Presentazione di
Isabella Ramaioli
Vilma Coccoz è una collega della Escuela Lacaniana de
Psicoanálisis, membro
dell’AMP, attualmente fa parte del Comitato “Azione Una” e all’interno dell’AMP
coordina l’Osservatorio sulle Politiche sull’Autismo. Ha una pratica importante
in istituzione, ha pubblicato molti lavori ed è docente del Nucep, l’istituto
di insegnamento spagnolo all’interno del quale, recentemente, ha promosso una
rete di consultazione analitica.
Proseguirà il nostro lavoro sul testo di riferimento
di quest’anno: La terza, di Lacan.
Relazione di Vilma
Coccoz
La “Red Psicoanalítica de Madrid” è un dispositivo di pratica per i partecipanti
al Campo freudiano a Madrid che ha due finalità: facilitare le pratiche
cliniche delle persone che studiano nel Campo freudiano e costituirsi come
laboratorio di ricerca sullo stato della soggettività nel momento di crisi che
oggi attraversiamo. È un’istituzione invisibile, come l’ha definita Alfredo Zenoni,
ma con grande fondamento analitico.
Comincerò il mio commento con un sottotitolo: il
vento lacaniano. A Lacan piaceva far riferimento agli elementi. All’apertura
del Congresso di Roma del 1974 dove presenta La terza dice: «è a causa
mia, per via di ciò che chiamo il vento…», e continua dicendo che apprezza da
coloro che vogliono gonfiare le loro vele con questo vento il modo in cui
prendono l’autenticità della propria navigazione. Esiste una maniera di
gonfiare le vele della nostra imbarcazione autenticamente lacaniana e un’altra
che non lo è. Per distinguerle possiamo riprendere la quarta questione del
testo Television [Rif. in: Altri scritti, p. 516].
L’intervistatore chiede: «Sono vent’anni che lei propone la formula secondo cui
l’inconscio è strutturato come un linguaggio, e che le si oppone, varie forme:
“Sono solo parole, parole, parole. E di quel che non è inzeppato di parole, che
ne fa? Quid dell’energia psichica, o dell’affetto, o della pulsione?». Lacan
risponde: «Lei imita i gesti con cui nella SAMCDA (società di mutua assistenza
contro il discorso analitico) si simula un patrimonio. Perché, come lei sa,
almeno a Parigi, i soli elementi di cui ci si sostenti nella SAMCDA provengono
dal mio insegnamento. Esso penetra dappertutto, è un vento che assidera quando
tira troppo forte. Allora si torna ai vecchi gesti, ci si riscalda
raccogliendosi a congresso». Questo comportamento è condizionato dal fatto che
loro non vogliono sapere nulla del discorso che li condiziona.
Il vento lacaniano soffiava forte negli anni ‘70. Nel
1974 Lacan è invitato a Nizza a parlare del fenomeno lacaniano. A Lacan non
sembra ben formulato discorrere di “fenomeno”, preferisce parlare di “effetti”
lacaniani: ci sono alcuni “dire” che contano, che hanno effetti, e si tratta di
vedere se i “dire” lacaniani hanno un effetto. Di questo si occupa la
psicoanalisi, degli effetti della parola. Lacan constata che i suoi scritti si
vendono, i lettori non capiscono niente ma qualcosa producono spremendosi le
meningi cercando di decifrarli.
Nella conferenza stampa dell’ottobre 1974 un
giornalista lo incalza: «Da quanto ho capito sulla teoria lacaniana, alla base
dell’uomo non c’è la biologia o la fisiologia ma il linguaggio. Lo aveva già
detto San Giovanni: in principio era il Verbo. Lei non ha aggiunto niente».
Lacan risponde: «Io ho aggiunto qualcosina. Sono completamente d’accordo
con il fatto che in principio era il verbo. Il dramma comincia però quando il
verbo s’incarna, e da quando il verbo si incarna le cose cominciano ad andare
davvero male: non si è felici in assoluto, non si assomiglia al cane che
scodinzola contento, neppure alla scimmia che si masturba, non assomiglia in
niente. Siamo devastati dal verbo».
La questione essenziale è in quale modo l’insegnamento di Lacan ha modificato
completamente la pratica dell’analisi. Studiamo per sapere in quali punti e in
quale modo il vento lacaniano ci serve per gonfiare le vele della navigazione,
perché la materialità significante del testo lacaniano favorisca la sua
funzione di trasmissione, di disseminazione, d’inseminazione non artificiale.
Attraverso i corpi parlanti che siamo, prestando la nostra voce al suo
messaggio, compiamo con il proposito lacaniano. Lacan considerava il proprio
testo come delle lettere aperte, desiderava che ciascuno leggendole ci mettesse
del suo. Dare aria ai testi dipende dalla nostra posizione.
Continuando con la metafora degli elementi, nella
conferenza Il sintomo [in: La Psicoanalisi, n. 2], Lacan dice che
se parliamo di navigazione essa si produce nell’acqua. Lacan parla delle acque
del linguaggio, forse per il carattere informe, illimitato, e dice: «in quel
mare del linguaggio, facciamo ciò che possiamo, prendiamo alcuni detriti, di
alcune parole facciamo qualcosa, proviamo a darle una forma di barca che ci
permetta di galleggiare, cioè non soccombere». Freud diceva che soccombere è
facile ma non insegna niente. Naufragare è facile ma non serve. Nella pratica
della psicoanalisi, intesa come una navigazione singolare, abbiamo bisogno
delle carte nautiche lacaniane per orientarci e non naufragare. Ne La terza,
Lacan si riferisce alla specificità del discorso analitico, del perché opera
dove altri discorsi naufragano.
