LA TERZA – Dal sintomo al sinthomo
Sono onorata di condividere con voi quello che tocca il nostro essere e impegna il nostro desiderio: la nostra preoccupazione di cogliere, quanto più da vicino, l’originalità e la forza dell’insegnamento di Lacan, un insegnamento che non smette di trasmettersi, all’altezza di questi desideri che corrono in noi e al di là di noi.
Ringrazio Marco Focchi e Domenico Cosenza per avermi dato l’occasione di parlare alla Sezione Clinica di Milano di ciò che conta per me: la trasmissione dell’insegnamento di Lacan in terra d’Italia… che è di una bellezza ineguagliabile. Non resisto al desiderio di dire che ho un antenato d’origine italiana, che faceva parte della scuola di Bologna e ha decorato molte chiese in Italia. Ogni volta che torno in Italia c’è sempre per me una sorta di ritorno alle origini, origini di cui ho fatto un romanzo familiare che sicuramente è immaginario, ma che svolge la sua funzione. Ogni volta che mi avvicino al Piemonte e al villaggio di Craveggia sono rapita, ma vi assicuro che lo sono in modo ragionevole. Qualche tentazione estatica mi traversa quando sono in terra italiana, Lacan aveva ragione quando diceva ne La terza che c’era a Roma, e in Italia, troppo Spirito Santo, laddove sappiamo da Lacan che non c’è Altro dell’Altro, tuttavia, continuiamo a sognare il Padre, per quanto se ne dica.
Lavoreremo le linee e i nodi de La terza, essi obbediscono a una logica rigorosa, ma ci conducono sempre più lontano dove il significante manca per dirlo. La terza corrisponde a due lezioni di Lacan pronunciate a Roma, si situa dopo Il Seminario XX Ancora, tra Il Seminario XXI Les non dupes errent e Il Seminario XXII RSI.
Il cogito cartesiano e le sue variazioni
«Penso dunque sono», Cartesio.
«Penso: dunque sono», Lacan.
«Penso che sono», Lacan, La terza.
Inizio dalle prime righe de La terza, parlando di Cartesio e del suo cogito. Il cogito cartesiano presenta variazioni nel seminario di Lacan, correlative al cambiamento del modo in cui si coglie il soggetto dell’inconscio. Cartesio dice: “penso dunque sono”. C’è una seconda tappa nell’insegnamento di Lacan dove il cogito è scritto: “penso: dunque sono”. Quello che penso è: “dunque sono”. Un’evoluzione ulteriore è: “sono dove non penso”.
Nel cogito Cartesio afferma l’esistenza di un soggetto purificato, trasparente, il soggetto trascendentale che è indispensabile per la scienza e per l’uomo moderno, così sicuro di essere se stesso nella misura in cui pensa di essere nel suo pensiero: lì dove penso, io sono. La psicoanalisi lacaniana sposta questo assunto: il soggetto non si deduce da un “io penso” che lo farebbe esistere, non si deduce da quello che vede, o sente, oppure dalle sue determinazioni biologiche o naturali. Il soggetto esiste in quanto rappresentato da un significante per un altro significante (è la nota concezione di Lacan degli anni ‘50, de Il Seminario III Le psicosi o di Una questione preliminare a ogni possibile trattamento della psicosi). La rivoluzione freudiana, di cui Lacan descrive a suo modo i meccanismi significanti (metafora e metonimia), sposta le posizioni cartesiane. Dove sono il giocattolo del mio pensiero (nell’inconscio) non sono, e dove non penso di pensare (cioè nel gioco significante) è proprio lì che penso a quel che sono. Poiché il significante e il significato non hanno un asse comune, l’uomo non può essere collocato in un punto fisso, come luogo centrale in cui significante e significato si corrispondano.
