Istituto abilitato ai sensi dell'art. 3 della legge 18. 02. 89 n°56 (D.M. 31. 12. 93). Adeguamento ai sensi del D.L. del 25. 05. 2001. Blog gestito da Alberto Tuccio

venerdì 7 ottobre 2016
martedì 13 settembre 2016
martedì 26 luglio 2016
venerdì 8 luglio 2016
Seminario del 13 febbraio 2016 Docente invitato: Clotilde Leguil
Vi parlerò di un passaggio di
“Posizione dell’inconscio” che verte sull’alienazione. Si tratta di un testo
molto complesso. Trovo infatti che il concetto di alienazione in Lacan sia
piuttosto difficile, e per affrontarlo ho cercato di ricollocarlo nell’insieme
di “Posizione dell’inconscio”. Nell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi ci
occupiamo ora del corpo parlante. “Posizione dell’inconscio” è un testo dove
Lacan presenta una nuova definizione dell’inconscio in rapporto con il corpo
parlante.
Ho scelto una frase a p.852,
verso la fine del testo, che dà l’orientamento di Lacan nel 1964: “L’importante
è cogliere come l’organismo viene preso nella dialettica del soggetto”. Questa
frase mi ha colpito perché propone una nuova definizione dell’inconscio, e
parla di un inconscio articolato con il corpo, un inconscio che dice qualcosa
dell’organismo del soggetto. Questo implica anche un nuovo approccio della cura
analitica, un approccio nella cui prospettiva non troviamo soltanto il soggetto
che parla del desiderio, ma anche qualcosa che parla del corpo.
“Posizione dell’inconscio” è
contemporaneo al Seminario XI sui quattro concetti fondamentali della
psicoanalisi. In questo seminario a p.176 [Il
Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi,
1964, ed. Einaudi], Lacan propone una definizione dell’inconscio in rapporto al
corpo, indicando nell’apparato del corpo qualcosa strutturato nello stesso modo
dell’inconscio.
Queste due frasi – la prima
sull’inconscio preso nel sistema dell’organismo, e la seconda, riguardo
l’omologia di struttura tra l’inconscio e l’apparato del corpo – dicono la
stessa cosa.
Jacques-Alain Miller, nei
paradigmi del godimen, ha commentato questo passaggio del seminario XI, dicendo
che bisogna prendere le cose a rovescio: non è qualcosa nell’apparato del corpo
a essere strutturato come l’inconscio, ma piuttosto Lacan ha strutturato
l’inconscio nello stesso modo che l’apparato del corpo.
È una novità: questa
articolazione tra il registro del vivente e quello della parola segna una
svolta nell’insegnamento di Lacan.
È interessante sottolineare anche
l’espressione di questa frase, come l’organismo vient à se prendre. L’espressione francese è
interessante, e può evocare un altro modo di dire, quando si dice per esempio se
prendre dans le tapis, inciampare nel tappeto.
È quindi come dire qualcosa
dell’organismo viene a essere d’inciampo, risulta disfunzionale quando è preso
nella dialettica del soggetto, come se il vivente fosse catturato dal
linguaggio. Al tempo stesso è un nuovo approccio alla dialettica significante,
che indica il modo in cui la parola si fa parassita del vivente.
Questo riguardava l’espressione se
prendre, consideriamo ora quel che riguarda la parola scelta da Lacan:
“organismo”.
Possiamo essere sorpresi del
fatto che Lacan parli di organismo. Di quale organismo si tratta nella
psicoanalisi? È forse l’organismo nel senso della medicina, quello che si può
frammentare, che si può riparare, su cui si possono fare degli innesti? No, non
è questo organismo.
Lacan sceglie tuttavia il termine
“organismo” nel 1964; in precedenza, nel suo primo insegnamento, Lacan parlava
del corpo e non di organismo; questo organismo lacaniano indica quindi un nuovo
approccio alla libido. Si tratta di un
corpo fatto di organi, ma non è lo stesso organismo che viene dissezionato
dall’anatomopatologo. Sono organi che Lacan chiama “oggetti “a” minuscola”.
L’organismo lacaniano è fatto di
organi invisibili, che sono però reali. Gli organi lacaniani sono per esempio
la voce, come oggetto a minuscola, o lo sguardo, ovvero sono oggetti che fanno
parte del corpo, ma che sono presi anche nell’Altro, sono oggetti che
condensano la libido. Questo organismo lacaniano in un certo senso non parla,
perché Lacan ci ha indicato che l’oggetto a minuscola non appartiene al
significante. Si tratta di qualcosa di diverso, si tratta di una sostanza che
gode. Questo organismo quindi non parla di per sé, ma è preso nella cura
attraverso la parola del soggetto. È presente attraverso il modo di parlare, ma
anche di tacere, attraverso il modo in cui qualcosa si apre e in cui qualcosa
si chiude, è presente quindi a partire dal fatto che il soggetto parlante è
toccato da qualcosa. La novità, nel 1964, per Lacan è il fatto di definire la
cura non soltanto attraverso la parola e il linguaggio, ma anche attraverso gli
effetti del corpo. La prima definizione dell’inconscio era che l’inconscio è
strutturato come un linguaggio, ma dal 1964 in poi, appare anche l’idea che
l’inconscio è irrigato dal godimento, è imbevuto di libido. Si tratta di un
nuovo approccio sia della libido sia dell’inconscio. Bisogna dire che questi
due aspetti non sono più disgiunti. Nel primo seminario di Lacan c’era infatti
una disgiunzione tra libido e inconscio, che era simbolico. A partire da
Posizione dell’inconscio e dal Seminario XI Lacan fa invece grosso sforzo per
mostrare come inconscio e libido siano tra loro articolati.
Questo implica un nuovo approccio
del sintomo. Per Lacan precedentemente il sintomo apparteneva, non ancora
riconosciuto, non ancora decifrato, al piano del messaggio, ed era in attesa di
essere decifrato. Da questo momento in poi si tratta di percepire come anche
l’organismo del soggetto sia prigioniero nel meccanismo del significante.
