LA TERZA
«La Terza ritorna sempre alla
prima», dice Lacan. “La prima” è un discorso, è il Discorso di Roma. La Terza è una lettura. Nel testo,
Lacan, insiste dicendo che questa Terza lui la legge e cerca di portarci
ad un certo livello, un livello che sia al di qua di tutti i sensi possibili
del discorso… motivo per cui, giocando sul francese, dice ourdrome. Fa lavorare il linguaggio
contro il linguaggio per far emergere un’altra dimensione, quella della
lettera, dimensione che permetterebbe la scrittura del discorso, o un discorso
che sarebbe del reale. Un desiderio di Lacan era produrre un discorso che non
sarebbe di parvenza. Dunque, un discorso che produce un’effrazione, per questo
quando leggete il testo de La Terza vi prende per il bavero, non
accompagna il lettore. Occorre che qualcosa si gratti via dal linguaggio per
produrre lalangue come resto.
Jacques-Alain Miller ha scritto Nota
di ago e filo, che accompagna il seminario XXIII di Lacan, dove
afferma che quel che si apre nel novembre del 1974 costituisce un ritorno sul
proprio tentativo, una messa in questione della psicoanalisi di una profondità
senza pari; ciò è ampiamente non percepito per via della cura che Lacan ha
messo nel sottrarre all’ascoltatore la portata del suo discorso, un discorso
che porta in sé delle virtualità esplosive. Miller conclude dicendo che non ci
si può impedire di pensare che l’ultimo insegnamento di Lacan sia dello stesso
registro di quel che le scuole antiche riservavano all’insegnamento esoterico.
Nell’insieme dell’insegnamento di Lacan c’è la preoccupazione di presentare le
cose in un modo che non siano immediatamente accessibili, che non si capiscano
troppo in fretta: quando si capisce in fretta si capisce male. In La Terza il tentativo di mascherare
quello che vuole dire è moltiplicato, ed è di una particolare densità.
La Terza e l’ultima parte
dell’insegnamento di Lacan sono qualcosa che stiamo scoprendo ora, man mano. Non
penso che si possa dire di essere nella pratica già immersi in quest’ultimo
insegnamento di Lacan.
La Terza non era una
conferenza che si rivolgeva ad un grande pubblico, come invece fu una
contemporanea intervista rilasciata ai giornalisti. La Terza si rivolge
ai membri della sua Scuola, si tratta dell’intervento al VII Congresso di
quella che al tempo si chiamava l’École Freudienne de Paris. È “la terza” volta
che Lacan prende parola a Roma, vent’anni dopo aver pronunciato il primo
discorso.
Nel 2001, per France Culture, in
occasione del centenario della nascita di Lacan, Miller ha scritto un breve
testo. Introducendo Funzione e campo della parola e del linguaggio in
psicoanalisi Miller fa valere due idee forti. La prima è che l’inconscio è
strutturato come un linguaggio. Ciascuno riceve dall’Altro (che è un partner
intimo, sconosciuto, senza volto) un discorso che lo agita in seno alla propria
identità. È una messa in causa del cogito:
il soggetto che pensa non può più dire “penso dunque sono” perché è il discorso
dell’Altro, di questo partner intimo che si sviluppa nei sogni e nei sintomi.
La seconda idea è che l’azione psicoanalitica riposa sulla parola: la parola
dell’analizzante che domanda e che evoca nel presente senza preoccuparsi
dell’esattezza del proprio dire, e la parola dell’analista che dev’essere rara,
che scandisce e interpreta. Miller nota l’entusiasmo che c’è per Lacan: «Nel
1953 mette la parola, il linguaggio, al cuore della psicoanalisi. Definire a
partire da questo la dimensione del soggetto è un fulmine a ciel sereno.
L’accoglienza fatta a questo testo è entusiastica». È l’epoca in cui quando si
parlava di psicoanalisi si poteva fare una conferenza in un teatro e avere un
pubblico di trecento persone. «E Lacan è raggiante di ottimismo. Sente che si
può dar fiato ad una teoria che è rimasta un po’ stagnante dopo la morte di
Freud, dare di nuovo respiro a una pratica i cui effetti cominciano a
smorzarsi».
