisma lacaniano per cui “il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro”, in cui dell’ è un genitivo soggettivo, in un certo senso il desiderio dell’Altro è convocato dalla domanda del “Che vuoi?”, che vuole l’Altro. Il Che vuoi? è la domanda enigmatica che conduce il soggetto sulla via del proprio desiderio. Il Che vuoi? è il modo che Lacan usa per far sentire l’angoscia del soggetto di fronte all’enigma dell’Altro, all’enigma del desiderio dell’Altro. Ma questo passaggio per la via dell’angoscia è un passaggio indispensabile: per accedere al proprio desiderio bisogna che il soggetto si confronti con il desiderio dell’Altro.
Nel Grafo 3 [p. 818] il tracciato a forma di punto interrogativo che veicola il Che vuoi? conduce a $◊a, il matema del fantasma, via che conduce al soggetto di assumere come riesce l’incompletezza dell’Altro e di posizionarsi come desiderante. Alla domanda “Che cosa vuole l’altro da me?”, “Che cosa sono io per lui?”, può essere data una risposta differente, orale, anale o altro, che fissa il desiderio su un oggetto, e questo contribuisce alla formazione del fantasma, esprimendo la posizione assunta dal soggetto nei confronti dell’altro.
In questo tempo, il bambino che non sa fare un discorso ha già un rapporto con l’Altro perchè c’è già un marchio, un’impronta impressa sul suo bisogno dalla domanda. Di quale domanda si tratta? È la domanda che ha a che fare con l’Altro, perchè se la selezione dei significanti è effettuata dall’Altro, significa che dipende dal suo volere. Qual è il volere dell’Altro? Cosa vuole? È così che appare il Che vuoi? in questo punto della costruzione del grafo, dove si situa il passaggio alla seconda tappa.
Il Che vuoi? è tratto da Lacan dal romanzo di Cazotte Il diavolo innamorato dove c’è un’evocazione del diavolo e, dal muro, appare una testa di cammello spaventosa che con voce cavernosa pronuncia: “Che vuoi?”.
La domanda del Che vuoi? convoca per la prima volta il desiderio dell’Altro, e Lacan lo disegna con un grande punto interrogativo piantato nel punto A. È a partire dall’intenzionalità del bisogno che la domanda convoca l’Altro, il luogo del codice, e poi s(A), luogo del messaggio, ma si costituisce anche come appello all’Altro nel Che vuoi?, va quindi al di là della domanda, sul versante del desiderio dell’Altro, ed è lì che si costituisce il desiderio del soggetto. Il soggetto situa il proprio desiderio all’interno, dentro, il desiderio dell’Altro, infatti c’è una piccola d che indica il desiderio.
Possiamo dar conto della formazione del fantasma anche con altre parole. L’apparire del Che vuoi? introduce un’opacità, un’oscurità. L’interrogativo lascia il soggetto sospeso in un momento di angoscia, di sconforto, hilflos. Qui si situa l’esperienza traumatica. In questa terza tappa del grafo, il soggetto cercherà di placare l’angoscia con l’apporto della dimensione immaginaria, situata sulla linea m ---- i(a). Troviamo l’illustrazione di questo passaggio anche nel Seminario VI, dove Lacan dice: «L’elemento immaginario, cioè la relazione dell’Io m all’altro i(a), interviene nella terza tappa dello schema in quanto essa permette al soggetto di parare al suo sconforto, la détresse, nella sua relazione al desiderio dell’Altro». Para utilizzando le relazioni immaginarie che ha imparato a maneggiare nella sua relazione con il simile, con l’altro, cioè relazioni di affrontamento, prestanza, sottomissione, disfatta. Il soggetto si difende con il suo Io, e per difendersi costruisce qualche cosa dove situare il suo desiderio: questo qualche cosa è il fantasma. Miller diceva il Seminario VI avrebbe potuto intitolarsi ed essere dedicato più al fantasma che al desiderio.
Un’altra definizione di Lacan è che il fantasma è sempre esistito in forma misteriosa, segreta, ma è solo con l’analisi «che ha cessato di essere un’anomalia, qualche cosa di opaco, qualche cosa dell’ordine della deviazione del desiderio, della sua perversione per essere invece concepito e articolato in una dialettica che può conciliare l’immaginario e il simbolico».
Il secondo piano del grafo funziona simultaneamente al primo, nel Seminario VI Lacan dice chiaramente che i due piani funzionano contemporaneamente nel più trascurabile atto di parola. Comunque, si può considerare il secondo piano del grafo come il luogo dell’inconscio; su questo piano si colloca il desiderio, d, è quindi un desiderio inconscio. d si colloca in un punto del percorso che va da A a $◊D [p. 820]. Nel grafo il desiderio è contrapposto al fantasma, c’è un vettore che li unisce indicando l’articolazione desiderio e fantasma.
