LA TERZA
Ho iniziato ad ascoltare Lacan dal ‘72, con il
famoso seminario XX. Ho ancora i miei appunti, e risultano perfetti.
Lacan parlava molto lentamente e si poteva prender nota.
Due anni dopo, nel ‘74, ci fu un convegno di
semiologia a Milano, organizzato da Umberto Eco. Lacan fece in modo che, non so
per quali giri, anche Alfredo Zenoni venisse dal Belgio, e in quell’occasione
fondò La Cause Freudienne a mezzogiorno e la chiuse la sera a mezzanotte. Fu
veramente un’apertura/chiusura con il famoso tripode.
Qualche mese dopo ci fu il VII Convegno
dell’École Freudienne de Paris a Roma, a Santa Cecilia. Lacan aveva scritto
sessantasei pagine, non le lesse tutte, anzi non lesse il testo, praticamente
improvvisò e questa fu poi la registrazione de La terza. Su internet ve
ne sono diverse versioni, la più precisa è quella dell’École Freudienne de
Paris, e la traduzione in italiano di Roberto Cavatola pubblicata in La
Psicoanalisi [n. 12] è stata fatta a partire da questa. Nel 1974 era
evidentemente il Lacan ancora pieno di vita.
Leggerò qualche parte de La terza in modo
da darne un quadro.
Vorrei indicare una cosa che è da tener presente
in Lacan. Dice che non ama i testi così... strambi, piuttosto ama i gialli. Nel
seminario VI Lacan dice che c’è un moyen in ogni giallo, un mezzo
che guida tutto il filo. Lacan scrive in quel modo là, fa lezione in quel modo
là, parla in quel modo là, cioè ha più strati. Quello che veramente gli
interessa non lo dice, ve lo lascia ricercare, non si trova. Notate bene che
non si trova anche quando lui ha rivelato i giochi. Un enigma rimane un enigma
anche quando è stato rivelato, è la sua frase famosa. Quindi, di ogni testo è
da chiedersi qual è il punto, qual è il moyen, ciò che dirige tutta
quanta la faccenda, e che volutamente non è visibile. Un esempio, che si trova
nel seminario VI, è nell’Amleto di Shakespeare dove tutto si
gioca attorno al fallo, di cui non se ne parla se non a un certo momento verso la
fine. Tutta l’operazione è guidata dalla questione del fallo che però non viene
fuori in primo piano.
Miller dice che Lacan non fa mai un compendio. È
vero, però Lacan quando scrive, non quando fa lezione, fa un check-up della sua
posizione rispetto a dove è arrivato in quel momento. Ad esempio in Allocuzione
sulle psicosi infantili, del ‘68, Lacan in realtà fa il check-up della sua
lettura dell’inconscio freudiano, dove ad un certo momento inserisce la
questione del bambino autistico. Stessa cosa la sta facendo con La terza,
e praticamente dice nel ‘74 a che punto è. Il più straordinario di questo
percorso lo trovo nel brevissimo testo su Joyce, che è assolutamente
apparentemente illeggibile, però se si segue questa linea di lettura si trova
che è perfettamente in linea, e va dall’inizio alla fine calmo calmo.
La chiama La terza perché è la terza volta
che parla a Roma… è un po’ il suo modo di fare rispetto ai testi: chiama Scritti
gli scritti perché Seuil gli aveva mandato il blocco dei suoi scritti e non
sapendo che mettere ha scritto “Scritti di Jacques Lacan” e lui disse “questo è
il titolo”, oppure stessa cosa per Télévision.
La seconda volta che parla in Italia è nel ‘67, a
Roma, Napoli e Milano: tre testi estremamente importanti presenti negli Altri
scritti.
Il primo è il Discorso di Roma, quello che
ha dato inizio al suo insegnamento. Sul “Discorso” di Roma fa un gioco
di parole. Facendo riferimento a Gérard de Nerval dice: ça dit ce que.
Il ça è l’es freudiano, ci si è rotti la testa per cercare di
tradurlo, comunque è, scusate se dico “inconscio” perché non è inconscio:
“l’inconscio dice ciò che”, dit ce que diventa disque in francese
quindi è come “l’inconscio dice che”, disque. “Discorso di Roma”, disque-ours
de Rome: lì c’è questo gioco, lo ricordo, non ero tanto lontano da dove
parlava: disque-ourdrome. Leggetelo dit-ce-que, che ha a che fare
con quello che insiste dalla parte dell’inconscio, e poi ourdrome, che è
rimasto enigmatico. Riprende più avanti per due volte l’ur. Ur
vuol dire il discorso fondativo, ur de rome, come Ur-Hamlet,
quelli che precedono Amleto. Fa riferimento all’Urverdrängung
di Freud, che è il punto cieco dell’inconscio freudiano. C’è questo
gioco che lancia all’improvviso, bisogna dire che ha gelato tutti quanti perché
nessuno aveva capito esattamente, invece è molto
preciso, logico, perché lega le disque, quello che l’inconscio dice, – ourdrome,
il primo discorso di Roma, il discorso fondativo della psicoanalisi secondo
lui, lo lega con il finale, che è semplicemente “come io rendo oggi il discorso
di Roma”, ovvero il nodo borromeo.