Il secondo intervento di Lacan a
Roma, del 1967, ha un tono inverso, il titolo lo dice a sufficienza: La
psicoanalisi, ragioni di uno scacco. Lacan sente di essere solo. Sente che
gli psicoanalisti vogliono rientrare nei ranghi, abbandonare la dimensione
sovversiva da lui promossa e, secondo il principio dell’omeostasi, ritrovare il
comfort della routine. Lacan fa la cupa previsione che gli psicoanalisti si
arrenderanno di fronte ai diversi vicoli ciechi della civiltà. L’anno seguente
sarà il 1968, l’anno della rivolta dei giovani e Miller individua in Lacan
delle ragioni di speranza in questa rivolta, ciò lo incoraggerà a perseverare.
Per la terza volta a Roma,
citando Miller: «L’allegro vegliardo, che ormai ha 73 anni, porta qualcosa di
nuovo, sospirando. Lo sviluppo dell’argomentazione è difficile per gli
specialisti stessi. Non si tratta di capire tutto, è impossibile, ma non si
tratta neppure di rinunciare a comprendere. Bisogna fare uno sforzo per
accogliere un pensiero originale, sorprendente, unico, che ha segnato il XX
secolo, pur restando ancora ampiamente da scoprire e da decifrare».
Dopo il 2001, quando cioè Miller
ha scritto questo testo, si è iniziato a scoprire e a decifrare il testo de La
Terza, e la pubblicazione del seminario XXIII ha aiutato a lavorare
su di esso.
Se il primo discorso di Lacan a
Roma mette al centro della psicoanalisi un dire che verte sulla parola e sul
linguaggio, La Terza è una lettura che ha di mira la lalangue e il corpo a partire da una
scrittura, la scrittura del nodo borromeo.
Il nodo compare nell’insegnamento
di Lacan nella lezione del 9 febbraio del 1972, ed è a proposito dell’amore che
si presenta. Lacan commenta una frase che presenta come la vera lettera
d’amore. Scrive “amur”, “amore” senza la “o”, giocando sulla risonanza tra
“amore” e “muro” per far apparire la sonorità del muro in questa parola:
nell’amore c’è sempre un problema di muro… come sperimentiamo tutti ogni
giorno. Nella frase ci sono tre termini che girano intorno a un buco. La frase
è: “Ti domando di rifiutare quel che ti offro perché non è questo”. Ci sono la
domanda, il rifiuto, l’offerta. Il buco è reso in immagine dall’interiezione
“non è questo”. L’amore presuppone la simultaneità dei tre termini per fissare
qualcosa che altrimenti sarebbe solo finzione. Per Lacan tale triplicità
attorno ad un buco è quel che fonda il discorso dell’analizzante, e aggiunge
che nell’analisi trascurare questa domanda di rifiuto di quello che è offerto
rende la domanda soltanto più pregnante e insistente. Nel discorso
dell’analizzante quel che si domanda è di riconoscere che quel che si domanda non
è questo. Il discorso dell’analizzante gira intorno al “non è questo”. A
partire da tali considerazioni, il nodo fa la sua apparizione nelle pagine
90-91 del seminario XIX: «Proprio perché la questione che si pone per
noi non è di sapere quello che ne è del “non è questo” che sarebbe in gioco in
ciascuno di questi livelli verbali, la questione è che noi dobbiamo
accorgerci che occorre snodare ciascuno
di questi verbi dal proprio nodo, snodarli dagli altri due ed è così che
possiamo trovare quello che ne è di questo effetto di senso che chiamo oggetto a». Non si tratta di
comprendere bensì di estrarre. Lacan sottolinea che i tre elementi vanno
insieme, non ci possono essere offerta e domanda senza il rifiuto, la stessa
cosa vale per le altre combinazioni. La posta in gioco nel nodo è quest’oggetto
di desiderio non condivisibile, quello che chiama “non è questo”, l’oggetto a.
