martedì 17 novembre 2015

Seminario del 13 giugno 2015 Docente invitato: Dominique Holvoet

LA TERZA

«La Terza ritorna sempre alla prima», dice Lacan. “La prima” è un discorso, è il Discorso di Roma. La Terza è una lettura. Nel testo, Lacan, insiste dicendo che questa Terza lui la legge e cerca di portarci ad un certo livello, un livello che sia al di qua di tutti i sensi possibili del discorso… motivo per cui, giocando sul francese, dice ourdrome. Fa ­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­lavorare il linguaggio contro il linguaggio per far emergere un’altra dimensione, quella della lettera, dimensione che permetterebbe la scrittura del discorso, o un discorso che sarebbe del reale. Un desiderio di Lacan era produrre un discorso che non sarebbe di parvenza. Dunque, un discorso che produce un’effrazione, per questo quando leggete il testo de La Terza vi prende per il bavero, non accompagna il lettore. Occorre che qualcosa si gratti via dal linguaggio per produrre lalangue come resto.
Jacques-Alain Miller ha scritto Nota di ago e filo, che accompagna il seminario XXIII di Lacan, dove afferma che quel che si apre nel novembre del 1974 costituisce un ritorno sul proprio tentativo, una messa in questione della psicoanalisi di una profondità senza pari; ciò è ampiamente non percepito per via della cura che Lacan ha messo nel sottrarre all’ascoltatore la portata del suo discorso, un discorso che porta in sé delle virtualità esplosive. Miller conclude dicendo che non ci si può impedire di pensare che l’ultimo insegnamento di Lacan sia dello stesso registro di quel che le scuole antiche riservavano all’insegnamento esoterico. Nell’insieme dell’insegnamento di Lacan c’è la preoccupazione di presentare le cose in un modo che non siano immediatamente accessibili, che non si capiscano troppo in fretta: quando si capisce in fretta si capisce male. In La Terza il tentativo di mascherare quello che vuole dire è moltiplicato, ed è di una particolare densità.
La Terza e l’ultima parte dell’insegnamento di Lacan sono qualcosa che stiamo scoprendo ora, man mano. Non penso che si possa dire di essere nella pratica già immersi in quest’ultimo insegnamento di Lacan.
La Terza non era una conferenza che si rivolgeva ad un grande pubblico, come invece fu una contemporanea intervista rilasciata ai giornalisti. La Terza si rivolge ai membri della sua Scuola, si tratta dell’intervento al VII Congresso di quella che al tempo si chiamava l’École Freudienne de Paris. È “la terza” volta che Lacan prende parola a Roma, vent’anni dopo aver pronunciato il primo discorso.
Nel 2001, per France Culture, in occasione del centenario della nascita di Lacan, Miller ha scritto un breve testo. Introducendo Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi Miller fa valere due idee forti. La prima è che l’inconscio è strutturato come un linguaggio. Ciascuno riceve dall’Altro (che è un partner intimo, sconosciuto, senza volto) un discorso che lo agita in seno alla propria identità. È una messa in causa del cogito: il soggetto che pensa non può più dire “penso dunque sono” perché è il discorso dell’Altro, di questo partner intimo che si sviluppa nei sogni e nei sintomi. La seconda idea è che l’azione psicoanalitica riposa sulla parola: la parola dell’analizzante che domanda e che evoca nel presente senza preoccuparsi dell’esattezza del proprio dire, e la parola dell’analista che dev’essere rara, che scandisce e interpreta. Miller nota l’entusiasmo che c’è per Lacan: «Nel 1953 mette la parola, il linguaggio, al cuore della psicoanalisi. Definire a partire da questo la dimensione del soggetto è un fulmine a ciel sereno. L’accoglienza fatta a questo testo è entusiastica». È l’epoca in cui quando si parlava di psicoanalisi si poteva fare una conferenza in un teatro e avere un pubblico di trecento persone. «E Lacan è raggiante di ottimismo. Sente che si può dar fiato ad una teoria che è rimasta un po’ stagnante dopo la morte di Freud, dare di nuovo respiro a una pratica i cui effetti cominciano a smorzarsi».