Questo ci dà un orientamento in rapporto alla fine della cura, che non
riguarderebbe soltanto un evento di significato, ma che toccherebbe il modo in
cui si è vivi, che potrebbe implicare un guadagno di vita, di un sovrappiù di
vita. Questo ci fa anche capire come l’organismo che è in noi possa staccarsi,
sganciarsi dal meccanismo significante e inciampare nel meccanismo del
soggetto. La frase di Lacan che ho citato parla infatti anche della pulsione di
morte. Direi che la pulsione di morte è l’incontro tra il vivente e il
linguaggio.
Questo sia detto come
introduzione, ma prima di entrare nel testo vorrei presentarvi il modo in cui
Lacan concepiva il corpo prima di “Posizione dell’inconscio”.
Come vi dicevo, parlare di
organismo è una novità per Lacan nel 1964, e possiamo dire che questa novità
comincia a farsi strada nel Seminario X sull’angoscia. Quando Lacan affronta la
questione dell’angoscia, definisce anche un orientamento della cura al di qua
del desiderio, pone cioè un modo di rapporto con l’Altro che, prima di
qualsiasi parola, suscita l’angoscia. Andiamo quindi qui alla radice
dell’incontro con l’Altro, al primo modo di essere toccati dalla presenza
dell’Altro, sul piano di una prova nel corpo. Nel Seminario X Lacan parla della
libbra di carne che ci costa l’incontro con l’Altro, mostra come l’angoscia
sorga quando questa parte persa, riappare dove dovrebbe esserci una mancanza,
spiega come l’angoscia non sorga in rapporto a una mancanza, ma alla mancanza
di una mancanza, e sostiene quindi che la mancanza della mancanza, il troppo,
l’eccesso, produce l’angoscia come affetto del corpo. Attraverso questa analisi
dell’angoscia Lacan giunge a definire l’oggetto a minuscola. La tesi di Lacan è
infatti che l’angoscia non è senza
oggetto, non è di fronte al nulla, come invece in Sartre, ma piuttosto è di fronte a qualcosa, anche se
si tratta di qualcosa non in senso abituale.
Lacan mostra quindi che ciò di
fronte cui sorge l’angoscia è un oggetto di troppo, che irrompe nel mondo del
soggetto. Può essere un grido, può essere uno sguardo, oggetto a minuscola
segna comunque la sparizione della frontiera tra il soggetto e l’Altro.
Nell’angoscia quindi qualcosa del soggetto cade, e il soggetto si vede ridotto
a non essere altro che il proprio corpo.
Prima di questa fase, negli anni
‘50, c’è un altro approccio del corpo in Lacan: il corpo viene inteso come
corpo percepito, è il corpo dello stadio dello specchio, è un’immagine. Lacan
ha descritto l’atto di nascita di questa immagine attraverso l’esperienza che
il bambino fa, per la prima volta, quando si guarda nello specchio. Il corpo
percepito, che può essere il mio corpo o quello dell’Altro, è secondario nella
dialettica del soggetto. Nello scritto sullo stato dello specchio, Lacan mostra
come il riconoscimento dell’immagine del corpo, anticipi rispetto a quella che
chiama l’assunzione soggettiva simbolica. Una volta però che il bambino può
dire Io, non è più affascinato nello stesso modo dall’immagine del corpo.
Negli anni ‘50 Lacan osserva che
quel che riguarda il corpo riguarda l’asse immaginario del rapporto con
l’Altro, ed è dunque destinato a essere cancellato. Il primo approccio
dell’inconscio in Lacan consiste quindi nel privilegiare l’aspetto
significante, il rapporto con la parola e con il linguaggio. Gli si è per
questo anche rimproverato, in quegli anni, di non interessarsi al corpo. Nel
Seminario VI sul desiderio e la sua interpretazione, nel ’58-’59, Lacan dice per
esempio: “Sembra che io ignori l’esistenza del corpo, che abbi una teoria
incorporea dell’analisi”.
Lacan si difende ovviamente, ma
si riferisce al rimprovero che gli viene rivolto in virtù della sua adesione al
significante. Nel Seminario VI risponde comunque in questo modo: “È con le
nostre membra che costituiamo l’alfabeto del discorso inconscio”. Trovate la
frase a p.328 del Seminario VI. Lacan vuole quindi mostrare che il corpo conta,
facendo vedere che l’inconscio vi si appoggia per avere modo di parlare.
Possiamo però al tempo stesso dire che in questa prospettiva non parla il
corpo, parla il significante. Nella prima parte dell’insegnamento di Lacan, il
significante primeggia rispetto al corpo, e il corpo è immaginario, costitutivo
della funzione dell’Io, è il corpo dello stadio dello specchio, il corpo che
partecipa a una relazione immaginaria con l’Altro: vedo il mio corpo come vedo
il corpo dell’Altro, e questo si inscrive in una relazione di reciprocità. Da
qui il registro della concorrenza e della rivalità. Da un certo punto di vista
perciò, per Lacan il corpo come immagine non è niente di reale. Quel che è
reale all’inizio dell’insegnamento di Lacan è la dialettica del soggetto, vale
a dire il rapporto del soggetto dell’inconscio, con l’Altro maiuscolo Il corpo
è invece contrassegnato dall’inerzia: non c’è dialettica al suo interno. Il
corpo non è quindi preso nella dialettica del soggetto, ma la ostacola
esercitando un effetto di affascinamento.
Ricordo queste cose per mostrarvi
come ci sia veramente un punto di rottura in Lacan quando, all’inizio degli
anni ’60, comincia a dire come il soggetto si articoli con l’organismo e non
soltanto con lo stato dell’Io.
Abbiamo questa prima concezione
del corpo come immaginario, disgiunto dalla dialettica del soggetto, e abbiamo
poi una seconda concezione, prima ancora di giungere alle nozioni di organismo
e agli oggetti a. Si tratta della dottrina del corpo che Lacan sviluppa con la
teoria del fantasma. Nel Seminario VI, alla fine degli anni ‘50, abbiamo a che
fare con un corpo che non è più soltanto immaginario, ma è il corpo presente
nel fantasma, che gode e che soffre a partire da quello che manca nel campo
dell’Altro. Il fantasma implica il corpo, e al tempo stesso il fantasma è un
modo di patire del significante, di soffrirne. L’approccio al corpo è quindi
qui allo stesso modo immaginario e simbolico. Il corpo non è preso nella
dialettica del soggetto, ma sorge come risposta del soggetto, quando il soggetto
urta con il godimento dell’Altro.