Motivo per cui, due pagine più avanti, sottolinea che la radice dell’oggetto a
è che non riguarda mai due soltanto, ce ne vogliono tre perché nell’offerta
d’amore ci sia un muro. C’è un impossibile, un insuperabile che dev’essere un
dono. Lacan prosegue, a pagina 91: «Mi interrogavo, ieri sera, sul modo in cui
vi avrei presentato quest’oggi la mia geometria tetradica. Mi è successa una cosa
strana cenando con un’incantevole persona che segue i corsi di monsieur
Guilbaud, il matematico. Mi è arrivato, come un anello al dito [locuzione
francese accostabile all’italiano “come cacio sui maccheroni”], qualcosa che
voglio mostrarvi. Qualcosa che è niente meno che lo stemma araldico dei
Borromeo». Questa breve sequenza dà un’idea di come lavora Lacan: prende tutto
quello che c’è, anche qualora lì in modo contingente, e l’evento accidentale
può produrre la scoperta… potremmo dire che Lacan lavora per serendipity. È a
partire dal dono d’amore, impossibile, di quel che non si può scrivere del
rapporto sessuale, che Lacan scopre, o piuttosto capita, sulla scrittura del
nodo borromeo. Il nodo apparirà ancora nel capitolo 10 del seminario Ancora,
ma sarà soprattutto nel testo de La Terza che è messo al centro. Questo
testo introduce gli sviluppi che si troveranno nel seminario RSI, che
Lacan pronuncia nello stesso anno, 1974-75, sviluppi che culmineranno nel
seminario Il Sinthomo.
La formula con cui inizia La
Terza è: Je pense, donc Se jouit. Una variazione rispetto
all’apoftegma di Cartesio. Nella conferenza di Lacan, il punto di partenza è il
corpo, tutto il corpo. Non è soltanto il corpo speculare in due dimensioni, ma
il corpo definito in quanto “si gode”. Con la formula “il corpo che si gode”
Lacan mostra l’impasse che il godimento fa per il soggetto che abita questo
corpo: in fondo, il corpo si gode da solo senza passare per la soggettività.
Lacan fa l’esempio del gatto che fa le fusa: «le fusa del gatto sembrano essere
di tutto il corpo», e sembra sottintendere che è a partire da tutto il corpo
che gode facendo le fusa. Notiamo che per l’essere parlante si tratta di un
godimento speciale, non è soltanto il godimento delle fusa del gatto, è un godimento
che è reimpastato ne lalangue, un
godimento che si deposita ne lalangue
mortificandola, cosa che fa sì che lalangue
«si presenti come un legno morto». Mi sembra che si possa definire lalangue come linguaggio lavorato dal
linguaggio, che dà un resto che è fatto di questo godimento del linguaggio,
godimento del linguaggio che veicola la morte del segno.
Lacan sovverte il cogito cartesiano e propone la formula
“Penso dunque si gode” al posto di “Penso dunque sono”. La certezza del “Io sono” è rigettata, nel senso della
preclusione, cioè ritorna nel reale, nel reale del corpo. Quel che è rigettato
dal “sono” fa ritorno nel reale del corpo dove c’è qualcosa che “si
gode” indipendentemente dal soggetto che abita questo corpo. È qualcosa che si
gode ma che mi è completamente estraneo, che occorre che io situi, che io
attribuisca. Per cogliere il valore del cogito
cartesiano bisogna fare un passo indietro e sottolineare che prima che il cogito sia posto, quindi prima di
Cartesio, il mondo non è un mondo rappresentato da e per il soggetto, ma è un
mondo creato da e per il creatore. È una difficoltà particolare pensare il
mondo quando era pensato in un ordine d’idee completamente diverso. È
importante cogliere come il punto di svolta che situa il cogito cartesiano cambia, come una vertigine della
rappresentazione, il modo in cui rappresentiamo il mondo. Perché possa
affiorare il cogito occorre mettere
in dubbio ogni rappresentazione. Nell’ultimo corso del 2011, Jacques-Alain
Miller parla di questo dubbio come di un terrore. Non è come il dubbio
ossessivo, “Ci sono o non ci sono davvero”, ma Miller dice, a proposito della
nascita del soggetto del cogito, «è il terrore che esercita al
soggetto che emerge come sola istanza che resiste alla sospensione di ogni
rappresentazione». Il soggetto è terrorizzato all’idea di essere il solo a
tenersi in piedi in un mondo dove ogni rappresentazione è messa fuori gioco,
svuotata di reale. Tutto quello che è la rappresentazione che ci si fa del
mondo è solo ombre e riflessi, quindi la vita è un sogno, e tutto si riduce a