Alfredo Zenoni mostra che: «Il soggetto su cui opera la psicoanalisi non è l’uomo, ma quel che risulta dalla sua abolizione operata dal sapere scientifico, quello che risulta dalla sua dissoluzione nell’insieme delle leggi e dei determinismi (biologici, economici, antropologici…), ma nella misura in cui questo svuotamento non equivale alla completezza del sapere dove quest’uomo si dissolve». È un interessante lavoro di Zenoni intitolato Il corpo dell’essere parlante, nella citazione dice che il soggetto non si riferisce a una completezza, come in Cartesio, ma che si tratta piuttosto del soggetto di una “incompletezza”, come nel Lacan degli anni ’60, e nel ’70 Lacan parlerà piuttosto di “inconsistenza”. Il soggetto risulta da un’operazione di “svuotamento” di godimento, ed esiste in quanto ne è separato. Questo godimento, escluso, solleva un’obiezione al senso, si situa dal lato del fuori senso, come è stato colto da Lacan in diversi modi, dal lato del reale, dell’insopportabile... Negli anni ’60, per Lacan c’è umano solo nella misura in cui c’è un No al godimento, laddove per “umano” intendo iscrizione del soggetto nel legame sociale, e un Nome del Padre che regola il rapporto con il mondo per ogni soggetto, il mondo degli altri, dell’Altro e del suo godimento. Nel Rapporto di Roma del’53, Lacan c’introduce al No al godimento e alla regolazione attraverso il Nome del Padre. La parola è assassinio della cosa, e le formazioni umane hanno per essenza, e non per accidente, la caratteristica di frenare il godimento. Nel ‘70 l’Altro non esiste, e Lacan colloca il corpo e lalangue: «Soltanto attraverso il fatto di parlare il soggetto può avere un corpo e credersi di essere». Il partner del parlessere (non dice più “soggetto dell’inconscio”, ma “parlessere”) è un corpo che si gode (corpo parlante). Mentre l’insegnamento di Lacan si orientava nel fondamento del soggetto dell’inconscio con il significante e le sue combinatorie, ora, invece, Lacan prende la via del corpo e della sua lalingua per porvi le assise del suo parlessere: il soggetto è parlato ma, soprattutto, parlante attraverso un corpo che mobilita il suo essere di godimento. Il desiderio lascia il campo dell’approccio platonico per aggregarsi al corpo e parlare da lì… le testimonianze di passe ce lo testimoniano regolarmente.
Torniamo alla torsione di Lacan del cogito cartesiano. La prima torsione la incontriamo nel seminario L’identificazione (1961-62). “Penso: dunque sono”. Lacan realizza una prima rottura: “Penso dove non sono, dunque sono dove non penso”. L’essere inteso come “sono” si separa dal pensiero, dalla significazione, dal senso, e anche dalla combinatoria significante, per articolarsi al corpo. Il soggetto è sempre incastrato nelle identificazioni, in specularità che gli danno parvenza d’identità, che non cessano di costruirlo come un bricolage, parassitato dal linguaggio. Preso in un linguaggio di cui non è padrone, lalingua parla a sua insaputa e gioca la sua partizione nel corpo. Dunque, è il corpo che parla. Parlato nella misura in cui è parlante, il soggetto è alienato a una lingua che non sempre conosce, alle prese con significanti che lo rappresentano ma il cui significato gli sfugge. È qui che Lacan introduce la dimensione del fuori senso. Anche se nelle sedute di analisi i significanti proliferano, e il senso è loro attribuito dal soggetto stesso, si tratta di mirare a una riduzione del senso. Di tale purificazione del godimento nel campo dell’Altro, di riduzione dell’Altro all’Uno, il soggetto non è che quel niente d’essere che ha fatto tanto parlare e godere.
La seconda torsione, rappresentata da “Sono dove non penso”, si verifica ne La terza, dove dice: “Penso dunque je souis”. Al je suis si sostituisce un je souis, “essere” non come quello dei filosofi, ma “essere” di godimento: condensa essere e godimento in un solo termine. È un io godo condensato.
La questione dell’essere che fino allora ha occupato i filosofi è individuata da Lacan non con la sostanza ma attraverso il godimento, e il modo di rapportarsi col godimento da parte di ciascuno.