A pagina 22 Lacan dice: «Questa terza la
leggo, mentre potete forse ricordare che nella prima, che vi fa ritorno, avevo
creduto di doverci mettere la mia parlanza (parlance), poi la si è
stampata, col pretesto che vi era stato distribuito il testo. Se oggi faccio
solo ourdrome, spero non vi sia di ostacolo a intendere ciò che leggo.
Se è di troppo, me ne scuso». E poi ritorna alla prima, cioè cosa ha detto nel Discorso
di Roma nel ‘53. Il Discorso di Roma lui lo lega, dall’inizio alla
fine, intorno a RSI. Dirà che prima ancora del Discorso di Roma
ha scritto un testo su Reale, Immaginario e Simbolico, che trovate
pubblicato da Einaudi, in Dei Nomi-del-Padre, un testo semplice,
comprensibile, che dà il punto in cui Lacan era a quel momento… ma non dà l’RSI
della fine.
Nel nodo borromeo Lacan cercherà di mettere tutto
lo sviluppo che ha dato alla psicoanalisi, e piazzerà i tre godimenti che
circolano intorno a un punto, che è per lui il moyen, che chiamerà
oggetto a. Qui esplode la differenza con l’Internazionale, perché in quel punto
centrale l’Internazionale ci mette il fallo, Lacan no perché se ci fosse il
fallo ci sarebbe rapporto sessuale, questo è il punto di fondo. L’essere umano
invece rimane con una mancanza costitutiva, mancanza costitutiva incarnata
nell’oggetto a, che non è tanto quello che viene a riempirlo, che fa
finta di sostituire quello che manca, ma è semplicemente il vuoto, il “vacuolo”
come lo chiama nel seminario XI.
Pagina 29. Qui c’è un errore di traduzione,
comprensibile: ça se jouit. Il ça è tradotto “ciò si gode”,
mentre è intraducibile. Io ho sempre messo che si salta questo soggetto, però
bisogna indicare che si salta, perché è dell’ordine del “capita”, “avviene”,
cioè chi è che gode non è dell’ordine di un soggetto. Già dirlo ça è di
troppo, in italiano quasi rende meglio l’impossibilità di dirlo. «Dove si situa
dunque questo “si gode” (ça se jouit) nei miei registri categorici
dell’immaginario, del simbolico e del reale?».
A pagina 34, subito dopo lo schema della figura 6
del nodo borromeo: «Come vi ho già detto prima, è su questo posto del più di
godere che si innesta ogni godimento», quindi prima cerca di situarlo, e poi lo
pone al centro dell’intersezione tra i tre godimenti. I tre godimenti sono: la jouissance
phallique, la jouissance de l’Autre e il senso.
Pagina 12: «Poiché non devo parlare troppo a
lungo, vi do una dritta: questo ourdrome mi dà semplicemente l’occasione
di mettere la voce sotto la rubrica dei quattro oggetti da me detti a,
ossia di risvuotarla della sostanza che ci potrebbe essere nel rumore che fa e
di metterla in conto all’operazione significante (...)». Qui fa un passaggio
dell’oggetto a. All’oggetto a Lacan fa fare tre passaggi molto precisi. Parte
dall’oggetto come tradizionalmente la psicoanalisi kleiniana considerava
l’altro, così diciamo che il primo oggetto è la madre… fa sempre un po’ strano
chiamare le persone “oggetto”. Winnicott darà una posizione precisa rispetto a
quest’oggetto, il cui ordine si trova nel Discorso sulla psicosi infantile
dove Lacan evoca l’oggetto transizionale situandolo all’interno della sua
logica, dicendo a Winnicott che dal punto di vista clinico è là, ma non dal
punto di vista logico, che invece è là. In questo passaggio l’oggetto a si
sdoppia nella madre, che prende la posizione del grande Altro, e nell’altro, la
posizione del doppio, il simile, dell’a piccolo. Poi lo sposta sul versante
dell’oggetto al di là del significante, ma gli dà un posto nel significante, e
questo si trova in un passaggio preciso de La direzione della cura, dove
Lacan mette addirittura in corsivo (quando Lacan mette in corsivo vuol dire
diverse cose, ma in quel caso vuol dire che vuole dargli risonanza) che questo
oggetto è dell’ordine significante, per passare poi ad un’altra consistenza che
qui chiamerà logica, che in realtà rinvia alla questione del godimento. Il
passaggio sull’oggetto a si può riprendere a pagina 19: «Quando penso che mi
sono divertito un po’ a fare un gioco tra questo S1, che avevo portato
alla dignità del significante Uno, che ho giocato con questo Uno e con l’a,
annodandoli con il numero aureo, è il massimo! Voglio dire che scriverlo gli dà
la sua portata. Di fatto, era per illustrare la vanità di qualunque coito con