sogno o incubo. Ne La Terza, Lacan dice del pensiero: «sono soltanto
parole che introducono nel corpo rappresentazioni imbecilli». È una formula che
fa ben risuonare il carattere fittizio della rappresentazione. Attraverso
l’operazione del cogito il mondo è
convertito, trasformato in rappresentazione, ma allo stesso tempo è rifiutato,
squalificato come finzione linguistica. La questione che si pone è come fare
congiuntura fra rappresentazione, tra queste finzioni del dire, e il reale. Il cogito da solo non può garantire tale
congiunzione fra la rappresentazione con il suo carattere fittizio e il reale,
perché, in fondo, il cogito è una
funzione istantanea, effimera, e dipende dal discordo nel quale emerge. La
soluzione di Cartesio sarà quella di porre Dio come istanza che opera questa
congiunzione, ed è a Dio che sarà attribuita la funzione di operare il
passaggio dalla rappresentazione al reale. Dio è un Altro maiuscolo, non è un
Altro supposto sapere bensì è un Altro supposto dire la verità. A proposito di
Dio, si ritrova ne La Terza un tono ironico: Dio, quello che sarebbe il
Verbo, «Cartesio non si sbaglia. Dice: Dio è il dire. Vede bene che Dieure [Lacan forma un neologismo condensando la parola “Dio/Dieu” e “dire/dire”] è quello che fa essere la
verità». Basta dire per creare degli esseri, che in fondo sono solo esseri di
finzione. Basta dire per dire la verità, perché la verità è fondamentalmente
mentitrice per quanto riguarda il reale, è la formula che dice che la verità ha
struttura di finzione. È come se Lacan dicesse a proposito del suo primo
discorso a Roma: “parole, parole”, ed è così che questo primo discorso ritorna
ne La Terza nella forma del “disco che gira”: è quel che resta dopo aver
parlato e che ritorna allo stesso posto. È la prima definizione del Reale in
Lacan. Il Reale è quello che ritorna sempre allo stesso posto. Il reale esiste
nell’esperienza analitica come escluso, ed è per questo che Lacan lo scrive in
due parole spezzando ex-siste. Il reale è escluso a favore della dialettica,
che invece permette degli spostamenti, quindi “parole, parole”. Nel suo primo
insegnamento, Lacan da queste “parole, parole” si aspetta degli effetti reali,
ma, fondamentalmente, l’associazione libera lascia fuori il reale perché
esclude elementi restii al cambiamento. Quel che ci si aspetta
dall’associazione libera è che cambi qualcosa. L’applicazione dell’associazione
libera, all’inizio della cura, è un modo di far dimenticare all’analizzante che
nell’analisi si tratta solo di parole e non di reale. Proprio di questo reale ci si prende gioco ne
La Terza. Ci si prende gioco nel senso dell’ironia di questo reale che
torna sempre allo stesso posto. Le speranze riposte nella dialettica cadono di
fronte al reale, che è fondamentalmente la dimensione del girare a vuoto e che
fa sì che le parole siano impregnate di stupidità.
Ma in questa conferenza Lacan
aggiunge qualcosa in più. In fondo, si tratta solo di girare a vuoto, di fare
le fusa, vale a dire che parlando si gode: qui reintroduce il corpo al di là
del suo statuto immaginario. Lacan cerca di uscire dal discorso corrente, cosa
che scriveva già l’anno precedente con la parola “disco” giocando sull’omofonia tra il “discorso” corrente ed il
“disco” che gira. È fedele a quel che cerca di far capire nel testo, cioè che
nel discorso corrente c’è un disco e questo è appeso. Non è una battuta di
spirito. Nel seminario Ancora dichiara: «Se non ci fosse il discorso
analitico continuereste a parlare come degli stornelli, continuereste a far
girare il disco, e questo disco gira perché non c’è rapporto sessuale che si
possa scrivere». Il discorso corrente gira intorno al punto “non è questo”.
All’inizio c’è il non-rapporto che dà un indice di reale. Lacan dice che
Cartesio non esce da questo girar a vuoto, è prigioniero di questo suo
discorso, «dell’inserimento nel discorso in cui è nato», il discorso del
padrone. Lacan cerca di costituire un altro sapere, e dice che «è uso che
all’epoca di Cartesio» il sapere si costituisca a partire dal discorso del
padrone... come se oggi le cose fossero differenti, in fondo anche oggi c’è lo
stesso uso: il sapere ancora si costituisce a partire dal discorso del padrone.