Il secondo intervento di Lacan a Roma, del 1967, ha un tono inverso, il titolo lo dice a sufficienza: La psicoanalisi, ragioni di uno scacco. Lacan sente di essere solo. Sente che gli psicoanalisti vogliono rientrare nei ranghi, abbandonare la dimensione sovversiva da lui promossa e, secondo il principio dell’omeostasi, ritrovare il comfort della routine. Lacan fa la cupa previsione che gli psicoanalisti si arrenderanno di fronte ai diversi vicoli ciechi della civiltà. L’anno seguente sarà il 1968, l’anno della rivolta dei giovani e Miller individua in Lacan delle ragioni di speranza in questa rivolta, ciò lo incoraggerà a perseverare.
Per la terza volta a Roma, citando Miller: «L’allegro vegliardo, che ormai ha 73 anni, porta qualcosa di nuovo, sospirando. Lo sviluppo dell’argomentazione è difficile per gli specialisti stessi. Non si tratta di capire tutto, è impossibile, ma non si tratta neppure di rinunciare a comprendere. Bisogna fare uno sforzo per accogliere un pensiero originale, sorprendente, unico, che ha segnato il XX secolo, pur restando ancora ampiamente da scoprire e da decifrare».
Dopo il 2001, quando cioè Miller ha scritto questo testo, si è iniziato a scoprire e a decifrare il testo de La Terza, e la pubblicazione del seminario XXIII ha aiutato a lavorare su di esso.
Se il primo discorso di Lacan a Roma mette al centro della psicoanalisi un dire che verte sulla parola e sul linguaggio, La Terza è una lettura che ha di mira la lalangue e il corpo a partire da una scrittura, la scrittura del nodo borromeo.
Il nodo compare nell’insegnamento di Lacan nella lezione del 9 febbraio del 1972, ed è a proposito dell’amore che si presenta. Lacan commenta una frase che presenta come la vera lettera d’amore. Scrive “amur”, “amore” senza la “o”, giocando sulla risonanza tra “amore” e “muro” per far apparire la sonorità del muro in questa parola: nell’amore c’è sempre un problema di muro… come sperimentiamo tutti ogni giorno. Nella frase ci sono tre termini che girano intorno a un buco. La frase è: “Ti domando di rifiutare quel che ti offro perché non è questo”. Ci sono la domanda, il rifiuto, l’offerta. Il buco è reso in immagine dall’interiezione “non è questo”. L’amore presuppone la simultaneità dei tre termini per fissare qualcosa che altrimenti sarebbe solo finzione. Per Lacan tale triplicità attorno ad un buco è quel che fonda il discorso dell’analizzante, e aggiunge che nell’analisi trascurare questa domanda di rifiuto di quello che è offerto rende la domanda soltanto più pregnante e insistente. Nel discorso dell’analizzante quel che si domanda è di riconoscere che quel che si domanda non è questo. Il discorso dell’analizzante gira intorno al “non è questo”. A partire da tali considerazioni, il nodo fa la sua apparizione nelle pagine 90-91 del seminario XIX: «Proprio perché la questione che si pone per noi non è di sapere quello che ne è del “non è questo” che sarebbe in gioco in ciascuno di questi livelli verbali, la questione è che noi dobbiamo accorgerci  che occorre snodare ciascuno di questi verbi dal proprio nodo, snodarli dagli altri due ed è così che possiamo trovare quello che ne è di questo effetto di senso che chiamo oggetto a». Non si tratta di comprendere bensì di estrarre. Lacan sottolinea che i tre elementi vanno insieme, non ci possono essere offerta e domanda senza il rifiuto, la stessa cosa vale per le altre combinazioni. La posta in gioco nel nodo è quest’oggetto di desiderio non condivisibile, quello che chiama “non è questo”, l’oggetto a. Motivo per cui, due pagine più avanti, sottolinea che la radice dell’oggetto a è che non riguarda mai due soltanto, ce ne vogliono tre perché nell’offerta d’amore ci sia un muro. C’è un impossibile, un insuperabile che dev’essere un dono. Lacan prosegue, a pagina 91: «Mi interrogavo, ieri sera, sul modo in cui vi avrei presentato quest’oggi la mia geometria tetradica. Mi è successa una cosa strana cenando con un’incantevole persona che segue i corsi di monsieur Guilbaud, il matematico. Mi è arrivato, come un anello al dito [locuzione francese accostabile all’italiano “come cacio sui maccheroni”], qualcosa che voglio mostrarvi. Qualcosa che è niente meno che lo stemma araldico dei Borromeo». Questa breve sequenza dà un’idea di come lavora Lacan: prende tutto quello che c’è, anche qualora lì in modo contingente, e l’evento accidentale può produrre la scoperta… potremmo dire che Lacan lavora per serendipity. È a partire dal dono d’amore, impossibile, di quel che non si può scrivere del rapporto sessuale, che Lacan scopre, o piuttosto capita, sulla scrittura del nodo borromeo. Il nodo apparirà ancora nel capitolo 10 del seminario Ancora, ma sarà soprattutto nel testo de La Terza che è messo al centro. Questo testo introduce gli sviluppi che si troveranno nel seminario RSI, che Lacan pronuncia nello stesso anno, 1974-75, sviluppi che culmineranno nel seminario Il Sinthomo.