il mondo, cioè di quello che sin qui abbiamo chiamato la conseguenza. E infatti
al mondo non c’è nient’altro che un oggetto a, cacatura o sguardo, voce
o tetta, che divide il soggetto e lo trucca in quello scarto che ex-siste al
corpo». Da qui passa a centrare l’oggetto a nel nodo borromeo. Nel testo, c’è
un movimento che fa passare l’oggetto a dalla realtà ad una situazione in cui
questa realtà viene strutturata tra grande Altro e piccolo altro, che però
dev’essere al livello del simbolico, altrimenti non è leggibile, ed è proprio
in quel punto che può essere letto a livello della logica, quindi sul nodo
borromeo. Lacan riprende l’oggetto a anche al livello dei quattro discorsi, a
pagina 16: «Che siano cerchi del nodo borromeo non è comunque una buona ragione
per inciamparvi». Utilizza un termine ambiguo: y prendre le pied in
francese vuol dire anche “masturbarsi”, o “godere”, si può dire anche di una
donna j’ai pris mon pied là, Cavasola [il traduttore] scrive
“godersela”, “passarsela”, anche “inciampare”. «Non è questo che chiamo pensare
con i piedi. Bisognerebbe che vi lasciaste qualcosa di ben diverso da un membro
– parlo degli analisti –, si tratterebbe di lasciarvi quell’oggetto insensato
che ho specificato con a. È proprio questo che si acchiappa all’incastro
tra il simbolico, l’immaginario e il reale, come nodo. Acchiapparlo nel modo
giusto», e c’è una deriva dalla logica alla clinica: «vi consente di rispondere
alla vostra funzione: offrirlo come causa del suo desiderio al vostro
analizzante. Ecco quel che si tratta di ottenere» in una psicoanalisi. Poi dice
una frase piuttosto pesante per gli analisti: «Ma se doveste mettere un piede
in fallo», si noti ancora il gioco sul piede, «non è poi così terribile,
l’importante è che avvenga a vostre spese». Articola il rapporto fra l’oggetto
a rispetto al nodo borromeo, poi lo situa rispetto alla pratica analitica. Sul
nodo borromeo è come dovreste pensare che ci siano i tre godimenti e come
articolarli, come fare in modo che da questi tre venga estratto quel punto,
potremmo dire quel moyen del giallo, il giallo di ogni analisi. E Lacan
diventa più operativo: lo deve mettere in forma nel discorso dell’analista, a
pagina 16: «Non immaginatevi che ne abbia avuto, io, l’idea. Ho scritto oggetto
a, è completamente diverso. Ciò lo accomuna alla logica, cioè lo rende
operante nel reale a titolo d’oggetto di cui, per l’appunto, non vi è idea.
Cosa che, bisogna dirlo, rappresentava un buco finora in ogni teoria (...)».
Lacan prende questo buco e lo piazza al posto giusto. Prende l’oggetto a come
buco e lo inserisce nei quattro discorsi, come ciò che permette agli altri
discorsi di risituarsi, di interrogarsi su cosa sono. L’idea di Lacan è che è
solo a partire dal discorso analitico che vi è un’interrogazione sul discorso del
padrone, dell’universitario, dell’isterico.
«Cosa che, bisogna dirlo, rappresentava un buco
finora in ogni teoria, qualunque essa fosse». Lacan dice che ogni teoria è una
teologia, cioè che ogni teoria si basa sul riempimento di quel buco. È quel
buco pieno ciò che dà struttura di religione a ogni teoria. «L’oggetto di cui
non si ha idea. È questo che giustifica le mie riserve di poc’anzi rispetto al
presocratismo di Platone», fa riferimento al Parmenide. «Non che egli
non ne abbia avuto la sensazione. Il sembiante è ciò in cui è immerso senza
saperlo».
La figura 2 a pagina 24 mostra i tre godimenti,
con l’oggetto a che fa buco e permette i tre godimenti. L’oggetto a è da
reperire in un’analisi. In un’analisi come si articola questo? Nei quattro
discorsi, Lacan dà il posto a ogni elemento (S1, S2, a, $), glielo dà non solo
come elemento ma per il posto che occupano. In basso a sinistra è il posto
della verità, in alto a sinistra è il posto del sembiante. Nel discorso
normale, che è dell’inconscio ma nello stesso tempo è il discorso della vita
corrente, il buco viene in basso a destra. Ad esempio, incontrate un poliziotto
il quale vi dice: “Documenti”. Il signor Mario Rossi si presenta e dà i
documenti. Lui potrebbe dire per esempio: “Lei non sa chi sono io”, che è un
voler dare un S2 barrando l’S1, cioè io ti barro completamente. Ad ogni modo,
di solito si danno i due elementi per cui uno è riconosciuto. Però rimarreste
perplessi se vi dicesse: “Com’è che ha scopato stanotte con sua moglie?”.