Da La terza l’essere si coglie attraverso il nodo tra Reale, Immaginario e Simbolico. Un essere che non è l’“Essere” dei filosofi, ma “una parvenza” (presente a partire dal Seminario L’envers de la psychanalyse). Ne La terza Lacan denuncia quelli che si illudono sulla possibilità per il soggetto di raggiungere un sapere costituito, una conoscenza, un sapere sulla verità ultima, invece, il soggetto non ha alla fine che un solo significante che lo rappresenta presso tal sapere: «È un rappresentante, per così dire, di commercio con questo sapere costituito, ossia per Cartesio, com’è d’uso ai suoi tempi, per via dell’inserimento nel discorso in cui è nato, con il discorso che chiamo del padrone, del nobiluccio».
Annodamento
A partire dal parlessere l’essere si trova in ciò che è stretto dal nodo, intorno all’oggetto a. L’annodamento dei tre registri RSI è per Lacan la sola verità che valga, quella dell’essere, “verità” non nel senso di “verità ultima” ma di verità singolare, che è quella dell’essere. Il nodo è l’essere.
Nel punto in cui si stringono i tre anelli troviamo l’oggetto a. L’oggetto a lo rintracciamo in tutto l’insegnamento di Lacan. Esso designa, nel calcolo della logica propria al discorso analitico, ciò che non appartiene al significante (reale, godimento, pulsione). A lungo l’oggetto a è stato un buco, ma a partire da La terza esso è operativo nel registro del reale, a titolo di un oggetto di cui non abbiamo idea, che non è rappresentabile.
Lacan si rivolge a degli analisti, che sono lì per formarsi, per spiegare come si debbano collocare in posizione di parvenza dell’oggetto a, offrire l’oggetto a che l’analista incarna come causa del suo desiderio all’analizzante. E prosegue dicendo che: «questo nodo bisogna esserlo». Quando dice che deve essere in posizione di oggetto a intende di parvenza. Questo non può pensarsi senza la relazione transferale. Il fatto che l’analista si collochi in posizione di oggetto a è ciò che annoda la traslazione, e permette di avvicinarsi al reale non come alla verità ultima ma in un rapporto singolare relativo alle coordinate soggettive. L’oggetto a trova la sua funzione di agente nella scrittura del discorso dell’analista. Nel discorso dell’analista l’oggetto a è in posizione di agente, a differenza del discorso del padrone dove al posto dell’agente abbiamo l’S1 che si impone al soggetto diviso. Tutto l’interesse di una analisi sta nel fatto che l’oggetto a sia in posizione di agente, il che permette la realizzazione di un sapere.
Nel discorso dell’analista è l’oggetto a come parvenza che conduce il gioco. Ne La terza Lacan dice che non è «un sembiante più sembiante che al naturale», si tratta di una provocazione verso gli analisti dell’IPA, «E allora siate più distesi, più naturali quando ricevete qualcuno che viene a chiedervi una analisi (...) anche come pagliacci siete giustificati a essere», la nozione di buffone funziona come parvenza, come dire: buffone avvertito.
Lacan prosegue, parlando agli analisti: «Il simbolico, l’immaginario e il reale sono l’enunciato di ciò che opera nella parola, quando vi situate a partire dal discorso analitico, quando – analisti - lo siete». Questi termini emergono “per” e “da” il discorso dell’analista.
Il punto di mira del discorso del padrone è che le cose funzionino, che stiano al passo, esso mette da parte il reale, ovvero ciò che fa punto di arresto, che obietta al buon funzionamento del mondo e dell’io, e che è all’origine della costruzione del sintomo.