La formula con cui inizia La Terza è: Je pense, donc Se jouit. Una variazione rispetto all’apoftegma di Cartesio. Nella conferenza di Lacan, il punto di partenza è il corpo, tutto il corpo. Non è soltanto il corpo speculare in due dimensioni, ma il corpo definito in quanto “si gode”. Con la formula “il corpo che si gode” Lacan mostra l’impasse che il godimento fa per il soggetto che abita questo corpo: in fondo, il corpo si gode da solo senza passare per la soggettività. Lacan fa l’esempio del gatto che fa le fusa: «le fusa del gatto sembrano essere di tutto il corpo», e sembra sottintendere che è a partire da tutto il corpo che gode facendo le fusa. Notiamo che per l’essere parlante si tratta di un godimento speciale, non è soltanto il godimento delle fusa del gatto, è un godimento che è reimpastato ne lalangue, un godimento che si deposita ne lalangue mortificandola, cosa che fa sì che lalangue «si presenti come un legno morto». Mi sembra che si possa definire lalangue come linguaggio lavorato dal linguaggio, che dà un resto che è fatto di questo godimento del linguaggio, godimento del linguaggio che veicola la morte del segno.
Lacan sovverte il cogito cartesiano e propone la formula “Penso dunque si gode” al posto di “Penso dunque sono”. La certezza del “Io sono” è rigettata, nel senso della preclusione, cioè ritorna nel reale, nel reale del corpo. Quel che è rigettato dal “sono” fa ritorno nel reale del corpo dove c’è qualcosa che “si gode” indipendentemente dal soggetto che abita questo corpo. È qualcosa che si gode ma che mi è completamente estraneo, che occorre che io situi, che io attribuisca. Per cogliere il valore del cogito cartesiano bisogna fare un passo indietro e sottolineare che prima che il cogito sia posto, quindi prima di Cartesio, il mondo non è un mondo rappresentato da e per il soggetto, ma è un mondo creato da e per il creatore. È una difficoltà particolare pensare il mondo quando era pensato in un ordine d’idee completamente diverso. È importante cogliere come il punto di svolta che situa il cogito cartesiano cambia, come una vertigine della rappresentazione, il modo in cui rappresentiamo il mondo. Perché possa affiorare il cogito occorre mettere in dubbio ogni rappresentazione. Nell’ultimo corso del 2011, Jacques-Alain Miller parla di questo dubbio come di un terrore. Non è come il dubbio ossessivo, “Ci sono o non ci sono davvero”, ma Miller dice, a proposito della nascita del soggetto del cogito, «è il terrore che esercita al soggetto che emerge come sola istanza che resiste alla sospensione di ogni rappresentazione». Il soggetto è terrorizzato all’idea di essere il solo a tenersi in piedi in un mondo dove ogni rappresentazione è messa fuori gioco, svuotata di reale. Tutto quello che è la rappresentazione che ci si fa del mondo è solo ombre e riflessi, quindi la vita è un sogno, e tutto si riduce a sogno o incubo. Ne La Terza, Lacan dice del pensiero: «sono soltanto parole che introducono nel corpo rappresentazioni imbecilli». È una formula che fa ben risuonare il carattere fittizio della rappresentazione. Attraverso l’operazione del cogito il mondo è convertito, trasformato in rappresentazione, ma allo stesso tempo è rifiutato, squalificato come finzione linguistica. La questione che si pone è come fare congiuntura fra rappresentazione, tra queste finzioni del dire, e il reale. Il cogito da solo non può garantire tale congiunzione fra la rappresentazione con il suo carattere fittizio e il reale, perché, in fondo, il cogito è una funzione istantanea, effimera, e dipende