Il fantasma per Lacan ha una
dimensione al tempo stesso immaginaria e simbolica, è un copione che viene a
colmare la falla del simbolico, è l’incontro con una non risposta alla domanda,
che innesca in qualche modo un’esigenza pulsionale, quindi il corpo del
fantasma è un corpo preso da un godimento masochista, che è masochista nel
rapporto con il significante.
In uno dei primi corsi tenuti da
Jacques-Alain Miller con il titolo “Dal sintomo, fantasma e ritorno”, Miller
formula l’ipotesi che il fantasma in Lacan è il primo approccio alla questione
del reale nella cura. È un corso dell’8 dicembre 1982, e Miller dice che in
qualche modo il soggetto chiama qualcosa di surreale in questo posto, nel posto
del fantasma. Si tratta cioè di un punto di opacità contro il quale il soggetto
urta.
Abbiamo quindi un corpo
immaginario, un corpo del fantasma, e ora un corpo dell’organismo con gli
oggetti a minuscola. Nello scritto “Posizione dell’inconscio” abbiamo a che
fare con questo corpo dell’oggetto a minuscola. È un corpo che rimanda al
reale, colto dall’angoscia, toccato dall’angoscia. Non so se in Lacan bisogna
dire il soggetto è angosciato o che il corpo è angosciato, perché nell’angoscia
non c’è più soggetto, c’è qualcosa che fa cadere il soggetto.
In “Posizione dell’inconscio”
Lacan si riferisce a un organismo i cui limiti vanno al di là del corpo. Questo
evoca la concezione del corpo come forma immaginaria, perché il corpo
immaginario ha limiti dati dalla sua forma. L’organismo varca invece i limiti
del corpo immaginario, rimescola un po’ le frontiere tra il soggetto e l’Altro.
Il soggetto non sa più dove si trova, è catturato dall’Altro, è alienato,
separato da se stesso.
Quest’organismo che possiamo
quindi definire come la terza concezione del corpo in Lacan, prefigura l’ultima
concezione, presente nel suo ultimissimo insegnamento, chiarita e sviluppata da
Jacques-Alain Miller: quella del corpo parlante, il corpo traumatizzato dalla
lingua, il corpo toccato dalla lingua.
Nell’ultimissimo insegnamento di
Lacan il corpo parlante appare come una riformulazione del tema classico
dell’unione dell’anima e del corpo, tema della filosofia, in particolare di
quella cartesiana.
Il nostro “corpo parlante”, dice
Jacques-Alain Miller, non è l’unione dell’anima e del corpo, ma della parola e
del corpo, ed è questo, come Lacan dice nel Seminario XX, a essere misterioso,
ovvero il fatto che nella cura, alla fine, si trova questa unione della parola
e del corpo al tempo stesso in cui si incontra un mistero, si incontra qualcosa
di indecifrabile. Paradossale è il fatto che questa unione costituisce un mistero,
ma genera contemporaneamente una sorta di certezza. Quando cioè nella cura si
incontra questo punto, si sa che proprio questo è qualcosa di reale. Il
soggetto incontra qui qualcosa che non è un miraggio, che non è un baluginio,
ma che esiste.
Possiamo dire che la parola, a
partire da “Posizione dell’inconscio” e fino alla fine dell’insegnamento di
Lacan, è quel che si rende parassita del corpo, fino al punto di fare delle
parlessere un essere vivente disadattato, le cui condotte possono facilmente rivolgersi
contro se stesso. Questa tesi si trova formulata in “Posizione dell’inconscio”
un po' più avanti rispetto al passaggio che abbiamo presentato, quando Lacan
dice che ogni pulsione è virtualmente pulsione di morte, a p. 852.
Lacan non dice che da una parte
c’è una pulsione di vita e dall’altra una pulsione di morte, ma che la
pulsione, in quanto vivente, genera per altro verso qualcosa di mortale.
A partire quindi da questo
momento, a partire da “Posizione dell’inconscio”, quel che Lacan chiama la
dialettica del soggetto, non testimonia più solo del discorso dell’Altro, ossia
nel modo in cui le parole dell’Altro hanno colpito il soggetto, ma anche di come l’organismo è implicato, è
in gioco. La dialettica del soggetto quindi non è pura dialettica.
Andiamo ora al passaggio a p. 843-845
di “Posizione dell’inconscio” per affrontare questo nuovo approccio della
dialettica del soggetto.
Lacan introduce due operazioni
che chiama alienazione e separazione, per mostrare quello che causa il
soggetto; vi do la tesi d’insieme prima di entrare nei dettagli. Lacan mostra
come il soggetto sia prodotto dalla dimensione significante ma, al tempo
stesso, anche dalla libido e dal corpo. Ciò vuol dire che il rapporto con il
significante, con l’operazione simbolica, ha effetti e conseguenze di
godimento. C’è qualcosa che l’essere parlante perde per il fatto stesso di
parlare. Nelle operazioni, che Lacan chiama alienazione e separazione si tratta
di articolare il registro del significante con quello del godimento, ovvero il
simbolico con il reale. L’alienazione indica al tempo stesso il modo in cui il
soggetto si identifica e si perde nella relazione con l’Altro, e la separazione, che è la
seconda operazione, indica la risposta di godimento in rapporto a questa
perdita.
Questo vuol dire che nel rapporto
con il significante, nell’alienazione, c’è qualcosa di profondamente
insoddisfacente, qualcosa che ineluttabilmente è mancato, che fallisce. Cito
una frase di Jacques-Alain Miller nel suo testo sui sei paradigmi del
godimento, dove commenta il passaggio sull’alienazione: “Si chiama soggetto
quel che è veicolato da un significante per un altro significante”. È la
definizione che Lacan dà del soggetto, ma Miller aggiunge “Questa
rappresentazione tende a ripetersi perché nessuna identificazione è completa,
perché nessuna rappresentazione identificativa è esaustiva”.
Ciò vuol dire che il soggetto è
rappresentato da un significante e, al tempo stesso, non lo è mai
completamente, c’è una parte che viene mancata dal significante, ed è questa
parte mancata che permette di introdurre la seconda operazione, la separazione,
che riguarda non più il significante, ma l’oggetto a minuscola.