Qualche tempo fa ho avuto l’onore di presentare il
libro di Martin Egge La cura del bambino autistico. Ho confrontato il
lavoro dell’Antennina con un tipo di navigazione che si chiama “navigazione
stimata”, diversa dalla navigazione lungo la costa. Quando si vede la costa si
riesce a seguire la rotta con i fari, ma la navigazione stimata, non potendo
avere come riferimento la costa, deve tenere in considerazione altri fattori
come il vento e le correnti. Il punto cui si vuol arrivare con la navigazione
stimata si chiama “punto di fantasia”. Dove vogliamo arrivare? È una domanda
che riguarda la nostra pratica anche in un’istituzione come l’Antennina. In
istituzione il punto di fantasia non è un porto standard, è un porto che si va
formando al ritmo d’ogni bambino. È un passaggio che si realizza nella vita,
nelle acque a volte tranquille e altre con correnti contrarie, una volta con
vento a favore altre con vento contrario, in ogni momento possono sorgere
sorprese, trovate, delle difficoltà… Per dispiegare le vele col vento lacaniano
non possiamo risparmiarci delle difficoltà… per esempio scegliere il testo La
terza per commentarlo.
Lacan inizia la conferenza La terza con un
gioco di parole: la terza è la prima, fa come “un disco”. Il primo gioco
di parole in francese è composto da “disco”, “dire che”, “dice cosa”. Un gioco
d’equivoci nell’omofonia tra “disco”, “dire che” e comporre un numero nel
telefono a disco. Questo modo di introdurre la conferenza dà un’idea del punto
in cui Lacan intende collocare la sensibilità dei suoi ascoltatori, sensibilità
rispetto a quello che si ascolta nelle parole. Nella parola, quando ascoltiamo,
leggiamo per dare un senso.
Nel seminario Ancora si era riferito al
discorso analitico dicendo che nel discorso si parla di qualcosa. Anche se
occupa un posto limitato, resta chiaramente enunciato col verbo inglese “to fuck”.
Dice: «e si dice che c’è qualcosa che non va. Si tratta di una parte rilevante
di quel che viene confidato nel discorso analitico» [Il seminario, Libro XX,
p. 30]. E Lacan sottolinea che non è un privilegio del discorso analitico, è
anche ciò che esprime il discorso corrente, che suona uguale a “discorso di
Roma”. Un altro gioco di parole lo fa attorno al discorso fuori campo, fuori
d’ogni discorso e anche disco, che gira a vuoto. È il disco che si trova nel
campo in cui tutti i discorsi si specificano e dove tutti naufragano, alla fine
si parla di quello che costituisce il fondo della vita, quello che tocca le
relazioni tra uomini e donne, quel che si chiama una collettività. È qualcosa
che non va e tutto il mondo ne parla. Passiamo tutto il tempo a dire che non
va, e con questo l’unica cosa seria è ciò che si ordina in modo distinto come
discorso. Parlarne, lamentarsene, non facciamo altro, dice Lacan. In cosa si
distingue il discorso analitico per operare?
Il discorso analitico si distingue per il modo in cui
si ordina la faglia della quale tutti parliamo, e anche per il modo in cui si
coglie il beneficio che si può avere da questa messa in ordine. In questo senso
si capisce lo sforzo che Lacan fa, negli ultimi anni, per stabilire la
differenza rispetto al discorso religioso. Il discorso analitico e religioso
sono le due uniche di-mensioni, del dire-detto-disco, che si occupano della
relazione problematica dell’essere parlante col godimento. Tutto il resto sono
teorie, il discorso religioso e quello analitico no. Il discorso religioso
interpreta la faglia in termini di peccato, il discorso analitico cerca di
coglierne la logica per evitare il disorientamento, fare naufragio, quel che
Lacan chiama lo smarrimento del godimento. Jacques-Alain Miller, nella presentazione
del Congresso del 2016, ha detto che il fatto che sia permesso godere, a
differenza del divieto di una volta (e ancor più che non permesso,
l’incitazione, l’intrusione al godimento, la provocazione, la forzatura) non ha
dato sollievo rispetto alla faglia del godimento.
Lacan continua dicendo che serve che qualcuno
ascolti, dische, qualcosa di questo discorso di Roma, “disco dell’orso”,
con riferimento a persona poco socievole, si tratta di un discorso di ciò che
non va, “non socievole”, che non fa rapporto. Questo inietta un po’ di
onomatopea nella lingua, la quale è vincolata ai limiti del sistema fonematico:
in francese il discorso “di Roma”, “d’osso”, o l’“originario” in tedesco, drom
è un suffisso preso dal greco che significa “pista”, come per esempio in
“aerodromo”. Qual è la buona via? Se tutte le strade conducono a Roma, qual è
quella giusta? Qual è la buona via lacaniana per orientare la nostra
navigazione?
Il gioco di parole sul titolo permette a Lacan di
collocare la voce nella rubrica degli oggetti a, separando il rumore, perché la
voce può essere ascoltata come un rumore, svuotando la voce della sostanza,
della materialità del rumore, e mettendola in conto all’operazione
significante, cioè nella metonimia, come da un significante possiamo passare a
un altro: disco, discorso, Roma, orso, ecc., un permanente slittamento
metonimico. Lacan dice che a partire da qui la voce è libera di essere qualcosa
di diverso che non sostanza. Ma introducendo La terza in questo modo si
propone un’altra differenziazione, diversa che non tra voce e significante.