Qualcosa di quell’ordine non è pensabile. Voi mi direte: era così in certe
epoche. Le epoche che hanno permesso un’interrogazione sull’oggetto a di
quel tipo. L’oggetto a l’hanno fatto spostare. Dove uno può fare una domanda di
quel tipo Lacan lo chiamerà il “discorso universitario”. Per Lacan il discorso
universitario non è il discorso dell’universitario. Il discorso
universitario è il discorso della burocrazia staliniana. Nel discorso corrente,
però, il problema è che l’oggetto a rimane un buco. L’imbroglio di Freud sarà
di far uscire l’oggetto a. L’imbroglio è: “Adesso che lei è sul divano dica
tutto quello che le viene in mente”. L’imbroglio è che farà venir fuori quello
quando di per se stesso non verrebbe fuori. Dal resto, l’interpretazione
dell’analista è per provocare che nel discorso che fa l’inconscio si situi quel
che non è dicibile. Non è dicibile perché c’è della vergogna, ed anche per una
altro senso.
A pagina 17 Lacan tocca l’argomento del
sembiante: «Non vi è discorso in cui il sembiante non conduca il gioco. E
tuttavia non è una buona ragione perché l’ultimo venuto, il discorso analitico,
debba sfuggirvi e con il pretesto che questo discorso è l’ultimo venuto voi vi
sentiate a disagio al punto di farne, secondo l’uso con cui si impettiscono i
vostri colleghi dell’Internazionale, un sembiante più sembiante che al
naturale, un sembiante ostentato. Ricordatevi comunque che il sembiante di ciò
che parla come tale è sempre presente in qualunque tipo di discorso lo occupi.
È persino una seconda natura. E allora siate più distesi, più naturali, quando
ricevete qualcuno che viene a chiedervi un’analisi. Non sentitevi obbligati ad
alzare la cresta, anche come pagliacci siete giustificati ad essere». Che
meraviglioso Lacan… devo dire che lui come attore... chapeau. «Basta che
guardiate la mia Televisione: sono un clown. Prendete esempio e non imitatemi.
Il serio che mi anima è la serie che voi costituite». Continua: «Il simbolico,
l’immaginario e il reale sono l’enunciato di ciò che opera effettivamente nella
parola quando vi situate a partire dal discorso analitico, quando – analisti –
lo siete. Ma tali termini emergono solo per e attraverso questo discorso». Il
problema è come si fa a portare questa problematica al livello che lui dice,
ovvero che il discorso analitico è dell’ordine del sembiante. Lacan fa una
differenza: il discorso analitico richiede che l’analista occupi la posizione
di semblant, ma la posizione di semblant non è faire semblant,
non è far finta. Chiunque si metta in quella posizione, in alto a destra nei
quattro discorsi, è sempre nella posizione di semblant. Anche il
discorso analitico non sfugge a questa regola. Nella concezione teologica quel
punto non può essere del semblant ma del vero, ed è quello che passa
come la Verità, con la V maiuscola, non del vero o falso ma la verità come “Io
sono La Verità” del Vangelo, o quella del Corano. L’analista se si mette in
quella posizione credendo che non è quella di semblant, Lacan dice,
«alza la cresta». Lacan ricorda che l’analista non può non sapere che quella
posizione è dell’ordine del semblant. L’analista paranoico si mette in
quella posizione e dice “sono semblant tutti quanti al di fuori di me”,
e l’analista canaglia dice: “so benissimo che è dell’ordine del semblant
però fregherò il mio analizzante facendogli credere che sono esattamente in
quel posto”… non sempre la canaglia coincide col paranoico.
L’analista non può che essere nella posizione di semblant,
ma d’altra parte deve esserlo. L’analista
è logicamente nella posizione simbolica del semblant solo se ha
incarnato l’oggetto a rispetto alla propria analisi, bisogna andare a
verificarlo, Lacan dice che per arrivare a cogliere quel punto bisogna sudare
sette camicie.
Successivamente, Lacan fa dopo un passaggio sul cogito
ergo sum. Dopo aver parlato dello svuotamento degli oggetti a da
quel posto, da quel vuoto, dice: «Ecco, la configurazione che però intendo
tracciare, introducendo la mia terza, è un’altra. L’onomatopea che mi è venuta
in modo un po’ personale mi favorisce – tocchiamo ferro – per il fatto che il
ron-ron è senza dubbio il godimento del gatto». Lacan fa spesso riferimento al
godimento del gatto, noi diciamo “fa le fusa”, ma non rende il francese ronronner
che assomiglia un po’ anche a ronfler, russare. Una delle questioni che
Lacan si pone è in che rapporto stia il godimento rispetto al corpo. L’idea di
Lacan è che il gatto goda, anche se, dice, non ne sappiamo niente. Però
c’immaginiamo che goda, c’immaginiamo che i gigli godano, questo l’ha detto
qualcun’altro un po’ prima di me, e dev’essere vero. E il corpo dell’uomo com’è
che gode là? Dove lo mettiamo il godimento rispetto al corpo? In La terza
il cogito va verso quel versante.