Mi sembra che Lacan sia un po’ meno certo per quello che concerne la nostra
epoca perché, una pagina più avanti, evoca l’idea che non si sente in grado di
prevedere «il vento che gonfia le vele alla nostra epoca», che non vi sarebbe
più un discorso del padrone che costituisce il sapere come tale. È da un altro
discorso, il discorso dell’analista, che si ha la possibilità di costituire un
altro sapere. I termini simbolico, immaginario e reale hanno senso solo
attraverso e per questo discorso. Se il reale è quello che torna sempre allo
stesso posto è proprio verso questo posto che va a dirigersi l’attenzione
dell’analista, e man mano anche dell’analizzante. Accade che il reale che
ritorna mette a nudo questo posto della parvenza, la scopre, toglie il velo. È
esattamente il posto che Lacan assegna all’analista, posto che situa
all’intersezione dei tre registri, ove scrive a minuscola. Lacan invita a mostrare la parvenza a essere
l’oggetto causa del desiderio. Detto altrimenti, Lacan propone che l’analista
si costituisca come punto d’attrazione del discorso analizzante, e questo lo fa
occupando la parvenza dell’oggetto causa. Ciò implica per l’analista lasciare
l’oggetto, Lacan dice «di offrirlo come causa del proprio desiderio al vostro
analizzante». Dunque, il desiderio è il desiderio dell’analizzante e non
dell’analista. Offrire l’oggetto del desiderio dell’analizzante
all’analizzante. Ma questo presuppone da parte dell’analista di lasciare
qualcosa. È un’indicazione preziosa… è quindi inutile fare il brillante,
strafare, pavoneggiarsi. Semplicemente si tratta di prendere atto che non c’è un
solo discorso che non sia animato dalla parvenza. Il discorso analitico non
sfugge alla dimensione che ciò che anima il discorso è la parvenza, però con il
fatto che nel discorso analitico l’analista si fa lo zimbello, l’esca, della
parvenza. Se c’è posizione particolare dell’analista come zimbello della
parvenza, i tre registri possono operare in modo efficace nella parola e
attraverso la parola. Lacan cerca di porre in evidenza che l’analista parla da
un certo posto, posto che implica che abbia lui stesso lasciato qualcosa.
Lacan sposta i concetti rispetto
a quello che era il suo insegnamento precedente, è quel che fa nel corso di
tutto il suo insegnamento, ed è perché abbiamo la lettura di Miller che
possiamo cogliere tali gli spostamenti. Lacan realizza questi spostamenti con
molta sottigliezza, non va mai a sottolineare dei punti di rottura ma presenta
il movimento del suo insegnamento come una trasformazione topologica senza
discontinuità, per esempio con la logica di gomma che presenta a proposito del piccolo Hans. Alla fine di Sovversione
del soggetto e dialettica del desiderio dice che «è inaccettabile
che ci si imputi di avere di mira una riduzione puramente dialettica
dell’essere», rispetto al primo insegnamento c’è qualcosa che conduce proprio a
ciò: con La Terza siamo alla svolta già introdotta dal seminario XX,
e situata per l’esattezza da Miller nell’ottava lezione, dove Lacan dice che
«rinuncia all’ontologia a favore del reale». La frase citata degli Scritti
è del ’64, qui siamo nel ‘69. La rinuncia all’ontologia per un’ontica del
godimento è il movimento dell’ultimo insegnamento di Lacan. C’è un passaggio
dall’ontologia all’ontica, dalla dimensione dell’essere a quella
dell’esistenza, e questo passaggio costituisce la trama di fondo che Miller ha
dato all’ultimo Corso dell’orientamento lacaniano, nel 2011, che inizialmente
aveva chiamato “Opere di Lacan” per poi rinominarlo “L’essere e l’Uno”.
Per leggere La Terza è
utile mettere le cose come le pone Miller nella sesta lezione del suo Corso, lezione
che riguarda il corpo, il significante e l’oggetto a. Questa lezione comincia con quella che potremmo dire la
confessione da parte di Miller: dichiara che va a regolare i conti con Lacan,
conti che aveva in sospeso con lui da almeno vent’anni. Si tratta del rifiuto
da parte di Miller, già al tempo del seminario I quattro concetti
fondamentali della psicoanalisi, di un’ontologia di Lacan. Miller dimostra
che Lacan nel suo primo insegnamento ha sovrapposto l’inconscio e l’Es,
riducendo l’Es nell’inconscio. Nell’insegnamento di Lacan è il momento in cui
tutto può essere creato dal simbolico. Miller sostiene come negli Scritti
ci sia «l’atmosfera di un mondo senza reale», è il mondo del significante
retorico. In questa prospettiva anche la pulsione è ridotta ad essere una
parola, ed è così che possiamo capire la formula con cui scrive la pulsione: $◊D
[S barrato losanga di D]. Nella formula c’è qualcosa della domanda che spinge.