L’onomatopea favorisce un’altra differenziazione che Lacan confronta col
ron-ron del gatto, che non si sa da dove esca, sembra che esca da tutto il suo
corpo. Ora, è interessato a separare la voce dal godimento. L’onomatopea è
l’imitazione linguistica o la rappresentazione di un suono naturale non
discorsivo, per esempio bum!, clap!, bing!...
C’è un collegamento tra l’onomatopea e lalingua.
Qualche mese fa un analizzante mi chiede di vedere suo figlio, che ha due anni
e mezzo, perché ha completamente smesso di parlare durante un’assenza della
madre per un viaggio. Aveva iniziato a parlare bene da poco. Nel primo
colloquio con tutta la famiglia, il bambino si occupa di mettere in ordine i
giocattoli, ponendoli a coppie, separando gli animali dalle persone. Mentre
parlo con i genitori, e cerco di mettere ordine alla confusione che presentano,
impedisco alla madre di raccontare con rigoglio di dettagli il momento
sfortunato della nascita del bambino. Il bambino mi guarda e mi ascolta
attentamente, alla fine gli chiedo se vuole tornare la settimana successiva e
dice esplicitamente sì. Li vedevo a volte tutti insieme, a volte madre e
bambino, a volte il padre e il bambino. Durante quel periodo il bambino metteva
in ordine e nominava. Dopo le ferie la madre decide di non tornare, non importa
per quali ragioni, quindi continuo a lavorare col padre e con il bambino. Il
gioco del nominare consisteva nel fatto che prendeva un oggetto dalla scatola,
io gli chiedevo con un gesto che cosa fosse e lui, contento, diceva il nome. Il
padre lo correggeva e lui si correggeva a sua volta. Un giorno venne fuori un
rumore incomprensibile che io ho ripetuto, allora si aggiunse il gioco del
ron-ron, metà lalingua metà onomatopea, con grandi cambi di tono. Lo scambio di
suoni non comprensibili era molto piacevole per il bambino. Così ho introdotto
il padre nel gioco perché il bambino pretendeva di giocare solo con me, e
questo non era importante. Il bambino approfittava per mettere il padre e me in
difficoltà, non riuscendo a ripetere i suoni che lui faceva. In poco tempo il
suo vocabolario è diventato ricco e preciso, tuttavia terminavamo le sedute con
un sovrappiù di questo scambio culminante con un’onomatopea riconoscibile e riconosciuta.
Lacan opera una trasformazione dell’aforisma di
Cartesio “Penso dunque sono”. Ne La terza dà una nuova versione del
cogito cartesiano, versione che corregge quella su cui ha lavorato nella logica
del fantasma. Lacan collega il “penso dunque esisto” di Cartesio con
l’inconscio e l’Es freudiano attraverso una negazione: “io non penso” è
l’inconscio, “io non sono” è l’Es. Prima di pronunciare La terza è
arrivato a questo punto. Il fantasma è un complemento d’essere, un’operazione
pulsionale che aggiunge un complemento all’inconscio. Là dove non penso, lì c’è
l’Es.
Nel seminario sull’etica, Lacan dice che è
impensabile che siano potuti apparire prima del XVII secolo la psicoanalisi
come pratica e l’inconscio di Freud come scoperta. Formulata come una divisione
fra il sapere e la verità, l’esperienza del cogito cartesiano diede luogo
all’istituzione del soggetto in senso moderno, come soggetto della scienza. Per
questo motivo, per Lacan, non riconoscere la paternità culturale che c’è tra
Freud e una certa svolta del pensiero in quel punto di frattura significa
misconoscere il tipo di problema al quale punta la ricerca freudiana. Il
rovesciamento del pensiero, “penso dunque esisto”, è stato anticipato
dall’invenzione del quadro, grazie all’alleanza di arte e matematica che ha
avuto luogo nel Quattrocento con l’invenzione di ciò che chiamiamo la
prospettiva geometrica. Da questo momento, il mondo che prima era un libro da
decifrare diventa un mondo che deve essere scoperto, esplorato con i propri
occhi e indipendentemente dallo sguardo divino e dalla verità rivelata. L’uomo
si trasformò in un’entità psicologica autonoma. Secondo Gérard Wajcman una
rivoluzione dello sguardo, il quale dimostra, in un libro che si intitola Fenêtre (Finestra),
l’equivalenza della logica del quadro, della finestra e del fantasma. Il
fantasma è quel che organizza il nostro rapporto col mondo. La rivoluzione
dello sguardo che si produce nel Quattrocento scatenò trasformazioni a cascata
nella soggettività perché si inaugura un nuovo modo di godere, godimento che si
aggiunge alla vista. Nel Quattrocento si inventa il quadro, e nell’architettura
nasce la finestra. Ciò è stato sviluppato da Lacan nei primi capitoli del
Seminario XI. Il soggetto moderno sorge come soggetto spettatore e il mondo
come mondo della rappresentazione. C’è una nuova struttura della soggettività
che separa l’ambito interno da quello esterno, il visibile da ciò che è
nascosto, il mondo privato dalla scena pubblica. Si delinea la sfera del
pubblico, il posto dove nascondersi una volta che sono chiuse le finestre,
quindi il luogo della seduta analitica. Ecco perché Lacan mette in relazione
questa rivoluzione del pensiero come antecedente alla scoperta freudiana. Il
filosofo che attraversa questo straordinario mutamento dello sguardo è stato
Cartesio. Cartesio era assillato da un metodo per scoprire la verità perché
pensava che la vista lo ingannasse, che la percezione fosse ingannevole. A ventitré
anni lascia i libri e il suo paese e decide di viaggiare. Va in giro per il
mondo, letteralmente, a vedere corti ed eserciti, a raccogliere esperienze con
la volontà di mettere se stesso alla prova perché convinto che troverà molta
più verità nel ragionamento che ciascuno fa sulle cose che gli interessano. Ha
scritto nella sua madrelingua, il francese, che il Discorso sul metodo
non aveva altro fine che comunicare la sua trovata, che «è stato il risultato
di un immenso desiderio di distinguere il vero dal falso, per vedere
chiaramente le mie azioni e andare con sicurezza nella vita». Sottolineo il
termine “andare”, collegato al termine presente ne La terza “dromo”,
perché Lacan dice che il pensiero sta nei piedi. C’è un collegamento fra
pensiero e andare, che Lacan sottolinea per non perdersi. Il 16 novembre 1619
Cartesio è in Germania. Si produce un incontro col reale in forma di angoscia:
durante la notte scoprì i fondamenti di una scienza ammirevole, a partire da
tre sogni consecutivi che interpretò come messaggio divino. Che il padre del
razionalismo abbia trovato nei sogni gli elementi fondamentali della sua
dottrina costituisce una sicura prova che Dio è un nome dell’inconscio.