Dal soggetto dell’inconscio al parlessere
L’inconscio non è più un discorso da decifrare attraverso una macchina linguistica, ma è un inconscio che si rivela attraverso l’annodamento RSI, dove sono annodati il reale del godimento, il corpo e la struttura dell’apparato inconscio. Attraverso l’attività di cifratura, man mano che si sviluppa la catena parlata, l’inconscio produce un senso: quest’attività è in se stessa l’esercizio di un godimento. Lacan parla di godi-senso, godere del senso, e del senso goduto. Quindi, il godimento accompagna il soggetto dell’inconscio. Ogni soggetto gode dell’attività di cifratura, ma l’esperienza analitica tocca il reale della pulsione. Che tutto il reale nel soggetto non sia simbolizzabile, formulabile in parole, tuttavia non impedisce di considerare questo resto a partire da un inconscio rielaborato per includere il fuori senso, precisamente quello del godimento del corpo, eterogeneo al significante, ma a esso annodato.
Nelle sue conferenze a Sainte-Anne, nel ‘72, Lacan inventa il concetto di lalangue per designare il “brodo di coltura” della materia sonora che non segue il ritaglio linguistico delle parole e le leggi della sintassi. La lalingua implica il godimento che vi è depositato. Negli anni ’70, il primo posto è dato al corpo che gode, che parla lalangue. Allo scopo di far apparire gli effetti della lalingua, Lacan usa neologismi da prendere come forzature del linguaggio. E così, nel ’74, introduce il termine parlessere per designare «l’essere carnale devastato dal verbo», «che parla questa cosa che strettamente attiene [solo alla langue], cioè l’essere». Il parlessere reintroduce la dimensione della pulsione nel verbo, laddove il soggetto dell’inconscio e il godimento sono in esilio reciproco, separati.
Il reale. Dalla bellezza all’impossibile
L’etica della psicoanalisi prende il suo punto di partenza dal reale, cioè si interessa a “ciò che non va”, che è senza equivalenza, senza misura. La singolarità è dal lato del reale, costituisce un punto d’arresto, un’impasse, ed è indice di godimento.
Avevamo un oggetto a che faceva buco e che poi sostiene il nodo, ora vi è un reale che era insopportabile e diventa, invece, indice di godimento.
Dove il Diritto si occupa dei rapporti, la psicoanalisi si occupa del non rapporto, di ciò che non ha uguali. La psicoanalisi inizia da una discontinuità della vita del soggetto. Il gioco delle equivalenze significanti che la psicoanalisi mette in opera, con l’associazione libera, non è al servizio di un senso condiviso, bensì di un fuori senso singolare. Un soggetto arriva in analisi a partire da ciò che non va, dagli ostacoli che impediscono il buon funzionamento della sua vita. Egli testimonia di un reale con il quale ha a che fare a partire dai sintomi, che gli impediscono di vivere tranquillamente. Eppure, i sintomi, per quanto dolorosi, sono già segni di una creazione soggettiva in atto. La psicoanalisi ha sempre fatto dei sintomi non i segni di una disfatta delle facoltà, di un disfunzionamento o di una debolezza della volontà, ma punto di creazione di un soggetto intorno ad un reale che è opportuno far emergere. È da lì che si deve partire per capire quello che del soggetto cerca di dirsi. La mira degli “educatori dello spirito e del corpo” è di ridurre il sintomo, invece gli analisti raccolgono preziosamente questa costruzione che è già un trattamento del reale con cui il soggetto ha a che fare. La traslazione gioca la propria parte, coglie l’impossibile e si avvicina a un reale inerente alla struttura, struttura eterogenea al senso: «Chiamo sintomo ciò che viene dal reale. Ciò vuol dire che si presenta come un pesciolino il cui becco vorace si richiude solo mettendo del senso sotto i denti. (…) Allora delle due l’una, o questo lo fa proliferare (...) oppure crepa».
Ma Lacan fa un passo in più e precisa: «Il senso del sintomo non è quello con cui lo si alimenta per la sua proliferazione o la sua estinzione. Il senso del sintomo è il reale». E il reale si caratterizza come fuori senso.