Prima di analizzare
l’alienazione, Lacan mostra come l’inconscio sia una struttura che si apre e si
chiude. Lo ricordo perché quando presenta alienazione e separazione Lacan
riprende la questione dell’apertura e della chiusura. L’alienazione è dalla
parte dell’apertura, perché c’è la catena significante che si dispiega, mentre
la separazione è sul piano piuttosto pulsionale, perché c’è qualcosa che viene
a chiudere l’operazione.
Lacan presenta quindi l’inconscio
in rapporto all’organismo, come una zona erogena che si apre e si chiude, e
mostra come questo nome, “inconscio”, non debba essere rappresentato come la
caverna di Platone. Lo dice perché, nel momento in cui parliamo di apertura e
di chiusura, potremmo pensare che si tratti di un interno e di un esterno.
Lacan vuole invece mostrarci che non penetriamo all’interno di qualcosa. In
effetti, perché l’inconscio si apra, dice, bisogna già essere all’interno, non
si può aprire l’inconscio dall’esterno. Vi cito un breve passaggio a p. 841,
dove Lacan dice che è molto più difficile entrare nell’inconscio che non nella
caverna di Platone, perché nel mito della caverna si vede il filosofo che va a
liberare il prigioniero, e lo costringe a vedere la luce uscendo dalla caverna.
Lo psicoanalista non può fare
così, non può costringere l’analizzante portandolo a vedere la verità o il
godimento. Lacan dice che le cose sono meno facili che non nella caverna,
perché con l’inconscio c’è un’entrata alla quale si arriva soltanto nel momento
in cui si chiude, e nel momento stesso in cui si arriva, l’ingresso è già
chiuso. Il solo modo perché si apra un po’, è di chiamarla, di evocarla
dall’interno. C’è qualcosa di chiuso a doppia mandata nel soggetto, e se non si
trova dall’interno qualcosa che fa eco, non si potrà mai entrare.
Questo ha a che fare con
alienazione e separazione, perché si tratta di apertura e di chiusura, e mi ha
fatto pensare a un passaggio della cura dell’Uomo dei lupi di Freud. Sapete
infatti che nella storia dell’Uomo dei lupi, il soggetto fa un incubo che
presenta la scena di una finestra che si apre da sola dall’interno. L’Uomo dei
lupi, quando la finestra si apre, vede un albero con dei lupi fermi, fissi, che
lo guardano. Lacan commenta quest’incubo nel Seminario X sull’angoscia,
mostrando l’importanza dell’apertura della finestra. Non bisogna lasciarsi
incantare soltanto dai lupi, si tratta dell’apertura di qualcosa, e
quest’incubo mostra come Freud, nella cura, abbia saputo aprire qualcosa
dall’interno, ovvero che la finestra dell’inconscio sì è aperta sull’Altra
scena, si è aperta da sola.
Le due operazioni della
causazione del soggetto, dice Lacan, sono l’alienazione e la separazione. Per
quel che riguarda l’alienazione Lacan mette l’accento sulla priorità del
significante rispetto al soggetto. Il soggetto non può cioè essere causa di sé,
ma è generato dal significante. Lo dice a p. 844 nel modo seguente: “Quel che
era qui pronto a parlare sparisce non essendo nient’altro che un significante”.
È strano, perché in questa frase sembra dire che c’è qualcosa prima del
significante, che sarebbe il soggetto, e allo stesso modo dice che questo
qualcosa sparisce sotto il significante e l’alienazione è su questo piano: il
soggetto non ha altra scelta che farsi rappresentare da un significante che al
tempo stesso fa sparire qualcosa del soggetto. Nel seminario XI, Lacan spiega
questa operazione di alienazione e separazione in modo concreto appoggiandosi
su Cartesio, e mostra come Cartesio, nelle Meditazioni, inseguendo una verità
che per lui sarebbe una certezza, esamina tutti i saperi che ha acquisito,
tutte le certezze che ha avuto, decidendo di respingerli come falsi, decidendo
di fare tabula rasa di tutto quel che gli è entrato in mente. Questo ha a che
fare con l’alienazione, e cerca però qualche cosa nel soggetto che non sarebbe
preso nell’alienazione. Sapete come lo trova? In un processo di rovesciamento.
Si trova di fronte al dubbio iperbolico rispetto a tutto quello che ha saputo,
domandandosi se alla fin fine qualcosa esista davvero, e improvvisamente ha un insight,
e questo insight è: “Penso, dunque sono”.
La lettura di Lacan è interessante
perché alla fin fine dice “io penso” è qualcosa che sorge come separato
dal resto, e Lacan dice che non è una conoscenza di sé, che sorge come evanescente. E
dice qualcosa dell’alienazione in rapporto con il significante, perché il vero
Io può sorgere solo in questo punto di svanimento, altrimenti è sempre tra i significanti. Per
rendere conto dell’alienazione, Lacan parla di una scelta che non è una vera
scelta, e per spiegare come questa scelta sia forzata, dà un esempio: il
brigante che incontra la propria vittima nei boschi e gli dice: “La borsa, o la
vita!”
Questa si presenta apparentemente
come una scelta, apparentemente c’è un’alternativa, che è appunto tra la borsa
e la vita, ma in realtà non c’è scelta possibile, perché se la povera vittima
sceglie la borsa, si ritrova senza borsa e senza vita. L’alternativa “la borsa o la vita”
quindi costringe il soggetto a perdere qualcosa, a perdere la borsa, i denari,
qualcosa a cui il soggetto tiene. La borsa, il denaro, sono anche l’oggetto a
minuscola, l’oggetto anale. La scelta forzata, in rapporto alla quale Lacan
pensa al rapporto con il significante, è una scelta di questo genere. Il
soggetto si trova così con la vita, ma una vita intaccata da una perdita, senza
la borsa. Un altro esempio di scelta forzata si trova in Hegel, nella
dialettica del padrone e dello schiavo. Quello che diventerà il padrone è
quello che avrà vinto la lotta a morte contro l’altro, e potrà dire allo
sconfitto: “La libertà o la morte”, cioè o ti uccido, ti prendo la vita, oppure
mi dai la tua libertà, diventi mio schiavo. Questa è una scelta forzata che
porta a perdere la libertà, che potrebbe in un certo senso portare alla perdita
della vita.