A Freud è stato chiesto, da Maxime Leroy, di
interpretare i sogni di Cartesio. Nella sua risposta, Freud, confessa l’ansia
che gli provocò questa domanda perché si riesce a ricavare poco
dall’interpretazione dei sogni prescindendo dalla parola del soggetto sognante.
Il filosofo seppe tradurli immediatamente, interpretando da sé. Nel primo dei
tre sogni, lui è immerso nella notte, febbricitante, in preda al panico,
fantasmi che si levano di fronte al sognatore, cerca di alzarsi per allontanare
i fantasmi ma torna a cadere, vergognandosi di se stesso, sente una debolezza
che lo colpisce al lato destro. Improvvisamente si apre una finestra della sua stanza,
si sente trasportato da una raffica di vento impetuoso che lo fa girare sul
piede sinistro, si trascina vacillando. Non dimentichiamo che lui voleva andare
con sicurezza nella vita, adesso, nel sogno, lo vediamo traballare per il vento
impetuoso. Tenta, con grande sforzo, di entrare nella cappella per fare le
devozioni e in quel momento passano alcune persone, vuole fermarle e parlargli,
nota che una di loro porta un melone, ma un vento fortissimo lo spinge
nuovamente fuori dalla cappella. Apre gli occhi e sente un forte dolore sul
lato sinistro, non sa se è sveglio o se dorme: è la sua preoccupazione
fondamentale, se è vero oppure no quel che vede. È una preoccupazione che
abbiamo tutti. Sveglio solo a metà, si dice che il genio malevolo ha tentato di
sedurlo e mormora degli scongiuri per esorcizzarlo. Il genio malevolo è un
personaggio che Cartesio suppone come qualcuno che inganna rispetto a ciò che
percepisce. Cartesio cerca la garanzia della verità. Cartesio arriva alla
garanzia divina: le cose sono vere perché è Dio che vuole così. Torna a
dormire. Un tuono lo sveglia, vede dei lampi e ancora si domanda se è un sogno
o una fantasia, se dorme o è desto, aprendo e chiudendo gli occhi per arrivare
a una certezza. Poi, tranquillizzatosi grazie ai suoi ragionamenti, si è potuto
accorgere che i lampi e le scintille non erano reali ma prodotti nell’oscurità
dalla sua vista. Arriva un terzo sogno, non così angosciante come i precedenti.
Cartesio apre un dizionario, poi un’antologia di poesie. Il camminatore
intrepido sogna il seguente verso: qual è il cammino da seguire nella vita?
Improvvisamente arriva un uomo che non conosce e vuole fargli leggere un pezzo
di Ausonio che comincia con queste parole: si e no. L’uomo sparisce e ne arriva
un altro. Anche il libro sparisce. Dopo torna abbellito con ritratti incisi sul
rame, e la notte trascorre tranquilla. Il dizionario, come interpreta lui
stesso, rappresentava l’insieme delle scienze, la collezione di poesia,
filosofia, sapienza che si trova nello spirito di tutti. Già sveglio continua a
meditare sul sogno. Il titolo completo della poesia di Ausonio è: il Sì e il
No di Pitagora, allora Cartesio comprende che alludeva alla verità e
falsità delle scienze umane e della conoscenza umana. Il clima di quest’ultimo
sogno era gradevole, e lo prese come un’indicazione di quale dovesse essere il
suo cammino e verso dove rivolgere tutti suoi sforzi durante la sua vita
futura, cioè contribuire alla distinzione tra verità e falsità. Cartesio si
applica a risolvere il dubbio rappresentato nel sogno dalla tensione tra la
parte destra e quella sinistra, ma lascia da parte il dettaglio del melone, che
viene da un paese straniero e che non è sfuggito alla perspicacia di Freud.
Freud dice: «Il sognatore ha avuto l’idea (originale) di vedere raffigurato in
esso le attrattive della solitudine, presentate però con allettamenti
esclusivamente umani» [Opere, Vol. X, p. 549]. Freud deduce che
l’elemento che ostacolava il movimento, ciò che impedisce di seguire il cammino
retto nella vita, l’emiplegia del primo sogno, costituisce una raffigurazione
del conflitto interiore del sognatore la cui massima espressione, per il grande
artefice del dubbio metodico, è indicata come l’alternativa tra il si e no
della poesia di Ausonio. Questo non vuol dire che possiamo diagnosticare
Cartesio ossessivo, ma è un’indicazione della sua posizione soggettiva a
partire dalla quale fa qualcosa con questo. Tutta la filosofia moderna si fonda
su tale operazione… le cose nascono così, col tormento soggettivo.