Sulla nozione del sintomo come «ciò che il soggetto ha di più reale», riguardo al sintomo nell’insegnamento di Lacan ci sono due tempi. Nei primi tempi Lacan dava al sintomo lo statuto di interpretabile, grazie alle formazioni dell’inconscio. È il sintomo come metafora, come sostituzione significante, è quel che è divulgato oggi quando si afferma che quel che non riesce a dirsi si mostra nel corpo. Il sintomo è inteso come evento di discorso che ha lasciato delle tracce nel corpo, che disturbano il corpo. Il soggetto parla con il proprio corpo e l’esperienza analitica permette di decifrare i significati del sintomo grazie al ritorno del rimosso. Nella nevrosi il sintomo cede attraverso la decifrazione.
Restare a questa concezione significa trascurare che il sintomo, malgrado generi sofferenza, è anche una fonte di godimento, godimento al quale il soggetto tiene. Una volta chiarito il sintomo sul piano significante (decifrazione), il soggetto non abbandona la parte di godimento che ne trae: è questa parte che Lacan cerca di cogliere nella sua seconda concezione del sintomo. Questa concezione rinvia all’idea di un sintomo-partner, nel senso che il soggetto si garantisce un godimento facendo del proprio sintomo un partner sul quale potrà contare in modo continuativo. Se il sintomo è partner del soggetto, possiamo dire che in psicoanalisi ci sono solo trattamenti sintomatici, quindi il soggetto ha un partner dall’inizio alla fine dell’esperienza analitica; questa esperienza ha di mira un reale al di là del senso. Pertanto non bisogna far proliferare il sintomo con aggiunte di senso, o attraverso un uso selvaggio dell’interpretazione che blocca il lavoro.
Nel Seminario RSI, che viene subito dopo La terza, Lacan persiste nel dire che nutrendo di senso il sintomo non si fa che dargli continuità di sussistenza. In una frase importante, perché tratta del punto di mira della cura, per esempio dice: «è in quanto qualcosa del simbolico è delimitato da ciò che ho chiamato il gioco di parole, l’equivoco che comporta l’abolizione del senso, che tutto quel che concerne il godimento e in particolare il godimento fallico, può parimenti delimitarsi». Il sapere inconscio, che non è un sapere costituito come chiuso, attraverso l’intervento analitico prevale sul sintomo, quindi non partecipa di ulteriore senso, ma di chiusura.
Ho scelto di entrare ne La terza attraverso la concezione del sintomo, che mi sembra quel che il soggetto ha di più reale, per avanzare sulla mira nella cura analitica, dicendo come sia dalla parte di una riduzione del senso e di una stretta sul godimento fallico.
La cornucopia del sintomo
Per cogliere la nuova concezione del reale e del sintomo nell’insegnamento di Lacan prendiamo in parallelo La terza e il Seminario RSI, che sono distanziati da un breve lasso di tempo.
Per capire mettiamo in alto l’anello dell’immaginario, perché in altre lezioni di Lacan il nodo gira e ciò cambia la prospettiva. Lacan mette dal lato dell’Immaginario il corpo, dal lato del Reale la vita, dal lato del Simbolico la morte, e al centro l’a minuscola. Quando Lacan dice che il sintomo è ciò che il soggetto ha di più reale, situa il sintomo da quel lato tratteggiato, che rappresenta il morso del simbolico sul reale.
In RSI la posizione del sintomo cambia, il sintomo non è più il Simbolico che morde sul Reale ma emana dal Reale e partecipa dell’organizzazione del Simbolico. Il sintomo non si sviluppa più nel campo del Simbolico ma nel campo del Reale.
Bisogna partire dalla topologia e pensare che quel che Lacan chiama “essere” è nell’annodamento dei tre anelli. Prima de La terza, negli anni ‘50-’60, il sintomo cedeva attraverso la decifrazione, il fatto di dargli senso. In questo primo schema vediamo che il sintomo è il modo in cui il Simbolico morde sul Reale, mentre in RSI il sintomo viene dal Reale e organizza il Simbolico. A partire da questo spostamento, ciò che rileva non è il senso ma il fuori senso.