Un’altra lettura di Lacan del cogito
è “penso dove non sono, sono dove non penso”. Evidentemente si possono
collegare. «Se esso passi dalla laringe o altrove, proprio non lo so; quando
l’accarezzo, sembra che sia di tutto il corpo, ed è ciò che mi fa accedere al
punto da cui intendo partire. Parto da qui, e non vi dò necessariamente la
regola del gioco, ma dopo verrà. “Penso dunque si gode” rigetta il “dunque”
consueto, quello che dice je souis». C’è un passaggio a tre punti:
1. Je pense je suis
2. Je pense je souis
3. Je pense se jouit
Passa dal primo al terzo. Presto Lacan indica che
questo je pense non è del soggetto, è del soggetto in quanto è letto
dall’Altro, è l’Altro che pensa je suis, je pense. Indica che il pensiero è sempre di troppo.
Siamo ingombrati dai nostri pensieri. I pensieri si accumulano come problemi
che vengono da fuori, di quel che ci è stato indicato nella vita… Il “tu dove sei” non è nel pensiero ma,
al limite, si può dire tra i pensieri, tra un significante e l’altro. La
definizione di musica di Mozart è: è il silenzio tra due note. Anche l’analisi
ha a che fare con questo.
Je suis, in souis c’è il verbo essere (suis)
e c’è il verbo godere (jouis), li mette insieme. Dal verbo essere passa
al verbo essere-godere, ed è qui che Lacan interroga Cartesio, per passare poi
al godimento che gode in un corpo.
A pagina 19 tratta del sintomo: «Siamo seri,
torniamo a ciò che sto tentando di dire. Devo sostenere questa terza con il
reale che essa comporta, ed è per questo che vi pongo la questione al cui
proposito le persone che hanno parlato con me, prima di me, hanno qualche
sospetto, e lo hanno anche detto – che lo abbiano detto è segno che hanno il
sospetto – la psicoanalisi è un sintomo? Sapete che quando pongo le questioni è
perché ho la risposta. E sarebbe meglio che fosse la risposta giusta. Chiamo
sintomo ciò che viene dal reale. Ciò vuol dire che si presenta come un
pesciolino il cui becco vorace si richiude solo mettendo del senso sotto i
denti. Allora delle due l’una: o questo lo fa proliferare (“crescete e
moltiplicatevi”, ha detto il Signore; è davvero un po’ eccessivo, dovrebbe
farci storcere il naso questo impiego del termine moltiplicazione; il Signore
sa che cos’è una moltiplicazione, non certo un pullulare di pesciolini) oppure
crepa». Forse nel testo francese c’è un en, e sarebbe “ne crepa”. «Sarebbe meglio, e ci
dovremmo sforzare per ottenerlo, che il reale del sintomo crepasse; questa è la
questione: come fare?». Più avanti: «Credo che lo sapessi già, anche se non ne
avevo ancora fatto scaturire l’immaginario, il simbolico e il reale. Il senso
del sintomo non è quello con cui lo si alimenta per la sua proliferazione o la
sua estinzione. Il senso del sintomo è il reale, il reale in quanto si mette di
traverso per impedire che le cose vadano avanti, nel senso di rendere conto di
se stesse in modo soddisfacente. Soddisfacente almeno per il padrone (maître),
cosa che non vuol dire che il servo (esclave) ne soffra in alcun modo,
tutt’altro. Il servo, nella faccenda se ne sta tranquillo più di quanto non si
creda, è lui che gode, contrariamente a quanto dice Hegel, il quale dovrebbe
pur accorgersene, dato che è proprio per questo che si è lasciato convincere
dal padrone». Penso che Lacan per il padrone di Hegel facesse riferimento a
Napoleone. «Il senso del sintomo dipende dall’avvenire del reale, e dunque,
come ho detto alla conferenza stampa, dalla riuscita della psicoanalisi. Ciò
che le si chiede è di sbarazzarci sia del reale che del sintomo. Se essa
succede, se ha successo rispetto a questa domanda, ci si può aspettare di
tutto, ci si può per esempio aspettare un ritorno della vera religione, che
come sapete non ha l’aria di deperire. Non è folle la vera religione, tutte le
speranze per lei sono buone, essa le santifica».
Quello che si chiede alla psicoanalisi è di far
sparire il reale e far sparire il sintomo… direi che questo tipo di ottica
della psicoanalisi è esattamente quella che prende l’Internazionale. E in
questo caso chi vincerà sarà la religione. Lacan quando parla di “religione” e
di “chiesa” scivola sempre tra la religione intesa Romana e l’Internazionale
freudiana, a volte è difficile capire se sta parlando dell’una o dell’altra.