Lacan ammira il tormento di Cartesio, è lo stesso che
appariva a lui, e confessa ne La terza, per esempio, «non trovo affatto
che il linguaggio sia la panacea». Non lo è in nessun modo, il linguaggio si
avvolge, si svia, si distorce, e lui patisce questa stessa tortura. Ma è così
quando si vuole andare avanti, se uno vuole rimanere nel comfort sceglie vie
già battute. Come dice Miller, Lacan non seguiva le vie già battute.
Freud stesso è un esempio di questo tormento,
tormento che appare quando scopre qualcosa di nuovo. Freud scrive, in una
lettera a Fliess del 12 giugno 1900, che gli piacerebbe che venisse posata una
targa che dicesse che il 24 luglio 1895 a lui si rivelò il segreto del sogno.
In una successiva lettera dice: «possiamo vedere che quando sorge qualcosa di
nuovo come in Cartesio, il vissuto soggettivo non è quello di oh, che
meraviglia! della rivelazione», aggiungendo che si sente «assolutamente
esaurito col lavoro, ma tuttavia qualcosa germoglia, sorge, minaccia, attrae,
tutto si muove e sbuca, è un inferno intellettuale dove uno strato sorge e un
altro lo copre di nuovo». Vedete il movimento del quale parla Lacan?
L’avvolgersi continuo del linguaggio, nel nucleo più scuro si riesce a scorgere
il contorno di un amore luciferino, ecco perché ha scelto come epigrafe dell’Interpretazione
dei sogni “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo”. Qui vediamo
sorgere la trinità infernale, non divina, La terza di cui ci parla
Lacan, perché, in fine, l’enunciato trasformato Je pense donc je souis
si riferisce a questo tormento. Lacan dice che questo enunciato è un enunciato
del mio soggetto, il je del soggetto della psicoanalisi. Lo spiega nel
testo: è correlativo a uno svuotamento del pensiero, come un buco, una faglia,
una mancanza d’essere. Una delle prime cose che fa Cartesio è dubitare di
tutto, “non posso essere sicuro di niente”: questo è lo svuotamento del
pensiero, cogliere questo buco è ciò che rende possibile che Cartesio raccolga
un reale del buco, che lo nomini: “finalmente posso dubitare di tutto ma non
del fatto che penso”.
Penso ma sono? Risponde alla domanda con l’analisi
dei sogni. Cartesio ha sotto mano l’inconscio come problema del godimento e del
pensiero, ma sceglie il discorso del padrone, «la musica dell’essere» come dice
Lacan ne La terza. Cartesio pensa e ricostruisce il proprio pensiero con
il discorso del padrone. Lacan constata che si può afferrare il “penso dunque
sono”, ma subito dopo ci scappa via quando cogliamo qualcosa del pensiero.
Quale sarebbe la permanenza del nostro pensiero? Lacan dice che Cartesio, come
tutti, è perso in questo assunto. Perché per parlare una lalingua ci vuole un
inconscio, ed è perduto per tutti. Perché il sapere è un sapere impossibile da
raggiungere per il soggetto: ciascuno di noi di fronte al sapere inconscio è
rappresentato da un significante. Non possiamo prenderlo, come un pensiero
dell’essere con consistenza assoluta, perché il buco del linguaggio lo
trasforma e lo porta via. Quindi è interessante il successivo punto, in cui
Lacan parla di tornare al senso del je souis, che è l’operazione di
minare il senso della massima cartesiana. Perché prende l’essere a partire dal
verbo essere, per esempio il verbo “fui” non funziona col verbo “essere”. E
Lacan si chiede: cosa è successo? La linguisteria si regola con questo come
può.
Lacan ironizza sul mito creato per spiegare le lingue
indoeuropee, una costruzione universitaria sull’origine della lingua al
servizio della finzione di un popolo dominante. Lacan prende il verbo “essere”
per quello che è, una copula, “io sono qualcosa”. Si fa la “copula” con il
predicato, si “congiunge” col predicato. Ancora, prende l’equivoco del
linguaggio (lalingua) per dare aria alla musica dell’essere, alla copula
dell’essere. Lacan è critico con se stesso perché all’inizio aveva detto che
l’essere si poteva acquisire nella parola a partire da un patto simbolico, per
esempio chi dice “sei la mia donna” è (messaggio in forma rovesciata): “sono il
tuo uomo”.
Ne La terza Lacan fa un gioco attorno
all’amore, allo slittamento del verbo essere e sull'uccidere, un gioco tra il
verbo “amare” e il verbo “sostieni”, che in francese suonano uguali. La domanda
sarebbe: mi ami o mi sostieni? Dall’introduzione del gioco di equivoci del
verbo “essere” la copula si rompe. Copula illusoria: l'idea che facciamo coppia
con l’Altro. Lacan continua: «è inaudito che abbia preso senso il nodo RSI,
così come ha preso senso il “penso dunque sono”. Ma è il vento che soffia, che
io non posso prevedere e che gonfia le vele della nostra epoca».
«Come togliervi dalla testa l’uso filosofico dei miei
termini? Vale a dire, il suo uso grossolano quando entrano così nella testa.