In primo luogo, il cambiamento riguarda la posizione del sintomo. Lacan situa il senso in posizione opposta alla vita, piuttosto la vita è dal lato del fuori senso. Abbiamo il corpo in posizione opposta al godimento fallico, perché il rapporto sessuale non esiste. Lacan colloca in opposizione alla morte il godimento dell’Altro. In fondo, si tratta di sottrarre a ognuno di questi godimenti l’oggetto a. Quindi l’analista si fa sembiante di oggetto a per cogliere il godimento. La vita è in opposizione al senso, il godimento fallico è opposto al corpo, il godimento dell’Altro è in opposizione con il Simbolico e testimonia che non c’è Altro dell’Altro.
Si tratta di capire come in ogni posizione l’oggetto a sia da sottrarre alla posizione di godimento. Per Lacan, l’operazione analitica mira a ridurre il senso perché il soggetto sia più vicino al suo essere. La psicoanalisi avrebbe potuto prendere la via della guarigione dei sintomi e del loro senso, ma ha fatto la scelta di prendere il sintomo come segno di un modo particolare di godimento.
Lacan dirà che il solo fatto di mettersi a parlare implica già una formazione sintomatica. La posta in gioco è conservare il reale del godimento attraverso la funzione del sintomo, in quanto scrittura di godimento che non è completamente assunta dalla parola. Lacan precisa che «il sintomo è qualcosa che prima di tutto non cessa di scriversi nel reale». E in RSI: «c’è coerenza tra il sintomo e l’inconscio. Definisco il sintomo attraverso il modo in cui ciascuno gode dell’inconscio, in quanto l’inconscio lo determina».
Verso un corpo parlante
Dopo il cogito cartesiano, dopo il passaggio dal soggetto dell’inconscio al parlessere, facendo un ponte con i temi del prossimo Congresso di Rio, andiamo alla nozione di “corpo parlante” presente ne La terza.
Lacan introduce la nozione di “corpo parlante” nel momento stesso in cui inserisce il nodo borromeo nel suo insegnamento.
Mentre prima si trattava di un corpo “parlato”, ora ciò che chiama il mistero del corpo “parlante” è il reale del nodo, della scrittura nodale. È chiamato “parlante” il corpo, e non più il soggetto.
Nella concezione strutturale di Lacan il corpo è l’immaginario, in quanto lo cogliamo come forma, lo valutiamo nella sua apparenza e lo adoriamo come immagine. Nella nevrosi l’uomo crede di avere un corpo da adorare. Questa credenza è quel che Lacan colloca alla radice dell’immaginario. Nel seminario Il sinthomo parla di “mentalità”. Il parlessere ha una mentalità, vale a dire dell’amor proprio. Senza questa consistenza mentale del corpo niente terrebbe insieme il parlare a vuoto e il reale del godimento. Ma non c’è solo il corpo in quanto si immagina, c’è anche il corpo che gode di se stesso, giacché si gode: luogo di un godimento opaco perché tocca il reale che, come tale, lo esclude dal senso. Questo godimento è quello del sintomo, che Lacan definisce come evento di corpo.
Il corpo, quindi, partecipa dell’Immaginario e del Reale, «due luoghi della vita che la scienza separa». Ma c’è anche il corpo che rileva del simbolico in quanto simbolizza l’Altro. La tesi risale al seminario La logica del fantasma dove, nella lezione del 10 maggio 1967, l’Altro viene così ridefinito: «Mi son lasciato dire per un tempo che camuffavo sotto questo luogo dell’Altro quello che si chiama gentilmente lo Spirito. La cosa noiosa è che è falso. L’Altro, alla fin fine non l’avete ancora indovinato, è il corpo». L’Altro è il corpo. Nel ‘67 Lacan completa questa tesi ne Il rovescio della psicoanalisi con la domanda: «Cosa è che ha un corpo e non esiste? risposta: l’Altro maiuscolo. Se ci crediamo a questo grande Altro, esso ha un corpo ineliminabile dalla sussistenza che ha detto Sono quel che sono che è tutt’un’ altra tautologia». Il problema è che corpo e godimento si escludono strutturalmente, si escludono attraverso l’incorporazione primordiale, quella del corpo simbolico nel corpo primario, nel corpo organismo. Quest’incorporazione fa sì che l’Altro sia deserto di godimento. Dal momento in cui entriamo nel linguaggio l’Altro come corpo è terrapieno ripulito dal godimento. L’Altro prende corpo, si immerge nel soma al tempo stesso in cui la carne evapora, come nel primo giorno della genesi.