Nella sua prima fase di insegnamento, la pulsione è una domanda, domanda silenziosa
ma che trova espressione nel linguaggio. Tuttavia nel testo La scienza e la
verità, alla fine degli Scritti, Lacan rifiuta la dimensione del ça
parle della pulsione e rimanda quest’espressione piuttosto dal lato della
magia, senza con ciò disprezzare la magia… è una vera questione che si pone:
che ci sia un’effettività nella magia. S’interroga sull’efficacia dello
sciamano, e questo entra in risonanza quando guardiamo il percorso nei seguenti
vent’anni. Egli indica che l’effettività dello sciamano è relativa alla messa
in gioco del suo corpo e che offre al soggetto un punto di riferimento sul
proprio corpo. Mi sembra che ci sia una prossimità fra la formula relativa allo
sciamano in La scienza e la verità con l’espressione che si trova ne La
Terza dove Lacan invita ad offrire all’analizzante l’oggetto a di cui
l’analista si libera, per questo ho parlato di amputazione per indicare che è
qualcosa che ha a che fare con il corpo. Restando sugli Scritti: Lacan
può formulare che questo testo non ha niente a che vedere con la psicoanalisi.
Miller nota che Lacan può dire che non ha niente a che fare con la psicoanalisi
perché a quell’epoca il soggetto della psicoanalisi non ha corpo. In tutto il
primo movimento dell’insegnamento di Lacan il soggetto è un soggetto senza
corpo, allo stesso modo in cui chiama in gioco il soggetto della scienza. In
quel momento, l’efficacia della psicoanalisi è situata da Lacan a partire da
un’altra causa materiale, una causa materiale diversa dal corpo che è il
significante. Ma già appare alla fine degli Scritti, in La scienza e
la verità, un primo spostamento. Il significante di cui parla in La
scienza e la verità è un significante nuovo rispetto a quello di Funzione
e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi. Non è più il
significante retorico de L’istanza della lettera. Il significante
retorico è quello che distingue il significante dal significato, ed è questo
rapporto che permette di creare degli effetti di senso, ed è da questa
divisione tra significante e significato che Lacan deduce degli effetti di
metafora e metonimia, la metafora come aggiunta di senso che determina il
sintomo come portatore di verità (il sintomo è una metafora), mentre nella
metonimia il senso corre sotto il significante e determina il desiderio. Nel
primo movimento dell’insegnamento di Lacan, dissolvere il sintomo è restituire
il soggetto a questa corsa del desiderio, la metonimia significante del
desiderio. Ma Miller nota che alla fine degli Scritti lo statuto del
significante è nuovo, è separato dal senso. Il significante non è più quello
connesso con un senso, non è più nel rapporto significante-significato, ma è
solo correlato con un altro significante. La coppia S1 e S2
avvicina il significante ad un oggetto matematico.
Nella spostamento dal primo al
secondo insegnamento, lungo la traiettoria che ci porta a La Terza, c’è
qualcosa che ci avvicina al reale. L’S1 che si trova ne La Terza
non è il significante retorico, non dipende dal rapporto tra significante e
significato, ma non è neppure il significante matematico. Il significante ne La
Terza ha ancora un altro statuto, che è preparato dal movimento precedente.
Ne La Terza è davvero un S1 da solo. S1 staccato da ogni
effetto di senso, intendo cioè staccato da S2. Un significante da
solo, staccato dall’articolazione che faceva sgorgare il senso, staccato dalla
produzione della catena significante che «vomitava» il senso e gli effetti di
verità. Dice «vomitare» perché tutto questo è solo bla bla. Quel che cerca di
cogliere è il significante in quanto vicino al reale, perciò Lacan usa la
formula: l’S1 da solo è «qualsiasi cosa che si scriva senza produrre
alcun effetto di senso».