Voi vi immaginate che il pensiero stia nel cervello». L’ultima versione del
corpo lacaniano si situa nel nodo borromeo, incorpora il supporto che è il
corpo vivente, il corpo simbolico che è il corpo del significante e il corpo
vincolato al godimento della lingua.
Cosa si produce nel nostro corpo quando ascoltiamo la
lingua?
E cosa facciamo con quello che ascoltiamo?
Alcune parole introducono nel corpo delle
rappresentazioni imbecilli, ed ecco: siamo nell’immaginario. Lacan aggiunge,
con un gioco di parole, che l’immaginario vomita senso. L’immaginario ci vomita
senso, ancora e ancora. Dietro ciò c’è l’idealismo, che tutto sia prodotto
dalle nostre idee. Questo è l’immaginario. La gente non chiede altro... Il
pensiero è la cosa più cretinizzante che c’è... col dai e dai ancora senso!
Proposito ne La terza è disattivare l’idea
della potenza del pensiero: «Voi pensate che il pensiero è nel cervello, per
quanto mi riguarda è nelle pieghe della fronte». Lacan dice, è come quando si
trova un riccio: lo si prende, si mette in tasca e si porta nella casa di
campagna. Il riccio si chiude, si appallottola, come facciamo noi. Abbiamo
delle rappresentazioni imbecilli su noi stessi, sui nostri pensieri, e ci
chiudiamo su di noi pensando che siamo uno, pensiamo che siamo uno col nostro
mondo che vediamo, cioè il mondo della rappresentazione.
Lacan dice: «per un istante vorrei che il vento»,
l’uso corretto dei termini lacaniani, «vi entrasse non nella testa ma dai
piedi, per prendere la via giusta». Lacan usa il termine frayage, il bahnung
di Freud, per tradurre “facilitazioni”, aprirsi delle vie facilitate. Qual è la
via giusta? Ne La terza parla agli analisti, dice che il punto sarebbe
che lasciaste qualcosa di diverso da un membro del corpo, che lasciaste
l’oggetto insensato, l’oggetto a, per offrirlo come causa del desiderio al
vostro analizzante. L’analista mette il suo corpo nell’analisi, l’importante è
come mette il suo corpo nell’azione analitica, dove arriva con il suo corpo per
condurre l’analizzante. Si suppone che l’analista sappia qual è la via giusta,
quella dell’inconscio… ma non è semplice. Lacan dice che il punto è che bisogna
lasciare qualcosa di diverso rispetto al corpo, ecco perché non abbracciamo
l’analizzante, può succedere ma è raro. Si tratta di poter cogliere esattamente
ciò che può rispondere alla vostra funzione.
L’oggetto a è un oggetto insensato, fuori dal pensiero,
ecco perché non basta avere un’idea per fare una parvenza dell’oggetto a.
L’oggetto a è un oggetto fuori dal corpo ma vincolato al corpo. Tutti gli
oggetti (orale, anale, scopico e vocale) sono fuori dal corpo ma legati alla
logica del corpo. Lacan ci dice che l’analista deve essere la parvenza
dell’oggetto a del suo analizzante, qualcosa che è legato al corpo ma non al
corpo vivente in quanto tale, non al corpo immaginario che dice “penso dunque
sono”.
Lacan dice: «io non ho avuto l’idea dell’oggetto a,
io l’ho scritto», questa differenza è molto importante. L’oggetto a non è
uscito dal mondo delle idee. Lacan spiega, nel Seminario XXIII, che
l’importante dell’oggetto a è l’ob, l’ostacolo, il nome dell’ostacolo ad
ogni pensiero. Quando inciampiamo nelle nostre difficoltà di pensiero, cosa che
succede tutti i giorni, c’è di mezzo l’oggetto a. È il nome della nostra
inibizione, dei nostri ostacoli. È un oggetto eterogeneo al simbolico e agli
altri oggetti pensati, ecco perché è reale, è di un altro registro. Per questo
il reale della psicoanalisi non è un reale descrittivo. Concepirlo come una
scrittura, una scrittura logica, lo fa diventare operativo nel reale. Dobbiamo
pensarlo nella logica e non nelle idee. L’oggetto a, come si vede nel disegno
dei nodi, è al centro dei tre registi, RSI, e i tre registri sono i termini
effettivamente operativi quando ci collochiamo nel discorso analitico, quando
si è analisti. Sono termini che emergono per e tramite questo discorso. Questi
termini sono molto attraenti, tutti parlano in lacaniano oggi, è il vento di
quest’epoca... in filosofia, in sociologia, ecc., si fanno lezioni su Lacan...
Ciò che dice Lacan è che questi termini sono del discorso analitico. Nel
discorso analitico i tre registri servono per prendere l’oggetto a che è al
centro e offrirlo come causa del desiderio al suo analizzante. Questo vuol dire
che ogni atto dell’analista (come risponde al telefono, accoglie l’analizzante,
come interpreta, taglia la seduta) mira a introdurre questo.
Lacan dice: «non pensate che io avessi intenzione di
elaborare tutto questo, ho solo seguito il cammino». Seguire la serie implica
che si faccia un po’ credulone. Si tratta di una nuova forma di credenza.