Lacan mostra che il soggetto, nel
rapporto con il significante, in realtà non ha scelta. Riceve un senso, ma se
rifiuta di riceverlo è morto. Di questo Lacan dà un esempio comico, tratto da
una commedia di Moliere, L’avaro. Lacan parla de L’avaro nel
Seminario VI sul desiderio. Sapete che l’avaro è quello che tiene al proprio
denaro, tiene alla propria cassetta più che a tutto il resto, e ha una sola
idea: nascondere la cassetta, perché è convinto che tutti gliela vogliano sottrarre.
La seppellisce quindi in giardino, dove è convinto che nessuno la potrà
trovare, e alla fine va a verificare che sia sempre lì e si accorge che
gliel’hanno rubata. Cosa dice allora? “Assassini, mi hanno tolto la vita, mi
hanno assassinato!”
Lacan, nel Seminario VI dice che
quando si sarà capito cosa ha perduto l’avaro con la cassetta, si sarà capita
la questione del desiderio.
È un esempio per capire che cos’è
l’alienazione, e c’è già quel che Lacan chiama separazione. Ne L’avaro abbiamo un rapporto con
l’oggetto “a” che per Arpagone conta più della sua vita, quindi, se all’avaro
diciamo: “La borsa o la vita”, lui dà la vita. Vediamo quindi come
l’alienazione, nel rapporto di linguaggio con l’Altro, genera anche l’oggetto
“a” come modo di recuperare quello che il soggetto ha perduto nel rapporto con
l’Altro. L’avaro cerca infatti di recuperare attraverso la cassetta tutto quel
che ha perduto nel rapporto con l’amore, col desiderio, con la parola.
Lacan mostra che il soggetto che
parla per esistere è costretto ad acconsentire a essere rappresentato da un
significante, altrimenti è mortificato, pietrificato, e l’operazione che lo
causa genera al tempo stesso una perdita, questo è il paradosso.
La concezione dell’alienazione e
della separazione implica anche una nuova idea dell’interpretazione. Non si
tratta più soltanto di fare risuonare i significanti che il soggetto non
coglie, o di far pervenire un messaggio. Lacan dice nel Seminario XI a pag.245
“L’interpretazione non ha tanto di mira il senso, quanto piuttosto ridurre i
significanti al loro non senso, per ritrovarvi le determinanti di tutta la
condotta del soggetto.”
Nel Seminario XI Lacan disegna
due cerchi: da un lato c’è il soggetto, dall’altro c’è l’Altro; il soggetto,
dice, è dalla parte dell’essere, “Io sono”, e l’Altro è il senso. “Io sono”
infatti non basta, perché “Io sono che cosa?” Il soggetto deve essere
rappresentato da un significante, ma il problema è che quando è rappresentato
dal significante, quando si trova cioè dalla parte del senso, perde qualcosa
dell’essere, e questo è il motivo per cui Lacan pone l’alternativa tra l’essere
e il senso.
Tra i due, nella zona mediana,
c’è il non-senso. I sintomi hanno quindi a che fare con questa zona che sta tra
il soggetto e l’Altro. Certamente dalla parte del senso ci sono i significanti
che rimandano a un significato, ma c’è anche questa zona di non-senso. Lacan
dice che l’interpretazione non deve riguardare soltanto la decifrazione di
tutti i significanti del soggetto, ma deve anche far emergere significanti che
non hanno altro senso che di godimento. Qui l’alienazione è un processo
simbolico, ma al tempo stesso rimanda al godimento, perché questa zona di
non-senso è recuperata attraverso il rapporto con l’oggetto “a” minuscola.
Per concludere, Lacan dice che la
separazione, l’operazione che viene dopo, è l’operazione dove si chiude la
causazione del soggetto. Quel che si tratta di cogliere nella cura, è il modo
in cui il soggetto sparisce per recuperare qualcosa dell’oggetto. Lacan mostra,
nel seguito di “Posizione dell’Inconscio”, il modo in cui il soggetto può
giocare con la propria perdita per creare nell’Altro la mancanza che è in lui,
per esempio quando un soggetto minaccia di suicidarsi, o ha una fuga, o
comunque si sottrae alla relazione con l’altro, si verifica una torsione
attraverso cui la separazione rappresenta il ritorno dell’alienazione.
È il fatto di operare con la
propria perdita che lo riconduce al punto di partenza, ovvero: piuttosto che
prendere l’oggetto, il soggetto perde se stesso.
Vorrei concludere con una
testimonianza di una AE
che abbiamo ascoltato nelle ultime giornate della Ecole de la Cause Freudienne,
era la testimonianza di Veronique Voruz, intitolata “Separarsi senza
strapparsi”. Veronique ha reso conto del modo in cui nella sua cura si faceva
sparire, ed è una testimonianza che potremo leggere o sentire, dove racconta di
una volta quando è fuggita per scalare l’Himalaya – lei viene da una famiglia
di montanari – per sottrarsi al suo analista e all’analisi. La fine della sua
analisi è dunque coincisa con il fatto di trovare un altro modo di separarsi,
di separarsi senza strapparsi, e ha fatto un sogno dove lei è in montagna e
deve arrivare in cima, il percorso serpeggia intorno alla montagna, e nel sogno
dice “No, non prendo questo cammino, vado à l’arrache, con la forza, mi apro la via senza
seguire le via prescritte”
Questo à l’arrache non riguarda il senso,
ma qualcosa che è le risuonato nel corpo, e mostra come la fine dell’analisi
abbia a che vedere con il separarsi, strapparsi, ma nel modo giusto.
Cura redazionale di Alberto
Tuccio
lunedì 27 giugno 2016
Intervento di Giovanna Di Giovanni tenuto alla Sezione Clinica di Milano 2015-2016 LA SOLITUDINE TRA MADRE E BAMBINO: VENIRE AL MONDO
“Nasce l’uomo a fatica ed è
rischio di morte il nascimento”, scrive il poeta [G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante, in:
“Poesie”, Mondadori, 1987, p.85]. Da subito, la vita e la morte, il corpo e la
parola si intrecciano in modo indissolubile e che resta misterioso. Un corpo
nasce da un altro corpo ed è già segnato dalle parole che lo hanno preceduto,
dal significante che barra il legame con la madre.