Tuttavia perché vi siano effetti di parola bisogna che l’Altro, cioè il simbolico, costituisca un nodo con l’immaginario e il reale; ciò non impedisce che si vorrebbe godere del corpo dell’Altro, e che ci piacerebbe anche farlo godere, soprattutto quando ci si dà al corpo a corpo. Perché questo godimento del corpo dell’Altro, che si sia uomo o donna, si cerca, lo si suppone, vi si aspira, vi si corre dietro quando si è nella stretta, e vi è una topologia della compattezza, come Lacan spiega all’inizio di Ancora. Gli uni e gli altri corrono dietro a un godimento dell’Altro, causato dal superio, «spinta a godere» che la rilancia e che ne respinge il punto d’arrivo all’infinito. Nella stretta, lo spazio del godimento sessuale mobilita nei partner sessuali la presenza dell’Altro, ove ciascuno aspira a raggiungerlo per godere del corpo che simbolizza, in una corsa dove il superio gioca la propria partita. Infatti, è dal superio che viene l’esigenza dell’infinitezza, l’esistenza di un rapporto sessuale.
Così il godimento del corpo, e dell’Altro che lo simbolizza, resta per ciascuno dei partner inaccessibile. Questo non vuol dire che nessun godimento sia accessibile. Ci sono dei godimenti ai quali ciascuno dei partner ha accesso: godimenti accessibili che vengono come supplenza al rapporto sessuale che non c’è. Quelli che suppliscono, per l’uomo, sono il godimento dell’oggetto del fantasma e il godimento fallico. Il godimento dell’oggetto a è asessuato. Il fantasma fa godere dell’a-sessuato. Questo godimento sostitutivo di quello dell’Altro Lacan lo chiama, in Ancora, «il godimento dell’essere», dell’essere della significanza. Il godimento fallico è il godimento dell’Uno fallico, la cui serie è infinita ma limitata, arrestata dalla castrazione di cui il Φ scrive il limite. Questo godimento dell’Uno è anche quello proprio dell’inconscio. Anche per una donna sono accessibili questi due godimenti, dell’a e del Φ, dell’essere e dell’Uno. Ma per lei è accessibile, ancora, un altro godimento in più, supplementare, che si apre sulla beanza dell’S(A), il godimento del -1, dove è come uno in meno che ella gode.
Se il sintomo ha un involucro formale è anche una parte di noi stessi, un «evento di corpo». L’incontro che Lacan chiama traumatico, giocando sulle parole buco (trou) e traumatico, s’impone come un «para-angoscia» nella nostra modernità, ovvero un modo di rispondere dal proprio posto singolare al godimento tutto, alla tirannia del «tutto». Sulla questione del sintomo e della modernità, Eric Laurent afferma: «Per questa parte di corpo che posso riconoscere come mia, ho accesso al significante dell’Altro in me, a questo messaggio venuto da altrove. Quando sono di fronte all’Altro, l’Altro non è esterno a me, egli è in me. Sono l’Altro che è là. Questo accesso stesso lo possiamo designare come la credenza del soggetto al sintomo. La prova attraverso il sintomo è che esso dà accesso all’inconscio come modo di godere».
L’ultimo insegnamento di Lacan con lalangue e il parlessere decide sulla questione freudiana della divisione (Spaltung). È un rovesciamento di prospettiva dove il reale del godimento è posto innanzitutto nella singolarità in cui si intrecciano il vivente e il verbo.