dal discordo nel quale emerge. La soluzione di Cartesio sarà quella di porre Dio come istanza che opera questa congiunzione, ed è a Dio che sarà attribuita la funzione di operare il passaggio dalla rappresentazione al reale. Dio è un Altro maiuscolo, non è un Altro supposto sapere bensì è un Altro supposto dire la verità. A proposito di Dio, si ritrova ne La Terza un tono ironico: Dio, quello che sarebbe il Verbo, «Cartesio non si sbaglia. Dice: Dio è il dire. Vede bene che Dieure [Lacan forma un neologismo condensando la parola “Dio/Dieu” e “dire/dire”] è quello che fa essere la verità». Basta dire per creare degli esseri, che in fondo sono solo esseri di finzione. Basta dire per dire la verità, perché la verità è fondamentalmente mentitrice per quanto riguarda il reale, è la formula che dice che la verità ha struttura di finzione. È come se Lacan dicesse a proposito del suo primo discorso a Roma: “parole, parole”, ed è così che questo primo discorso ritorna ne La Terza nella forma del “disco che gira”: è quel che resta dopo aver parlato e che ritorna allo stesso posto. È la prima definizione del Reale in Lacan. Il Reale è quello che ritorna sempre allo stesso posto. Il reale esiste nell’esperienza analitica come escluso, ed è per questo che Lacan lo scrive in due parole spezzando ex-siste. Il reale è escluso a favore della dialettica, che invece permette degli spostamenti, quindi “parole, parole”. Nel suo primo insegnamento, Lacan da queste “parole, parole” si aspetta degli effetti reali, ma, fondamentalmente, l’associazione libera lascia fuori il reale perché esclude elementi restii al cambiamento. Quel che ci si aspetta dall’associazione libera è che cambi qualcosa. L’applicazione dell’associazione libera, all’inizio della cura, è un modo di far dimenticare all’analizzante che nell’analisi si tratta solo di parole e non di reale.  Proprio di questo reale ci si prende gioco ne La Terza. Ci si prende gioco nel senso dell’ironia di questo reale che torna sempre allo stesso posto. Le speranze riposte nella dialettica cadono di fronte al reale, che è fondamentalmente la dimensione del girare a vuoto e che fa sì che le parole siano impregnate di stupidità.
Ma in questa conferenza Lacan aggiunge qualcosa in più. In fondo, si tratta solo di girare a vuoto, di fare le fusa, vale a dire che parlando si gode: qui reintroduce il corpo al di là del suo statuto immaginario. Lacan cerca di uscire dal discorso corrente, cosa che scriveva già l’anno precedente con la parola “disco” giocando sull’omofonia tra il “discorso” corrente ed il “disco” che gira. È fedele a quel che cerca di far capire nel testo, cioè che nel discorso corrente c’è un disco e questo è appeso. Non è una battuta di spirito. Nel seminario Ancora dichiara: «Se non ci fosse il discorso analitico continuereste a parlare come degli stornelli, continuereste a far girare il disco, e questo disco gira perché non c’è rapporto sessuale che si possa scrivere». Il discorso corrente gira intorno al punto “non è questo”. All’inizio c’è il non-rapporto che dà un indice di reale. Lacan dice che Cartesio non esce da questo girar a vuoto, è prigioniero di questo suo discorso, «dell’inserimento nel discorso in cui è nato», il discorso del padrone. Lacan cerca di costituire un altro sapere, e dice che «è uso che all’epoca di Cartesio» il sapere si costituisca a partire dal discorso del padrone... come se oggi le cose fossero differenti, in fondo anche oggi c’è lo stesso uso: il sapere ancora si costituisce a partire dal discorso del padrone. Mi sembra