Il rischio di morte è da
subito non solo fisica, ma anche di possibile non-assenso all’ingresso nel
mondo significante umano [J. Lacan, Il
Seminario. Libro III. Le psicosi (1955-1956), Einaudi, 1985, p. 56]. Il corpo
allora può restare nei frammenti della biologia e non accedere al discorso e
all’immagine illusoria e unificante. Il dramma schizofrenico si situa lì. È prima
di tutto nella madre che il taglio simbolico occorre sia presente, a sua stessa
insaputa. Quello fisico non è sufficiente.
La madre, infatti,
contrariamente a ciò che si dice, non dà la vita, la trasmette soltanto, ne è
lo strumento inconsapevole, però in modo assai più pregnante dell’uomo. La
madre infatti è attraversata da una contraddizione insanabile, mette il suo
stesso corpo, lo cede in certo senso, al servizio del bambino, di questo
parassita che la abita, ma nello stesso tempo deve ritrarsene perché il figlio non rimanga una parte di lei stessa, amata o
odiata secondo le circostanze.
Freud, nel parlare del
bambino, sottolinea, come farà anche Lacan, la prematurità e l’impotenza con
cui l’essere umano viene al mondo, rispetto anche alle altre specie animali.
Prematurità e impotenza che, dice, “il bisogno di essere amato, bisogno che non
abbandonerà l’uomo mai più” [S. Freud, Inibizione,
sintomo e angoscia (1925), in Opere, vol. X, Bollati Boringhieri, p. 301].
L’essere umano nasce “infans”,
muto, senza parola, nudo e senza nome, dovrà riceverlo dall’Altro e sarà il primo
indelebile marchio del linguaggio in cui si è trovato immerso, il primo segno
della contraddizione insanabile che lo attraversa. Il nome proprio è, con il
corpo stesso, quanto di meno “proprio “ ognuno hanno. Già lì, infatti, nel
nome, il soggetto si fa rappresentante fin nel corpo, del desiderio dell’Altro,
della trasmissione intergenerazionale che l’ha segnato prima di nascere
biologicamente.
Prima ancora di emettere
suoni, sia pure inarticolati, il bambino è già parlato dal discorso parentale,
da quello della madre. Non è senza parole, anche non espresse, di amore, di
dolore, di paura e anche di odio, che la madre porta in sé questo essere
vivente e nuovo che è il bambino.
Il bambino, parassita e
sconosciuto, che la madre cerca di assimilare - si può dire addomesticare - durante
la gravidanza, con le parole che gli rivolge, il nome che gli prepara insieme agli
oggetti per accoglierlo.
La madre, con la gravidanza, acquista
una pienezza non solo fisica, che la donna nel suo sentirsi mancante non ha e
che può divenire pericolosa per lei stessa e per il bambino, o perché la
respinge o perché vi si accomoda e può sentirsi svuotata dopo il parto [J-A.
Miller, Dei sembianti nella relazione tra
i sessi, in: “La Psicoanalisi”, n.45, Astrolabio, 2009, p.15].
Si situano qui le diverse
varietà di baby-blues, depressioni post – partum, che non necessariamente si
manifestano alla nascita del bambino. Molte donne dicono della gravidanza, per
lo più con un godimento che va oltre la gioia, alcune con giustificato timore.
Può essere un esempio la madre
che, dopo alcuni giorni, non ha voluto più allattare il bambino per il timore
del troppo di godimento che aveva provato e di dove questo poteva portarla.
Perché, se è vero che ogni
essere umano è solo e sperimenta la derelizione, la donna in gravidanza si trova in una pericolosa e paradossale
solitudine a due.
Il bambino, pur se ancora non
nato, è lì pronto a colmare ogni sua mancanza, proprio con la realtà del suo
bisogno, della sua immaturità e completa impotenza [J. Lacan, Due note sul bambino, in: “La Psicoanalisi”,
n.1, Astrolabio, p.22]. Per questo è importante che la madre non si immerga
nella sua solitudine di godimento del figlio, ma abbia intorno chi le può
ricordare che, pur madre, è anche sempre una donna.
Che la madre si viva anche
come donna è fondamentale fin da prima della nascita del bambino, per lei e per
il nuovo nato, perché la solitudine a due lasci il posto al taglio che permette
la relazione umana. Occorre che la donna acconsenta a perdere qualcosa della
“pienezza” acquisita per accettare la mancanza, resa presente dal suo corpo
stesso con le trasformazioni che sfuggono a qualsiasi determinazione cosciente.
Paradossalmente, il modo per
non lasciare sommergere la donna nella madre con la sua completezza, specie
nell’avanzare della gravidanza, è quello che il mito ci tramanda, la protezione della madre e del
bambino. È attraverso quest’oblatività paterna che, mentre mette a lato la sua fallacità,
l’uomo la arricchisce, e la madre può sentirsi ancora una donna per un uomo, nel suo divenire madre.
Percorso complesso e sempre a
rischio. Il concepimento e la gravidanza infatti comportano una metamorfosi
profonda sia della donna che dell’uomo. Entrambi, ciascuno a suo modo, scoprono
una nuova dimensione della solitudine umana, banco di prova per una nuova
relazione che includa il bambino. Altrimenti, nonostante tutte le apparenze di
famiglia, il figlio troverà ad accoglierlo un guscio materno già pronto, continuazione
di quello nel corpo della madre, dove ella lo collocherà e da cui sarà poi
molto difficile muoversi. Il primo prezzo dell’esistere infatti è nella
rinuncia a una parte di sé, quella comune fin nel corpo tra la madre e il
bambino. Il bambino “infans” ancora non ha la parola ed è l’Altro che lo parla,
lo “interpreta”, con quanto di equivoco e malinteso può esserci in questo.
È l’Altro che dà un senso ai
suoni che il bambino emette e a tutto il movimento del suo corpo. La pulsionalità
del bambino si intreccia al linguaggio da subito, al discorso della madre, dei
genitori, scava solchi nel corpo e in essi si incanala la libido del soggetto, facendone un essere umano irripetibile e
solo.
Da subito, da prima di
nascere, l’essere umano si trova preso nel linguaggio, necessario per vivere e
che può anche costringerlo fino alla fine fisica o psichica. Senza la parola
rivolta a lui infatti il bambino non vive, come osservava già Spitz [R. Spitz, Il
primo anno di vita del bambino, Giunti-Barbera, 1972], e confermano
le moderne indicazioni nei reparti di neonatologia [M. Szejer, Des
mots pour naitre, Gallimard, 2003].