Conclusione
Come dice Jacques-Alain Miller, il parlessere è un «indice di quel che cambia nella psicoanalisi del XXI secolo, quando essa deve prendere in conto un altro ordine simbolico e un altro reale rispetto a quello sul quale vi era stabilità». Il sinthomo ha tradotto lo spostamento dal sintomo dell’inconscio al parlessere. Nell’introduzione al Congresso di Rio, Jacques-Alain Miller dice: «il sintomo come formazione dell’inconscio strutturato come un linguaggio, è una metafora, un effetto di senso, indotto dalla sostituzione di un significante a un altro. In compenso il sinthomo di un parlessere è un evento di corpo, un affioramento di godimento».
Con il proprio sintomo, ovvero il modo singolare di fare del bricolage con l’incurabile del reale, ciascuno dei creatori (artisti, analisti e analizzanti) vuole arrampicarsi sullo sgabello dell’opera, ossia fare del proprio sintomo uno sgabello per mettere in luce il godimento opaco del sintomo; «il godimento proprio del sintomo esclude il senso». Nel ’75 Lacan inventa questa parola, “sgabello”, “S.K.beau”: un gioco di parole in francese, che scrive come costruita da “S”, “K” e “beau” (bello), per qualificare l’estetica di James Joyce. “S.K.beau” è riutilizzato qui, ci dice Castanet, «con la sua tipografia stupefacente per mettere a nudo il reale con il quale l’artista si confronta che le possibili sublimazioni velano. Al cuore del bello (del vero, del buono, del perfetto, del sublime...) ci sarà sempre questo S.K. enigmatico fuori senso». Che cos’è questo sgabello psicoanalitico, se così possiamo chiamarlo, Jacques-Alain Miller ne parla ne L’inconscio e il corpo parlante: «ciò su cui si issa il parlessere, sale per farsi bello. È il suo piedistallo che gli permette di innalzarsi egli stesso alla dignità della Cosa. (…) Lo sgabello è un concetto trasversale, traduce in modo immaginifico la sublimazione freudiana, ma al suo incrocio con il narcisismo. (…) Lo sgabello è la sublimazione ma in quanto fondata sul non penso del parlessere. Cosa è questo non penso? È la negazione dell’inconscio attraverso cui il parlessere si crede padrone del proprio essere. Con il suo sgabello si crede un padrone bello. Quel che chiamiamo la cultura non è altro che la riserva di sgabelli dove attingiamo quello con cui ci pavoneggiamo e facciamo i gloriosi».
Lo sgabello permette l’accesso a una bellezza ineguagliata che prendendo il reale nel proprio solco mira a un al di là. Antigone potrebbe esserne una figura e una metafora. Perché se Antigone affascina per il suo desiderio, ella affascina soprattutto per lo sfolgorio di bellezza che lascia come scia. Antigone rende effettivamente presente questo limite estremo e superato del Bello, che Sade aveva isolato nella forma del dolore mortale e che Lacan aveva tradotto come «seconda morte». In questa zona della morte il raggio del desiderio si riflette, si rifrange, e dà questo effetto così particolare, l’effetto del bello sul desiderio. Laddove il significante manca per dire La donna, Antigone non trae il proprio sfolgorio che da un superamento ai limiti del senso. Lacan dice nel Seminario VII: «il miraggio della bellezza indica il posto del desiderio in quanto desiderio di niente, rapporto dell’uomo con la propria mancanza a essere». Siamo all’opposto della completezza del sapere e dell’essere. Così, la clinica del parlessere dà alla cura analitica la sua dimensione d’esperienza inventiva. L’incidenza clinica è nota, la clinica lacaniana del parlessere determina un’esperienza che apre per ogni soggetto a un’etica della responsabilità del suo modo singolare di godimento. Jacques-Alain Miller dice: «una volta rovesciati gli sgabelli, bruciati, resta ancora al parlessere analizzato di dimostrare il proprio saperci fare con il reale, la sua capacità di farne un oggetto d’arte, il suo saper dire e il suo saperlo dire bene».
Trascrizione e traduzione: Anna Castallo
Redazione: Giuseppe Perfetto
Trascrizione e traduzione: Anna Castallo
Redazione: Giuseppe Perfetto
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