Quindi, quando dice che vincerà la vera religione Lacan dice che vincerà il
tipo di psicoanalisi promossa dall’Internazionale, dove grazie alla
psicoanalisi sparisce il reale e sparisce il sintomo: evidentemente è
un’illusione.
«Ma se la psicoanalisi riesce, si spegnerà per il
fatto di essere solo un sintomo dimenticato». Qui si rimane un po’ perplessi.
La psicoanalisi per rimanere una psicanalisi lacaniana deve fallire! Fallimento
rispetto al reale e al sintomo che però ci lascia tutto il problema del che ne
facciamo del sintomo? «Non deve meravigliarsene, è il destino della verità,
così come essa stessa lo pone in principio: la verità si dimentica. Tutto
dipende dunque dal fatto che il reale insista. Per questo occorre che la
psicoanalisi fallisca. Bisogna ammettere che è proprio la strada che sta
prendendo e che quindi ha ancora delle buone possibilità di restare un sintomo,
di crescere e di moltiplicarsi. “Psicoanalisti non morti, stop, segue lettera”».
Poi c’è un passaggio inatteso su un altro tipo di
religione o, se lo si legge su questa lunghezza d’onda, su come la psicoanalisi
lacaniana può diventare una religione. Una psicoanalisi diventa una religione
quando terapeutizza il mondo, gli toglie il reale – poi dopo dirà che il reale
è impossibile da togliere, ma facciamo finta che glielo si tolga –, che toglie
il sintomo. Utilizzando Marx passa alla possibilità che la psicoanalisi
lacaniana diventi una religione. «Quanto vi ho appena detto può essere stato
inteso male, cioè nel senso di sapere se la psicoanalisi sia un sintomo
sociale. Vi è un solo sintomo sociale: ogni individuo è realmente un
proletario». Lacan dove piazza il proletario? Il proletario è l’oggetto a del discorso marxista. Lacan arriva
addirittura a dire che Marx non ha inventato il capitalismo. C’era altra gente
che sapeva godere della vita, dei quattrini e di altre cose, senza bisogno dei
suoi scritti. Gli scritti di Marx mettono in valore il proletario, è il
proletario che rende questa strutturazione ciò che chiamiamo capitalismo. «Vi è
un solo sintomo sociale: ogni individuo è realmente un proletario, cioè non ha
nessun discorso con cui fare legame sociale»: è esattamente la definizione
dell’oggetto a, bisogna che sia
preso dal discorso, «in altri termini sembiante. Cosa a cui Marx ha posto
riparo in un modo incredibile: detto, fatto. Quel che ha formulato implica che
non c’è niente da cambiare». Il punto per il quale Lacan considera il marxismo
una religione è quando il proletario viene preso come il santo. Poi Marx cerca
di portare il proletario al posto dell’operatore, del sembiante, cioè di far
operare al proletario la posizione di agente. Se non c’è proletario, non c’è
capitalista. Ci sarà sempre il ricco. Nel capitolo V del seminario XVII, Lacan differenzia in modo netto il
ricco dal capitalista. Il ricco è sul versante di chi gode della vita, non di
chi mette in moto l’organizzazione perché ci sia un godere di cui lui non può
godere. Si tenga presente che siamo nel 1974 e il freudo-marxismo era molto in
voga… non si capiva l’ironia che ne faceva Lacan.
«Socialmente la psicoanalisi ha una consistenza
diversa dagli altri discorsi. È un legame a due. Proprio per questo si trova al
posto della mancanza di rapporto sessuale. Il che non basta certo a farne un
sintomo sociale, dato che un rapporto sessuale manca in tutte le forme di
società». Il non c’è rapporto sessuale vale per tutti i discorsi, quindi non è
lì la questione, non è lì che la differenzia dal marxismo. «È legato alla
verità che fa la struttura di qualsiasi discorso. D’altronde proprio per questo
non c’è una vera e propria società basata sul discorso analitico».
Altrove Lacan dice qual è la condizione per cui
la psicoanalisi lacaniana può evitare di diventare una religione. È la
questione che gli era stata posta il giorno prima, nel suo intervento a Piazza
Campitelli, intervista pubblicata su Il trionfo della religione. Quando
il discorso dell’analista mette questo vuoto nel posto del semblant,
ricorda Lacan, l’analista lo deve incarnare. Quest’incarnazione è espressa in
modo molto netto in Television e ripetuta nel testo, pronunciato a
Nizza, Il fenomeno lacaniano. Ricorrendo al nodo borromeo, la differenza
con il proletario è che Marx situa il proletario collegato con il godimento
fallico, cioè il “per tutti”, mentre Lacan situa l’analista sul pas tout,
e lo gioca sul “sono in due”. Nel discorso, Marx, situa il proletario nella
posizione del discorso dell’analista, cioè lo mette in una situazione per cui
tutto il discorso gira attorno al proletario. Però lo santifica. E poi dice: è
il per tutti. Da quel momento diventa una religione. Invece, l’analista è nella
posizione di oggetto a, che rimane però un pas tout, e ciò evita che il
discorso analitico diventi una religione. Tuttavia, vi è un aspetto negativo:
non può fare legame sociale. «D’altronde proprio per questo non c’è una vera e
propria società fondata sul discorso analitico. C’è una scuola, che per
l’appunto non si definisce come società. Si definisce per il fatto che (io) vi
insegno qualcosa». Qui indica la posizione che Lacan ha preso rispetto a Freud:
“io insegno qualcosa”. Rispetto all’organizzazione che lui ha creato, che ha
chiamato École Freudienne de Paris, si è situato come l’oggetto a. Freud si
situava nella posizione del padre morto, tant’è che non è mai stato presidente
dell’Internazionale. Lacan si situa in quella posizione, nello stesso tempo
sapeva che essere in quella posizione voleva dire essere nella posizione di
essere scartato... questo lascia da pensare per il nostro futuro.