Anche se non parla, il bambino
intende, fa sue le parole dell’Altro e ancora di più il desiderio, che esse
veicolano o celano. La voce infatti è il
primo elemento percepito dall’essere umano, insieme al maneggiamento del corpo.
Paure, timori e anche troppo di godimento passano dalla madre ai sensi del
bambino, plasmano il suo corpo e tracciano le vie
per il suo essere nel mondo umano. Le pulsioni infatti sono l’eco nel corpo che
ci sia un dire [J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII. Il sinthomo (1975-1976), Astrolabio, 2006,
p.16].
Senza questo dire, senza la
parola dell’Altro, sorge l’angoscia, il segnale della derelizione solitaria
insostenibile. Lacan ci dice che l’angoscia
è “il sentimento che sorge dal sospetto di essere ridotti al nostro corpo” [J. Lacan, La
Terza, in: “La Psicoanalisi”, n.12, Astrolabio, 1993, p.33]. Questo
corpo che è “nostro” e che ci è estraneo e che solo la parola che veicola l’amore,
l’interesse particolare, può tenere insieme.
L’amore infatti, già nel mito,
è lo struggimento per l’unità perduta e l’anelito a riottenerla. Il dualismo
corpo-parola, corpo-anima, è fin dalle
origini del pensiero occidentale, corpo e pensiero non coincidono, non
hanno alcun legame “naturale” fra loro. Il corpo è invece in frammenti e solo
il montaggio pulsionale può portare una fuggevole soddisfazione, con la
delimitazione delle zone erogene. Montaggio e delimitazione, impossibili al
soggetto schizofrenico, il cui lamento è proprio sull’invasione di godimento
doloroso nel corpo, che sfugge e rende irraggiungibile qualsiasi soddisfazione.
Lacan dirà: “sono dove non penso”, sottolineando la divisione dell’essere
umano fra biologia e linguaggio, con il termine “parletre” che lo sancisce. Il
corpo e le sue manifestazioni, i suoi sintomi sono al centro già della scoperta
di Freud, con le “malattie che parlano, per farci intendere la verità di ciò
che dicono” [J. Lacan, Intervento sul transfert (1951), in: “Scritti”, vol.1, Einaudi, 1974,
p. 210].
Oltre la possibilità di dire
si situa con l’ultimo Lacan il nucleo inesplorabile del corpo nella sua solitudine. Il corpo stesso infatti è il risultato di un
“montaggio”. Alla nascita il bambino non sa di averlo, imparerà a percepirlo
attraverso le cure, le parole che accompagnano il nutrimento, lo svezzamento, l’educazione
sfinterica, il maneggiamento del corpo.
Si pongono qui le basi del
rapporto che avrà da adulto con gli aspetti pulsionali del corpo, ma per questo
occorre che ci sia chi gli rivolge la parola, chi “nomina” il suo corpo nei
suoi primi bisogni. Le parole e gli atti, in un certo senso, scrivono sul
corpo, ne fanno un’unità fino allo stadio dello specchio, rivelatore dell’avvenuta
o meno organizzazione pulsionale. Sono le parole a dare vita e unità al corpo,
altrimenti in frammenti. Il corpo fa comunque enigma all’essere parlante, con
il suo incontro impossibile tra biologia e rappresentazione del soggetto nel
mondo simbolico.
Lo sviluppo infatti di questo
corpo non ha nulla di naturale, per tappe, non stadi evolutivi, ma contingenza,
tukè, stigmate di vittoria o di
sconfitta. Queste prime tracce saranno impossibili da cancellare e l’essere
umano dovrà imparare a farne qualcosa, ad esempio con somatizzazioni nell’isteria,
con rappresentazioni nell’ossessività, modi diversi della rimozione oppure il
soggetto negherà inizialmente l’assenso all’ingresso nel simbolico, nell’insondabile
decisione dell’essere [J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica (1946),
in: “Scritti”, vol. 1, Einaudi, 1974, p.145].
Il cammino per la relazione
umana con gli oggetti di amore e di soddisfazione, per lenire la solitudine
ineliminabile, passa all’inizio per il “narcisismo primario”, dove può subire
un arresto. La scoperta di Freud ci dice anche che tutto il corpo è erogeno,
percorso dalla pulsione, che ha la sua origine in stimoli interni e da cui non
è possibile una fuga ma solo un accomodamento singolare.
Già il fort-da del bambino
introduce una scadenza significante, che designa l’oggetto e anche il soggetto
stesso [J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della
psicoanalisi (1964), Einaudi, 2003, p. 60sg]. Presenza - assenza, perché solo la presenza
angoscia. Lacan dirà che è l’assenza possibile, con la mancanza che comporta, a
dare la sicurezza dell’esistenza, del ritorno dell’oggetto anelato, che non
sarà mai quello agognato.
L’importanza dell’immagine
allo specchio non è in quanto tale, perché l’immagine non ricopre, non unifica,
di per sé il caos corporeo, ma mette in evidenza, insieme all’unicità, la
relazione tra questa immagine e il soggetto, la cui assenza appare nella
psicosi, nell’autismo.
Ciò che permette questa
relazione tra il bambino e l’immagine, tra il soggetto e il corpo è la parola dell’Altro
e il desiderio che essa veicola come risposta alla domanda umana: cosa sono per
l’Altro? Scrive Lacan: “Il primo detto
decreta, legifera, è oracolo, conferisce all’Altro reale la sua oscura autorità”
[J. Lacan, Sovversione
del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano (1960), in:
Scritti, vol. 2, Einaudi, 1974, p. 810]. Da qui nasce l’identificazione
a un tratto, che la parola scrive sul corpo e che diventerà l’insegna di quel
soggetto.
Come nasce il soggetto, come
si incarna il significante nel reale? Quello che possiamo vedere nei diversi movimenti è il modo di
costituirsi del soggetto, l’origine resta oscura, come la fine. Non vi è
comunque nell’uomo alcun movimento istintuale, paragonabile a quello delle altre specie animali, ma sempre
un passaggio nella Domanda. Dalla Domanda all’Altro
alla Domanda dell’Altro, il significante, la parola che si iscrive fa nascere
il soggetto e insieme introduce il senso della morte [J. Lacan, Posizione
dell’inconscio (1964), in: Scritti, Vol.2, Einaudi, p. 851].