Al punto $◊D Lacan pone la pulsione e dice che la pulsione è omologa al tesoro dei significanti, A. Dice che la pulsione è ciò che avviene della domanda quando il soggetto vi svanisce. La domanda pulsionale produce una sorta di fading, un’eclissi del soggetto. Questo ci ricorda il carattere acefalo della pulsione, irriducibile all’ordine simbolico. Ma se è irriducibile al simbolico, perchè ne fa qualcosa di omologo al tesoro dei significanti? Sembrerebbe una contraddizione. Lacan afferma che il grafo completo ci permette di porre la pulsione come tesoro dei significanti. Il “come” potrebbe intendersi nel senso di “omologa”. Viene posta da Lacan un’equivalenza dei significanti della catena superiore e pulsione. Evidentemente si tratta di significanti inconsci. C’è una tensione in questo punto del testo, in questo sforzo di Lacan di render conto di una relazione omologa fra pulsione e significante, che ci sembrano così disomogenei. Miller, in un Corso del 18 novembre 1981, diceva che la pulsione è la riduzione della domanda al taglio, come essenza della catena significante, ossia l’incidenza significante modifica l’elemento organico supposto nella pulsione… è una lettura di Sovversione del soggetto. Dall’incidenza del significante emerge la pulsione; l’incidenza produce un taglio, ritaglia qualche cosa e da lì emerge la pulsione. Sarà grazie al taglio, coupure, che si ritagliano gli oggetti, delimitati dai margini del corpo, le cosiddette zone erogene… oggetti di cui Lacan ci dà la lista: la mammella, lo scibale, il fiotto urinario, il fallo, a cui aggiunge lo sguardo, la voce e le rien, il niente. La difficoltà di questa correlazione tra la pulsione e il tesoro dei significanti è anche data dalla non disposizione della concettualizzazione dell’oggetto a. C’è ancora un’altra lettura, proposta sempre da Miller, in un Corso del 20 marzo 1985: «La pulsione è l’Altro del soggetto a livello inconscio. È un Altro speciale poichè è un Altro silenzioso, invece l’Altro a livello inferiore è, al contrario, un altro loquace». Sono sì significanti, ma con la particolare distinzione fatta da Miller tra silenzionso e loquace. L’Altro silenzioso ci ricorda il silenzio delle pulsioni, cui fa riferimento Lacan nel testo La lettera rubata. Più Lacan avanzerà, nell’ultimo insegnamento, verso la centralità del reale, più ripenserà anche l’inconscio freudiano, giungendo a formalizzare l’inconscio non più come un dispositivo significante, strutturato come un linguaggio, ma sempre più come inconscio reale. Questo significa che l’incontro con il reale, il momento di discontinuità, vacillazione, è messo da Lacan al centro dell’inconscio. L’inconscio reale, rispetto all’inconscio strutturato come un linguaggio, è un inconscio più silenzioso che loquace, più centrato sul silenzio delle pulsioni e sul godimento che sul simbolico. Anche se non siamo ancora a questa concettualizzazione sull’inconscio reale, già nel grafo Miller parla dell’Altro silenzioso. Miller dice che l’Altro silenzioso è articolato a quel termine singolare del significante della mancanza dell’Altro, e chiedendosi se questo termine è il significante del soggetto Miller risponde che il miglior significante del soggetto è un’elisione. I differenti modi dell’elisione sono l’inciampo, il passo falso, lo scivolamento… lì il soggetto svanisce.
In questa lezione, che è sul grafo del desiderio, Miller cerca la risposta alla domanda: “Che cosa sono io?”. Articola la risposta ai due piani del grafo, indicando il primo come il livello dell’alienazione e il secondo come il livello della separazione. Sul primo piano il soggetto si coglie come effetto del significante, clinicamente è il livello della suggestione, è il significante che porta l’Altro, per esempio il terapeuta che produce nuove identificazioni. Il secondo piano è clinicamente il livello del transfert, l’interpretazione porta sulla causa del desiderio e si situa a livello della mancanza dell’Altro. Qui c’è il punto centrale dell’operazione lacaniana di sovversione del soggetto. Lacan ottiene una sovversione della struttura, per esempio della struttura di Levi-Strauss: fa vacillare lo strutturalismo introducendo un elemento che non è significante, che non ha significato, che è il soggetto. In realtà, l’emergenza del soggetto è la sua sparizione. Il soggetto avviene quando c’è una sparizione del soggetto, $ , più che un essere è definito come mancanza-a-essere.
Come rispondere alla domanda “Che cosa sono io?”, se non trovo la risposta nell’Altro? Solo iniziando a definire il soggetto come discontinuità si può intendere la risposta che Lacan pone in Sovversione. Egli risponde con una localizzazione: “Io sono nel posto che si chiama godimento”. All’inizio di Sovversione, Lacan aveva elaborato l’Io, Je, esattamente nella forma opposta. Era partito dal sogno del padre morto, di cui parla Freud e che Lacan ha abbondantemente ripreso nel Seminario VI. Questo riferimento serve a Lacan per trarne che l’Io è un morto che non sa di essere morto, quindi una posizione opposta a quella che pone l’Io al posto del godimento. Miller indica che al versante tragico dell’essere-per-la morte si apre accanto il versante comico dell’essere per il godimento. Quando Lacan indica nel fallo la via di questa soluzione non tragica ci dà un’apertura su questo punto. Nel Seminario sull’Etica dice: «La dimensione comica è creata dalla presenza, nel suo centro, di un significante nascosto ma che nella commedia antica è là in persona, il fallo». Ecco come Miller legge l’obiettivo di Sovversione del soggetto, testo complesso, non lineare, ma che acquista una logica più chiara se partiamo da una lettura centrata sulla questione di sapere se l’essere del soggetto è proprio solo l’essere-per-la morte, se questa è l’ultima parola della psicoanalisi. A ciò risolutamente Lacan risponde di no.
Trascrizione di Marta Bottiani
Preparazione redazionale di Giuseppe Perfetto
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