Lacan, nel suo insegnamento, opera uno
spostamento dal linguaggio a lalingua. Mantiene la posizione dell’inconscio
strutturato come un linguaggio, allo stesso tempo il linguaggio non è più
quello dell’ordine dei linguisti. Cos’è che Lacan intende per lalangue?
Anche nel testo c’è uno scivolamento, a volte lalangue lo scrive con una
sola parola, in altre la langue. Nel testo si notano delle imperfezioni,
addirittura un lapsus che fa morire il povero Lévi-Strauss, mentre si trattava
di Merleau-Ponty (Cavasola l’ha corretto, ma lui non disse “Merleau-Ponty”,
disse che era morto Lévi-Strauss). Imprecisioni che sono uno dei problemi nella
traduzione di Lacan, perché non si sa se si tratta di un errore, se è un gioco
di parole, oppure se fatto apposta o se non è fatto apposta.
Pagina 23: «L’interpretazione, ho formulato, non
è interpretazione di senso, ma gioco sull’equivoco». L’idea di Lacan è che se
si dà senso non si fa altro che innaffiare il prato del sintomo, e così il
prato cresce. L’analista taglia l’erba, e non la fa crescere. È la
differenza rispetto ai post-freudiani, loro fan venir su l’erba, noi la
tagliamo. «Proprio per questo ho messo l’accento sul significante nella lingua.
L’ho indicato con l’istanza della lettera, per farmi intendere dal vostro po’
di stoicismo. Ne risulta, ho aggiunto da allora senza nessun effetto, che
l’interpretazione si opera partendo da lalingua, il che non impedisce che
l’inconscio sia strutturato come un linguaggio», fa una differenza netta tra
lalingua e il linguaggio, «uno di quei linguaggi di cui è appunto compito dei
linguisti far credere che lalingua sia animata (...). Lalingua è quel che
permette di considerare che il voto (voeu), l’augurio, non a caso è
anche il vuole (veut) (...)».
La lingua ha delle particolarità proprie. Ogni
lingua ha una genialità. Lacan sottolinea la genialità francese e indica che
non è la genialità di tutte le lingue. Indicherà che c’è una genialità nel
giapponese che per lui è estranea, però se ne farà qualcosa. Dove la troviamo
questa genialità della lingua italiana? È chiaro che c’è il gioco
dell’equivoco, noi a volte abbiamo delle facilitazioni sull’equivoco,
soprattutto sul fatto che chi ci parla ci dà del Lei. Il “lei” si applica a
tanti oggetti, dalla madre all’amante, ecc… C’è uno scivolamento forte, facile
da percepire, da intuire. Un’altra cosa che ho notato, che a mio parere è più
tipica della lingua italiana, è l’equivoco di tipo logico più che verbale:
quando una persona sta dicendo una cosa e il suo rovescio contemporaneamente,
c’è qualcosa che logicamente non sta in piedi, quel che è detto non corrisponde
con quello che segue; generalmente non è una parola, è più nell’ordine di una
frase nella quale una contraddizione è detta immediatamente dopo. In francese è
facile il lapsus sulla parola sola. Una di Lacan è quando dice: le sujet
parle au lieu de l’Autre. Come tradurlo? Correttamente è “in luogo”, che
vuol dire “in vece” dell’Altro. Nel dizionario au lieu non ha mai il
senso “nel luogo” dell’Altro. Lo scivolamento è tra “in luogo dell’Altro” o
“dans le lieu de l’Autre”. Di solito, quando parliamo tra di noi, si sente
piuttosto “nel luogo dell’Altro”. Il Littré lo esclude, però il fatto che lo
escluda non vuol assolutamente dir niente per Lacan. C’è uno scivolamento tra
“in luogo dell’Altro” e “nel luogo dell’Altro”. Non è “al posto dell’Altro”, le
lieu e la place non sono uguali per Lacan. Questo genere di cose
sono più difficili da tradurre del gioco di parole, perché il gioco di parole
lo s’inventa. Ne L’Étourdit si trovano falloir e faillir,
in francese sono differenti, in italiano si congiungono, come del resto in
latino. Ne La terza ne indica alcuni: «Lalingua è quel che permette di
considerare che il voto (voeu), l’augurio, non a caso è anche il vuole (veut)
di volere, terza persona dell’indicativo; e non è neanche un caso se il no (non)
negante è il nome (nom) nominante; e che di loro (d’eux) (“di”
prima del “loro” che designa quelli di cui si parla) sia fatto nello stesso
modo della cifra due (deux) non è un puro caso, e non è nemmeno
arbitrario, come dice Saussure. Occorre considerare in che modo il deposito, il
sedimento, la petrificazione da parte di un gruppo della propria esperienza
inconscia vi lasci il segno». Qui vi è la risposta all’inconscio junghiano.