Sarebbe meglio dire che Lacan si fa fregare nel modo giusto, credulone, gonzo,
perciò Lacan non si dà arie di essere “autore” di un sistema di pensiero ma
parla di se stesso come di qualcuno che serve al discorso analitico. Per questo
Freud parlava della psicoanalisi come del suo tiranno. La formulazione
lacaniana “penso dunque si gode” ci conduce a questo punto della struttura. Non
possiamo dire “penso dunque godo” e crederci padroni del godimento. Invece
“penso dunque si gode” vuol dire che se c’è pensiero, c’è godimento. Credersi
padroni di questo non vuol dire nulla. L’importante è poterci far qualcosa, con
l’Es. Il discorso del padrone è una cosa diversa. Il discorso del padrone ha
uno scopo: che le cose vadano al passo con quelle di tutto il mondo. Il
discorso del padrone è che tutti vadano con lo stesso passo, che circolino,
come dice nel Seminario XXIII. Lacan ha presente che si tratta di segnalare la
via, il cammino.
Il sintomo, il reale, si presenta come ciò che
ostacola la circolazione di tutti, Lacan dice nel Seminario XI che «il reale è
quello che zoppica»; come succedeva a Cartesio nel sogno quando non riusciva ad
andare dritto. Nel Seminario XI Lacan definisce il reale come quello che non
va, e ne La terza è ciò che si mette di traverso davanti al carro. Ciò
che non cessa di ripetersi, disturbando il cammino.
Ci sono diverse definizioni del reale ne La terza,
come: ciò che torna sempre allo stesso posto. Attenzione, questo ci farebbe
pensare al reale come qualcosa di conoscibile, ma se non è simbolico né
immaginario non è conoscibile. Dice che torna allo stesso posto perché rivela
qualcosa che sta fuori delle leggi della percezione. Tutti lo abbiamo
sperimentato in un momento di angoscia, l’ordine della rappresentazione del
mondo e del nostro corpo si trasformano. Dov’è l’angoscia, il corpo, il reale?
Non lo sappiamo. L’unica cosa che vogliamo è uscire da lì, e arrivare a un
posto sicuro. Lacan dirà che l’angoscia è ciò che non inganna. Cartesio si
preoccupava del fatto che i sensi ci ingannano. L’angoscia è ciò che non
inganna, per questo l’analisi parte dall’angoscia, è il cammino verso il reale,
perché è a partire dall’angoscia presa dal punto di vista produttivo che si
produrrà l’oggetto a. L’oggetto
a sorge nel campo della visione, come qualcosa che perturba la rappresentazione
del corpo, per questo è fuori corpo ma è legato al corpo perché l’angoscia si
sente.
Il sintomo come ciò che viene dal reale è una nuova
definizione del sintomo, che modifica la concezione precedente in Lacan che il
reale sia preso nelle leggi del linguaggio, dell’inconscio. Introducendo il
concetto de lalingua come al di là del linguaggio, Lacan presenta una nuova
versione del sintomo, come reale senza legge, al di fuori delle leggi del
linguaggio.
L’idea di Lacan è che l’analista
del XXI secolo debba essere preparato per far fronte a questo reale. Prima
l’analista conduceva l’analizzante verso il reale, dall’inconscio alla
pulsione, nella costruzione del fantasma. Ora è il reale che viene e l’analista
deve farvi fronte. Ciò implica un cambiamento nella concezione
dell’interpretazione. L’interpretazione non è presentata ne La terza
come qualcosa che dà senso al sintomo ma, come dice letteralmente,
«l’interpretazione opera con lalingua»,
cioè con quello della lalingua che rompe il senso: l’onomatopea, il ron-ron, il
gioco degli equivoci… È curioso vedere come Lacan introduca tale
interpretazione sui propri concetti, lo abbiamo visto con il concetto di
“discorso” e di “essere”. Dà ancora un esempio: il veut francese, che è anche la terza persona dell’indicativo, dove
“lui vuole” e “volere” suonano uguali. È un modo di evocare l’idea che il
desiderio è il desiderio dell’Altro nella sua lingua madre, nel gioco della
lingua. Un altro esempio è nom, che in francese suona come “nome” ed è
in assonanza con il “no” della negazione, ciò con riferimento all’operazione
del Nome del Padre. Il terzo equivoco è tra “due” e “di loro”, da una relazione
duale non si può costituire la relazione, la relazione tra significante e
significato non è arbitraria come asseriva De Saussure, è il prodotto del
deposito, dell’alluvione, della pietrificazione, che segna in un gruppo
linguistico la sua esperienza dell’inconscio.
La lalingua civilizza il godimento. Per esempio,
l’oggetto a non ha rappresentazione, sta fuori dal simbolico: la lalingua lo fa
a pezzettini nominandolo, lo sminuzza in oggetti identificabili solo per la
psicoanalisi, poiché non c’è altro discorso che permetta di cogliere come la
lalingua opera sugli oggetti di godimento. In questo senso, il linguaggio
civilizza il godimento, e l’operazione analitica va esattamente nella medesima
direzione: fare del disco di ciascuno, del proprio godimento autistico,
qualcosa che si renda un po’ più socializzabile. Ecco perché la psicoanalisi è un discorso, e
non una teoria del godimento, un modo di parlare delle nostre cose rendendole
condivisibili, e non un cantare ogni volta il ritornello che le cose non vanno.
Lacan dice che l’analista non soltanto offre la
possibilità all’analizzante di lamentarsi, di mettere in gioco quello che non
va, ma anche di mettere alla prova l’impossibilità logica di dirlo, cioè
d’inciampare nell’ostacolo che è l’oggetto a, per questo si trasforma in un
assunto logico, della logica della struttura e non del pensiero. È interessante
come Lacan trasforma il tornaconto secondario del sintomo freudiano in
pensiero. Si crede che torniamo all’analisi per continuare a pensare,
l’importante è che l’analista sappia che non è per questo motivo e che trovi la
via perché, a sua volta, l’analizzante lo sappia, che estragga un sapere del
parlare, parlare per poterlo usarlo. Dice Miller: «l’inconscio è il sapere più
prezioso che noi abbiamo e non riusciamo a usarlo». L’analisi aiuta a usarlo.