Dovremmo sviluppare cosa
significa un S1 che si produce soltanto a condizione di farlo senza
produrre alcun effetto di senso. In tutto questo, il lato saliente è che Freud
ha scoperto l’inconscio a partire dalle isteriche, invece Lacan nella sua
esperienza è partito dagli psicotici adulti, che hanno poi chiarito come
effetto di ritorno le nevrosi. Penso che si possa dire che la clinica che
corrisponde a La Terza sia la clinica dell’autismo. La dimensione dell’S1
come significante da solo la possiamo cogliere nella clinica dell’autismo.
Scrivere che S1 è qualsiasi cosa che si scrive solo a condizione di
farlo senza produrre alcun effetto di senso lo si afferra a partire dalle
psicosi infantili e dall’autismo.
Qui l’inconscio e l’Es non sono
più sovrapposti, si dividono le acque: l’inconscio da una parte e l’Es
dall’altra. E se nella versione che troviamo alla fine degli Scritti il
significante si raccorda solo ad un altro significante, allora si pone la
questione di sapere come l’inconscio può operare sull’Es o, più precisamente,
come il linguaggio può operare sul godimento. Come queste due “entità”, non più
sovrapposte, ma diverse, antinomiche, possono comunicare, come possono
parlarsi. Tra le due ci vuole una mediazione. Nella seconda parte
dell’insegnamento di Lacan, l’oggetto a è quello che funge da mediatore.
L’oggetto a garantisce la mediazione tra l’inconscio e il godimento. È
all’oggetto a che è rimessa la funzione di garantire l’effetto di senso. Ma che
sia l’oggetto a a garantire l’effetto di senso è una formula strana rispetto a
tutto quello che abbiamo potuto dire sul primo insegnamento di Lacan. È un modo
d’indurre progressivamente l’idea che il significante non ha solo effetti di
senso ma di godimento. Quindi, in primo luogo il significante è separato dai
propri effetti di senso, in secondo luogo l’oggetto a è ben instaurato come
mediatore tra il linguaggio ed il godimento, ed è un modo di riconoscere che il
significante ha anche effetti di godimento, infine questo movimento dà un nuovo
statuto al corpo. Il corpo immaginario, il corpo dello stadio dello specchio,
non basta a sostenere gli effetti di godimento perché il godimento non si può
più solo concepirlo sul registro narcisistico, legato all’attrazione esercitata
dall’immagine. È tutto il corpo che diviene supporto del godimento e non più
soltanto all’immagine del corpo. Lo statuto dell’oggetto a è garantire la
mediazione tra linguaggio e godimento: Lacan chiama oggetto a quella parte di
godimento che è afferrata, determinata, dal significante. L’oggetto a, un po’
come Giano, ha due volti: da una parte prendete il godimento, dall’altra
prendete il significante.
Vi sono delle conseguenze sulla
concezione del sintomo. Il sintomo non è più concepito come effetto di senso,
come portatore di una verità, non è più pensato come una metafora. Piuttosto,
il sintomo è visto come un effetto di corpo. Con questa separazione fra
l’inconscio e l’Es resta il problema di come cogliere il sintomo attraverso il
senso… e Miller si domanda se bisogna uscire dal campo del linguaggio, se
allora non si tratti di arrivare a delle pratiche igieniste o ginniche poiché
il sintomo è effettivamente nel corpo, e in effetti vediamo che c’è un gran
sviluppo di tali pratiche che toccano il corpo. Ma Lacan non ha mai rinunciato
a trovare l’efficacia della psicoanalisi a partire dal linguaggio, dunque dal
significante. Significante che non è più il significante retorico ma che è il
significante matematico. E sviluppa l’efficacia della psicoanalisi a partire
dalla logica per risolvere la questione di come cogliere il godimento a partire
dal significante, quindi la sua risposta è dire «la si può cogliere attraverso
la logica». Ma si vede un limite di questa elaborazione: con La Terza ci
si trova in un altro paradigma, che non ha più appoggio nella logica pura. È
nel seminario Ancora che abbozza questo paradigma, laddove Lacan vuole
«riconoscere la ragione dell’essere nella significanza nel godimento». Formula
su cui si può meditare. E aggiunge: «godimento che - ricordiamo - è il
godimento del corpo». La ragione dell’essere nella significanza la troviamo nel
godimento del corpo. Lavorando il seminario Il Sinthomo si coglie meglio
a cosa si raccordi tutto questo. Si può ribattere che ne La Terza Lacan
evoca ancora la logica a partire dall’oggetto a. Ma Lacan dice: «Non
immaginatevi che abbia avuto io l’idea dell’oggetto a. Io ho scritto oggetto a.