Lacan non considera che ci sia un inconscio collettivo, considera che in un
gruppo, in un popolo, ci sia una sedimentazione che viene poi utilizzata nel
gioco dell’inconscio delle persone, ma che non è identica. Lacan arriva a dire
che la lingua è dell’ordine di una lingua che non può dirsi vivente anche se in
uso: è una sedimentazione. Semmai, arriva addirittura a dire che essa veicola
la morte del segno.
«Il fatto che l’inconscio sia strutturato come un
linguaggio non impedisce alla lingua di giocare contro il suo godere, giacché
essa si è fatta di questo godere stesso. Quel soggetto supposto sapere che è
l’analista nel transfert, non è supposto a torto se sa in cosa consiste
l’inconscio: un sapere che si articola da lalingua, dove il corpo che parla è
annodato solo dal reale di cui “si gode”». È la definizione dei tre godimenti
nel nodo borromeo. Definizione da interrogare prendendo, ad esempio, Lituraterre
e la prefazione agli Scritti in giapponese. Come è che avviene in un
altro gruppo dove la sedimentazione non è esattamente uguale? Lacan indica che
c’è una particolarità de lalangue, che è specifica. Attenzione, c’è
tutta una teoria secondo cui l’inconscio, per esempio, italiano non è
l’inconscio spagnolo. Non è di quest’ordine ciò di cui Lacan parla. Piuttosto,
Lacan parla di sedimentazioni che hanno degli effetti per il soggetto che le
utilizza. In Giappone arriva a dire che la distanza è tale che lui non riesce a
capire a cosa servirebbe che un giapponese leggesse gli Scritti.
Lacan porta un esempio di come funziona lalingua
nelle virtù teologali, a pagina 26: «Giacché siamo a Roma, cercherò di darvi
un’idea di cosa ne sia di questa unità del significante da ricercare. Come
sapete, ci sono le famose tre virtù dette appunto teologali. Qui le vediamo
presentarsi sui muri proprio ovunque sotto forma di donne formose. Il minimo
che si possa dire è che trattandole come sintomi non si esagera poi tanto,
giacché definire il sintomo, come io l’ho fatto partendo dal reale, vuol dire
che le donne, il reale, lo esprimono molto bene e infatti, insisto, le donne
sono non-tutte. A questo punto, se designassi la fede, la speranza e la carità
come la foire, laisse-père-ogne, (“lasciate ogni speranza” è un
metamorfema come un altro, visto che prima mi avete fatto passare ourdrome)
se le denominassi così e finissi con la tipica cilecca, cioè l’archiraté»,
in francese vuol dire “far cilecca a letto”, o una cosa che è archiraté significa
che andata male, che non funziona, «mi sembrerebbe di avere un’incidenza più
effettiva sul sintomo di queste tre donne». Con esempi gioca sull’utilizzo de lalangue.
Il giorno prima Lacan aveva fatto un gioco sulla foire: Lacan diceva la foire,
il giornalista diceva “no sto parlando della foi”; la foire in
francese non vuol solamente dire “la fiera” ma anche “la cacarella”.
Tutto questo serve, esattamente, per
l’interpretazione.
Segue un passaggio in cui Lacan fa riferimento
alle tre questioni di Kant, che Miller riporta in Televisione [Rif.: in Altri
Scritti, pag. 529 e sg.]: che cosa posso sperare? che cosa posso fare? che
cosa posso sapere? Questioni cui Miller fa riferimento esattamente alla persona
che le ha pensate, un domenicano del XIII secolo, e che servivano per la
formazione dei domenicani, che Kant riprenderà. Lacan risponde a Miller quasi
interrogando la singolarità di Miller, parlando a lui direttamente, non a un
voi generale.
«Ho fatto questo esempio per non arenarmi in ciò
che vi avevo dato all’inizio come gioco, per esempio di ciò che occorre per
trattare un sintomo, quando ho detto che l’interpretazione, per non essere
qualcosa che alimenta il sintomo di senso, deve mirare a quel che c’è di
essenziale nel gioco di parole» al modo di Marcel Duchamp. «Quello slittamento
della fede (foi), della speranza, e della carità verso la foire
(...) è uno dei miei sogni».
Trascrizione:
Sofia Gessi
Redazione:
Giuseppe Perfetto
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