che Lacan sia un po’ meno certo per quello che concerne la nostra epoca perché, una pagina più avanti, evoca l’idea che non si sente in grado di prevedere «il vento che gonfia le vele alla nostra epoca», che non vi sarebbe più un discorso del padrone che costituisce il sapere come tale. È da un altro discorso, il discorso dell’analista, che si ha la possibilità di costituire un altro sapere. I termini simbolico, immaginario e reale hanno senso solo attraverso e per questo discorso. Se il reale è quello che torna sempre allo stesso posto è proprio verso questo posto che va a dirigersi l’attenzione dell’analista, e man mano anche dell’analizzante. Accade che il reale che ritorna mette a nudo questo posto della parvenza, la scopre, toglie il velo. È esattamente il posto che Lacan assegna all’analista, posto che situa all’intersezione dei tre registri, ove scrive a minuscola. Lacan invita a mostrare la parvenza a essere l’oggetto causa del desiderio. Detto altrimenti, Lacan propone che l’analista si costituisca come punto d’attrazione del discorso analizzante, e questo lo fa occupando la parvenza dell’oggetto causa. Ciò implica per l’analista lasciare l’oggetto, Lacan dice «di offrirlo come causa del proprio desiderio al vostro analizzante». Dunque, il desiderio è il desiderio dell’analizzante e non dell’analista. Offrire l’oggetto del desiderio dell’analizzante all’analizzante. Ma questo presuppone da parte dell’analista di lasciare qualcosa. È un’indicazione preziosa… è quindi inutile fare il brillante, strafare, pavoneggiarsi. Semplicemente si tratta di prendere atto che non c’è un solo discorso che non sia animato dalla parvenza. Il discorso analitico non sfugge alla dimensione che ciò che anima il discorso è la parvenza, però con il fatto che nel discorso analitico l’analista si fa lo zimbello, l’esca, della parvenza. Se c’è posizione particolare dell’analista come zimbello della parvenza, i tre registri possono operare in modo efficace nella parola e attraverso la parola. Lacan cerca di porre in evidenza che l’analista parla da un certo posto, posto che implica che abbia lui stesso lasciato qualcosa.
Lacan sposta i concetti rispetto a quello che era il suo insegnamento precedente, è quel che fa nel corso di tutto il suo insegnamento, ed è perché abbiamo la lettura di Miller che possiamo cogliere tali gli spostamenti. Lacan realizza questi spostamenti con molta sottigliezza, non va mai a sottolineare dei punti di rottura ma presenta il movimento del suo insegnamento come una trasformazione topologica senza discontinuità, per esempio con la logica di gomma che presenta a proposito del piccolo Hans. Alla fine di Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio dice che «è inaccettabile che ci si imputi di avere di mira una riduzione puramente dialettica dell’essere», rispetto al primo insegnamento c’è qualcosa che conduce proprio a ciò: con La Terza siamo alla svolta già introdotta dal seminario XX, e situata per l’esattezza da Miller nell’ottava lezione, dove Lacan dice che «rinuncia all’ontologia a favore del reale». La frase citata degli Scritti è del ’64, qui siamo nel ‘69. La rinuncia all’ontologia per un’ontica del godimento è il movimento dell’ultimo insegnamento di Lacan. C’è un passaggio dall’ontologia all’ontica, dalla dimensione dell’essere a quella dell’esistenza, e questo passaggio costituisce la trama di fondo che Miller ha dato all’ultimo Corso dell’orientamento lacaniano, nel 2011, che inizialmente aveva chiamato “Opere di Lacan” per poi rinominarlo “L’essere e l’Uno”.