Come fa l’analista per intervenire nel sintomo con la
sua interpretazione affinché l’analizzante si orienti rispetto alla sua
ricerca? Lacan dice che
l’interpretazione è un ready made per trattare il sintomo. Il ready
made è un concetto di Marcel Duchamp, assolutamente geniale. Per cogliere
un oggetto ready made, secondo Marcel Duchamp, è necessario che
l’impressione estetica sia nulla, non dobbiamo provare nessun tipo di diletto,
non deve intervenire assolutamente il gusto, dev’essere un oggetto che non ci
interessa, e siccome si corre il pericolo che qualsiasi cosa finisca per
riapparire bella conviene limitarne il numero. Deve essere un oggetto che non
abbia nessuna possibilità di diventare bello, gradevole o brutto. Alla fine,
deve essere qualcosa che non chiede di essere guardato, di cui si conosce
l’esistenza ma che si guarda girando la testa. Lacan identifica l’interpretazione
analitica con questo, poter estrarre dal discorso dell’analizzante l’elemento
della lalingua che si rivela nella struttura del sintomo. A tal fine dobbiamo
impedire di alimentare il sintomo con il senso. Il sintomo è un pesciolino
vorace, vuole continuamente mangiare senso. L’opportunità che la psicoanalisi
faccia qualcosa di diverso con il sintomo, con il reale del sintomo che
proviene dalla lalingua dell’analizzante, dipende dal fatto di poter separare
il godimento fallico del sintomo, di non trasformare il sintomo in godimento
fallico.
Una paziente, una giovane pianista brava a scuola di
musica, viene in analisi per diversi sintomi. Uno di questi è che si angoscia
molto nel momento in cui deve fare un recital perché le si gonfiano le dita,
sudano e le impediscono di suonare bene il piano. Nel corso dell’analisi emerse
il ricordo che, quando era piccola, gli unici momenti in cui lei smetteva di
suonare il piano erano quando si masturbava compulsivamente. Un analista non
lacaniano avrebbe colto quest’idea come il senso del sintomo. Invece, Lacan
insegna che quel senso è ciò con cui non dobbiamo alimentare il sintomo.
Per questa paziente è stato fondamentale quando ha
detto: “Ho l’orecchio assoluto”. Si potrebbe pensare che lei avesse la capacità
di ascoltare lalingua. Col taglio della seduta mormorando “assoluto” lei si è
potuta render conto che non ascolta nulla, che non ascolta gli altri, che passa
la giornata parlando e parlando perché gli altri la ascoltino, questo è il suo
disco. L’immaginario del suo narcisismo impedisce la realizzazione della sua
esecuzione musicale. Lacan lo dice così: «il corpo si introduce nell’economia
del godimento attraverso l’immagine del corpo».
È attraverso l’“assoluto” del suo narcisismo che si è potuto arrivare a
qualcos’altro. Alla fine, il godimento del suono si è liberato perché lei
potesse suonare le sue esecuzioni musicali.
Nel “penso dunque sono”, dice Lacan, c’è un errore
profondo perché ciò che inquieta il pensiero è immaginarsi che ci sia
estensione. Quello che ci inquieta e angoscia è che ci impegnano a pensare
l’estensione, vale a dire che il pensiero puro (come vorrebbero gli psicologi)
è un errore, sarebbe come considerare che il pensiero non sia sottoposto alle
contorsioni del linguaggio. E Lacan ne La terza confessa: «striscio per
terra e sono venuto a incastrarmi su questo», parla di ciò che gli è successo
nel proprio cammino in quel momento, di ciò che torna a incagliarsi nel “penso
dunque sono”.
Lacan si chiede il perché delle dimensioni, delle
rappresentazioni del mondo immaginario, delle geometrie. L’immaginario del
corpo ci fa pensare che siamo sfere e che anche il mondo sia così, tondo, che
si chiude, che lo possiamo cogliere versus unum, universo che mi avvolge. Lacan
si chiede perché la geometria abbia avuto tanto peso nell’immaginario del
soggetto. Perché la geometria, inventata con le piramidi, si è interessata solo
alle forme perfette anziché ai nodi, alle corde, che tuttavia si conoscevano?
Lacan dice: «in natura non ci sono nodi». Nell’anatomia non ci sono nodi. Il
nodo incorpora il reale perché il reale è prodotto dal linguaggio, non dalla
natura. Per questo non è possibile cogliere il reale attraverso la
rappresentazione della natura. Si spiega che la preferenza della geometria
sulla topologia è dovuta al fatto che la mente respinge la discontinuità;
vogliamo la continuità tra noi e il corpo, gli altri, il pensiero e l’essere.
Lacan si domanda se non vi sia un rifiuto strutturale, come una rimozione
originaria, che fa sì che l’essere umano respinga il nodo. Nel fare un nodo ci
sono un sacco di equivoci, basta fare la prova. Nel suo seminario Lacan dice
che è stato anni a costruire il nodo borromeo. La terza indica qual è il
cammino per maneggiare nel modo appropriato il nodo borromeo. Non è garantito.
Bisogna farlo tutti i giorni.
Trascrizione e
traduzione: Florencia Medici
Redazione: Giuseppe Perfetto
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