Non è un prodotto del pensiero, io l’ho scritto. È una lettera. È una cosa
completamente diversa. Questo lo rende affine alla logica; quindi vuol dire che
lo rende operante nel reale a titolo di un oggetto di cui non c’è l’idea e
bisogna aggiungere che era fino ad ora un buco in ogni teoria, qualunque
fosse». Lacan punta affinché l’oggetto a possa ridursi ad una piccola lettera
per designare qualcosa che è inafferrabile. Ma nel testo c’è una sfumatura:
«scriverlo con una lettera lo rende affine a una logica». Ciò lascia intendere
che è l’apparenza di un oggetto matematico. Nella lezione ottava del seminario XX
Lacan abbandona l’idea che l’oggetto a possa sostenersi nell’accostare il
reale: «L’oggetto a si risolve nel proprio scacco». Questa frase mostra la
logica di gomma di Lacan. Incontra un’impasse teorica nella concettualizzazione
dell’oggetto e dice: «Questo si risolve nel proprio scacco. Si risolve non
potendosi sostenere nell’accostare il reale». L’oggetto a che Lacan sosteneva
come un oggetto matematico, quindi un oggetto vicino al reale, alla fine non
tiene. In ultima istanza, la a
minuscola resta prigioniera della parentesi nella quale si trovava connotata
all’inizio: i(a), cioè l’immagine dell’altro. “Ho
scritto a minuscolo ma resta un
oggetto immaginario”, è un oggetto che proviene dalla teoria del narcisismo,
dallo stadio dello specchio. Malgrado gli sforzi di Lacan in diversi testi, si
vede che tenta di fare dell’oggetto un puro concetto, che non sia una sostanza,
si può citare La logica del fantasma, o dove fa girare l’oggetto a
rivoltando i discorsi, o nelle formule della sessuazione.
Lacan deve riconoscere che questo oggetto non è che una
parvenza d’essere, che l’oggetto a risponde a qualche immaginario, che si veste
dell’immagine di sé. Miller dice che c’è un’affinità troppo grande dell’oggetto
a con il proprio involucro. Dunque quando maneggiamo l’oggetto a maneggiamo
della parvenza, e il reale è davvero qualcos’altro. Il modello del reale è la
formalizzazione matematica che si situa al livello in cui «non vuole dire
niente». Se l’oggetto a è una parvenza d’essere dà il proprio supporto
all’essere, ma questo produce qualcosa tra l’insopportabile e la mancanza di
sostegno. Questa parvenza d’essere emana qualcosa d’insopportabile. Per uscire
dall’insopportabile bisogna dire qual è il segreto dell’ontologia: che l’essere
è soltanto parvenza.
Sono partito dall’“Io
sono” messo tra parentesi e a fine percorso arriviamo ai limiti
dell’ontologia. Vediamo come l’“Io
sono” così sospeso è da leggere come una sorta di terrore nel mondo
della rappresentazione, terrore della fragilità della sua posizione. I limiti
dell’ontologia si contrassegnano attraverso questa differenza, che Miller mette
in evidenza nel suo Corso, dove bisogna notare che essere non è la stessa cosa che esistere, che l’essere si situa sempre a livello del senso ma
che lascia da parte la questione di sapere che cosa esiste, che, in fondo, si
potrebbe dire che quello che esiste è quello che resiste, nel senso in cui
Lacan dice ne La Terza che il reale è quello che si mette di traverso.
Questo tocca le affinità del reale con l’impossibile. Quando qualcosa resiste
davvero allora, possiamo dire, c’è l’Uno.
Bisogna leggere La Terza con questa oscillazione,
oscillazione nella quale, l’anno precedente, Lacan ha manifestato la propria
rinuncia in riferimento all’essere. Una rinuncia all’ontologia su cui il
giovane Miller aveva puntato in quello che fu il suo primo intervento durante
l’insegnamento di Lacan. A partire da La Terza Lacan privilegerà il
registro del reale e svilupperà l’uso del nodo borromeo che rappresenta,
matematicamente, che procediamo soltanto dall’Uno.
Trascrizione: Cecilia Falcetta
Redazione: Giuseppe Perfetto
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