Per leggere La Terza è utile mettere le cose come le pone Miller nella sesta lezione del suo Corso, lezione che riguarda il corpo, il significante e l’oggetto a. Questa lezione comincia con quella che potremmo dire la confessione da parte di Miller: dichiara che va a regolare i conti con Lacan, conti che aveva in sospeso con lui da almeno vent’anni. Si tratta del rifiuto da parte di Miller, già al tempo del seminario I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, di un’ontologia di Lacan. Miller dimostra che Lacan nel suo primo insegnamento ha sovrapposto l’inconscio e l’Es, riducendo l’Es nell’inconscio. Nell’insegnamento di Lacan è il momento in cui tutto può essere creato dal simbolico. Miller sostiene come negli Scritti ci sia «l’atmosfera di un mondo senza reale», è il mondo del significante retorico. In questa prospettiva anche la pulsione è ridotta ad essere una parola, ed è così che possiamo capire la formula con cui scrive la pulsione: $◊D [S barrato losanga di D]. Nella formula c’è qualcosa della domanda che spinge. Nella sua prima fase di insegnamento, la pulsione è una domanda, domanda silenziosa ma che trova espressione nel linguaggio. Tuttavia nel testo La scienza e la verità, alla fine degli Scritti, Lacan rifiuta la dimensione del ça parle della pulsione e rimanda quest’espressione piuttosto dal lato della magia, senza con ciò disprezzare la magia… è una vera questione che si pone: che ci sia un’effettività nella magia. S’interroga sull’efficacia dello sciamano, e questo entra in risonanza quando guardiamo il percorso nei seguenti vent’anni. Egli indica che l’effettività dello sciamano è relativa alla messa in gioco del suo corpo e che offre al soggetto un punto di riferimento sul proprio corpo. Mi sembra che ci sia una prossimità fra la formula relativa allo sciamano in La scienza e la verità con l’espressione che si trova ne La Terza dove Lacan invita ad offrire all’analizzante l’oggetto a di cui l’analista si libera, per questo ho parlato di amputazione per indicare che è qualcosa che ha a che fare con il corpo. Restando sugli Scritti: Lacan può formulare che questo testo non ha niente a che vedere con la psicoanalisi. Miller nota che Lacan può dire che non ha niente a che fare con la psicoanalisi perché a quell’epoca il soggetto della psicoanalisi non ha corpo. In tutto il primo movimento dell’insegnamento di Lacan il soggetto è un soggetto senza corpo, allo stesso modo in cui chiama in gioco il soggetto della scienza. In quel momento, l’efficacia della psicoanalisi è situata da Lacan a partire da un’altra causa materiale, una causa materiale diversa dal corpo che è il significante. Ma già appare alla fine degli Scritti, in La scienza e la verità, un primo spostamento. Il significante di cui parla in La scienza e la verità è un significante nuovo rispetto a quello di Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi. Non è più il significante retorico de L’istanza della lettera. Il significante retorico è quello che distingue il significante dal significato, ed è questo rapporto che permette di creare degli effetti di senso, ed è da questa divisione tra significante e significato che Lacan deduce degli effetti di metafora e metonimia, la metafora come aggiunta di senso che determina il sintomo come portatore di verità (il sintomo è una metafora), mentre nella metonimia il senso corre sotto il significante e determina il desiderio. Nel primo movimento dell’insegnamento di Lacan, dissolvere il sintomo è restituire il soggetto a questa corsa del desiderio, la metonimia significante del desiderio. Ma Miller nota che alla fine degli Scritti lo statuto del significante è nuovo, è separato dal senso. Il significante non è più quello connesso con un senso, non è più nel rapporto significante-significato, ma è solo correlato con un altro significante. La coppia S1 e S2 avvicina il significante ad un oggetto matematico.
Nella spostamento dal primo al secondo insegnamento, lungo la traiettoria che ci porta a La Terza, c’è qualcosa che ci avvicina al reale. L’S1 che si trova ne La Terza non è il significante retorico, non dipende dal rapporto tra significante e significato, ma non è neppure il significante matematico. Il significante ne La Terza ha ancora un altro statuto, che è preparato dal movimento precedente. Ne La Terza è davvero un S1 da solo. S1 staccato da ogni effetto di senso, intendo cioè staccato da S2. Un significante da solo, staccato dall’articolazione che faceva sgorgare il senso, staccato dalla produzione della catena significante che «vomitava» il senso e gli effetti di verità. Dice «vomitare» perché tutto questo è solo bla bla. Quel che cerca di cogliere è il significante in quanto vicino al reale, perciò Lacan usa la formula: l’S1 da solo è «qualsiasi cosa che si scriva senza produrre alcun effetto di senso».
Dovremmo sviluppare cosa significa un S1 che si produce soltanto a condizione di farlo senza produrre alcun effetto di senso. In tutto questo, il lato saliente è che Freud ha scoperto l’inconscio a partire dalle isteriche, invece Lacan nella sua esperienza è partito dagli psicotici adulti, che hanno poi chiarito come effetto di ritorno le nevrosi. Penso che si possa dire che la clinica che corrisponde a La Terza sia la clinica dell’autismo. La dimensione dell’S1 come significante da solo la possiamo cogliere nella clinica dell’autismo. Scrivere che S1 è qualsiasi cosa che si scrive solo a condizione di farlo senza produrre alcun effetto di senso lo si afferra a partire dalle psicosi infantili e dall’autismo.
Qui l’inconscio e l’Es non sono più sovrapposti, si dividono le acque: l’inconscio da una parte e l’Es dall’altra. E se nella versione che troviamo alla fine degli Scritti il significante si raccorda solo ad un altro significante, allora si pone la questione di sapere come l’inconscio può operare sull’Es o, più precisamente, come il linguaggio può operare sul godimento. Come queste due “entità”, non più sovrapposte, ma diverse, antinomiche, possono comunicare, come possono parlarsi. Tra le due ci vuole una mediazione. Nella seconda parte dell’insegnamento di Lacan, l’oggetto a è quello che funge da mediatore. L’oggetto a garantisce la mediazione tra l’inconscio e il godimento. È all’oggetto a che è rimessa la funzione di garantire l’effetto di senso. Ma che sia l’oggetto a a garantire l’effetto di senso è una formula strana rispetto a tutto quello che abbiamo potuto dire sul primo insegnamento di Lacan. È un modo d’indurre progressivamente l’idea che il significante non ha solo effetti di senso ma di godimento. Quindi, in primo luogo il significante è separato dai propri effetti di senso, in secondo luogo l’oggetto a è ben instaurato come mediatore tra il linguaggio ed il godimento, ed è un modo di riconoscere che il significante ha anche effetti di godimento, infine questo movimento dà un nuovo statuto al corpo. Il corpo immaginario, il corpo dello stadio dello specchio, non basta a sostenere gli effetti di godimento perché il godimento non si può più solo concepirlo sul registro narcisistico, legato all’attrazione esercitata dall’immagine. È tutto il corpo che diviene supporto del godimento e non più soltanto all’immagine del corpo. Lo statuto dell’oggetto a è garantire la mediazione tra linguaggio e godimento: Lacan chiama oggetto a quella parte di godimento che è afferrata, determinata, dal significante. L’oggetto a, un po’ come Giano, ha due volti: da una parte prendete il godimento, dall’altra prendete il significante.
Vi sono delle conseguenze sulla concezione del sintomo. Il sintomo non è più concepito come effetto di senso, come portatore di una verità, non è più pensato come una metafora. Piuttosto, il sintomo è visto come un effetto di corpo. Con questa separazione fra l’inconscio e l’Es resta il problema di come cogliere il sintomo attraverso il senso… e Miller si domanda se bisogna uscire dal campo del linguaggio, se allora non si tratti di arrivare a delle pratiche igieniste o ginniche poiché il sintomo è effettivamente nel corpo, e in effetti vediamo che c’è un gran sviluppo di tali pratiche che toccano il corpo. Ma Lacan non ha mai rinunciato a trovare l’efficacia della psicoanalisi a partire dal linguaggio, dunque dal significante. Significante che non è più il significante retorico ma che è il significante matematico. E sviluppa l’efficacia della psicoanalisi a partire dalla logica per risolvere la questione di come cogliere il godimento a partire dal significante, quindi la sua risposta è dire «la si può cogliere attraverso la logica». Ma si vede un limite di questa elaborazione: con La Terza ci si trova in un altro paradigma, che non ha più appoggio nella logica pura. È nel seminario Ancora che abbozza questo paradigma, laddove Lacan vuole «riconoscere la ragione dell’essere nella significanza nel godimento». Formula su cui si può meditare. E aggiunge: «godimento che - ricordiamo - è il godimento del corpo». La ragione dell’essere nella significanza la troviamo nel godimento del corpo. Lavorando il seminario Il Sinthomo si coglie meglio a cosa si raccordi tutto questo. Si può ribattere che ne La Terza Lacan evoca ancora la logica a partire dall’oggetto a. Ma Lacan dice: «Non immaginatevi che abbia avuto io l’idea dell’oggetto a. Io ho scritto oggetto a. Non è un prodotto del pensiero, io l’ho scritto. È una lettera. È una cosa completamente diversa. Questo lo rende affine alla logica; quindi vuol dire che lo rende operante nel reale a titolo di un oggetto di cui non c’è l’idea e bisogna aggiungere che era fino ad ora un buco in ogni teoria, qualunque fosse». Lacan punta affinché l’oggetto a possa ridursi ad una piccola lettera per designare qualcosa che è inafferrabile. Ma nel testo c’è una sfumatura: «scriverlo con una lettera lo rende affine a una logica». Ciò lascia intendere che è l’apparenza di un oggetto matematico. Nella lezione ottava del seminario XX Lacan abbandona l’idea che l’oggetto a possa sostenersi nell’accostare il reale: «L’oggetto a si risolve nel proprio scacco». Questa frase mostra la logica di gomma di Lacan. Incontra un’impasse teorica nella concettualizzazione dell’oggetto e dice: «Questo si risolve nel proprio scacco. Si risolve non potendosi sostenere nell’accostare il reale». L’oggetto a che Lacan sosteneva come un oggetto matematico, quindi un oggetto vicino al reale, alla fine non tiene. In ultima istanza, la a minuscola resta prigioniera della parentesi nella quale si trovava connotata all’inizio: i(a), cioè l’immagine dell’altro. “Ho scritto a minuscolo ma resta un oggetto immaginario”, è un oggetto che proviene dalla teoria del narcisismo, dallo stadio dello specchio. Malgrado gli sforzi di Lacan in diversi testi, si vede che tenta di fare dell’oggetto un puro concetto, che non sia una sostanza, si può citare La logica del fantasma, o dove fa girare l’oggetto a rivoltando i discorsi, o nelle formule della sessuazione.
Lacan deve riconoscere che questo oggetto non è che una parvenza d’essere, che l’oggetto a risponde a qualche immaginario, che si veste dell’immagine di sé. Miller dice che c’è un’affinità troppo grande dell’oggetto a con il proprio involucro. Dunque quando maneggiamo l’oggetto a maneggiamo della parvenza, e il reale è davvero qualcos’altro. Il modello del reale è la formalizzazione matematica che si situa al livello in cui «non vuole dire niente». Se l’oggetto a è una parvenza d’essere dà il proprio supporto all’essere, ma questo produce qualcosa tra l’insopportabile e la mancanza di sostegno. Questa parvenza d’essere emana qualcosa d’insopportabile. Per uscire dall’insopportabile bisogna dire qual è il segreto dell’ontologia: che l’essere è soltanto parvenza.
Sono partito dall’“Io sono” messo tra parentesi e a fine percorso arriviamo ai limiti dell’ontologia. Vediamo come l’“Io sono” così sospeso è da leggere come una sorta di terrore nel mondo della rappresentazione, terrore della fragilità della sua posizione. I limiti dell’ontologia si contrassegnano attraverso questa differenza, che Miller mette in evidenza nel suo Corso, dove bisogna notare che essere non è la stessa cosa che esistere, che l’essere si situa sempre a livello del senso ma che lascia da parte la questione di sapere che cosa esiste, che, in fondo, si potrebbe dire che quello che esiste è quello che resiste, nel senso in cui Lacan dice ne La Terza che il reale è quello che si mette di traverso. Questo tocca le affinità del reale con l’impossibile. Quando qualcosa resiste davvero allora, possiamo dire, c’è l’Uno.
Bisogna leggere La Terza con questa oscillazione, oscillazione nella quale, l’anno precedente, Lacan ha manifestato la propria rinuncia in riferimento all’essere. Una rinuncia all’ontologia su cui il giovane Miller aveva puntato in quello che fu il suo primo intervento durante l’insegnamento di Lacan. A partire da La Terza Lacan privilegerà il registro del reale e svilupperà l’uso del nodo borromeo che rappresenta, matematicamente, che procediamo soltanto dall’Uno.

Trascrizione: Cecilia Falcetta

Redazione: Giuseppe Perfetto

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