Il soggetto nasce fra
alienazione e separazione-recupero di un minimo di godimento intorno all’oggetto
a, “moneta spicciola de La Cosa” [J-A. Miller, I sei paradigmi del godimento (1999), in:
“La Psicoanalisi”, n. 26, Astrolabio, 1999]. Il corpo, da parlato alla
nascita, diviene parlante, ma ogni frammento di piacere sancirà la solitudine
del soggetto. Non esiste quindi uno
stato fusionale madre –bambino, né prenatale, né iniziale della vita, ma solo
la parola che media il passaggio e scrive nel corpo, introducendo l’essere
dalla biologia senza nome alla vita umana, alla nostalgica e solitaria ricerca
dell’oggetto perduto.
martedì 14 giugno 2016
venerdì 10 giugno 2016
Seminario del 7 maggio 2016 Docente invitato: Miriam L. Chorne
Posizione dell’inconscio è uno scritto che si potrebbe dire, come ha fatto
Jacques-Alain Miller a proposito del seminario XI, che è un vero panorama sullo
sviluppo teorico di Lacan. Sono due elaborazioni non soltanto contemporanee ma,
più esattamente, che si occupano degli stessi problemi.
Il sottotitolo dell’articolo è: “al congresso di
Bonneval ripresa nel 1964 dal 1960”. Anche se l’articolo è presentato da Henry
Ey dicendo che «riassume gli interventi di J. Lacan, interventi che per la loro
importanza hanno costituito l’asse di tutte le discussioni» del congresso [Posizione
dell’inconscio, in “Scritti”, vol. 2, p. 832], senza dubbi ne beneficia
dell’elaborazione posteriore al convegno, e in particolare risponde ai
cambiamenti politico-istituzionali che a Lacan hanno fatto pronunciare il
seminario XI I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi
nell’anno 1964 invece del previsto seminario dedicato a “I Nomi-del-padre”,
interrotto a causa della sua espulsione dall’International Psychoanalytic
Association.
È un panorama che permette di osservare il
movimento dell’insegnamento di Lacan dal cosiddetto “ritorno a Freud”, il
periodo di sviluppo della logica significante, e la definizione del soggetto
come effetto del significante, a un momento dove Lacan va ad introdurre
qualcosa di nuovo: va a riesaminare i rapporti fra il soggetto e l’Altro in un
modo rinnovato, con un’articolazione del discorso della psicoanalisi che si
beneficia dei suoi matemi: il soggetto barrato $, l’S1, il
significante unario in rapporto all’altro significante, l’S2 e
sopratutto il concetto di oggetto a.
Questo articolo è all’apice e alla conclusione di
un periodo dell’insegnamento di Lacan.
Nel seminario XI riprende i quattro concetti
freudiani e li utilizza per fare una critica alla psicoanalisi post-freudiana.
Allo stesso modo, nell’articolo, ad esempio, Lacan riconsidera il concetto
d’inconscio totalmente svalutato dalla psicologia dell’Io. Introduce il
concetto di soggetto, che non è un concetto freudiano ma lacaniano, che gli
permetterà di stabilire la differenza tra il soggetto e l’Io (e anche rispetto
all’individuo, la persona, ecc.). L’operazione di Lacan su Freud è
un’operazione che va al di là di Freud, ed era sicuramente già prevista con la
pluralizzazione dei Nomi-del-padre del “seminario inesistente”, come lo chiamò
Miller.
La critica lacaniana fondamentale alla posizione
analitica di Freud rispetto al modo di articolare la legge del desiderio al
Nome-del-Padre è precisamente che si debba aggiungere a questo aspetto del
desiderio e della logica significante un’altra dimensione più correlata alla
vita, alla sessualità: l’oggetto a, come causa del desiderio.
Le due operazioni della costituzione del soggetto
Nell’articolo Posizione dell’inconscio vi
sono novità che introducono riformulazioni non soltanto sulla teoria freudiana
ma anche sul proprio insegnamento, in particolare l’introduzione della topologia,
che sarà uno strumento ausiliario per il nostro pensiero. Nel seminario XI
Lacan dice che abbiamo bisogno di questi supporti perché il nostro pensiero è
impotente «per il fatto che il soggetto dipende del significante» [Il
seminario, Libro XI, p. 205]. Come affermerà più tardi negli ultimi seminari,
in particolare nel seminario XXIII, dobbiamo utilizzare le risorse della
topologia perché la nostra dipendenza dal significante ci fa un po’ deboli
mentali. Prenderà anzi i propri errori con il disegno dei nodi sulla lavagna al
fine di illustrare questa debilità, e proporrà la manipolazione,
l’utilizzazione delle mani, per scappare a questa debilità.
Propone così, con la topologia, un’altra idea
dell’inconscio che è in controversia con l’idea, sopratutto post-freudiana, di
profondità relativa all’inconscio, contro le immagini che figurano l’uomo come
una sfera e che spiegano i rapporti con l’Altro in termini di dentro/fuori,
interiore/esteriore. Lacan definisce l’inconscio come un «taglio in atto» [p.
843], cioè fa valere il vuoto e il bordo come aspetti fondamentali della teoria
e della pratica della psicoanalisi. Con questa topologia l’inconscio diviene
«apertura, battito, un’alternanza da suzione» [p. 841].
La novità dell’operazione di separazione
Se è già ben fondata la questione sul come dedurre
la produzione del soggetto dall’assioma che afferma che l’inconscio è
strutturato come un linguaggio, Lacan vuole portare la sua riflessione al di
là, e rispondere al rimprovero che lui eluderebbe il principio affermato nella
dottrina freudiana che questa dinamica è essenzialmente sessuale con la
proposta delle due operazioni di causazione del soggetto. Si tratta di
articolare l’idea di un inconscio strutturato come un linguaggio con la sessualità
o, in altri termini, di coniugare il significante e l’oggetto. Si tratta di
articolare due ordini eterogenei: quello del significante e quello del
godimento.
Da questo punto di vista l’introduzione più
innovativa a quest’epoca risiede nella operazione di separazione. Nello scritto
Nota sulla relazione di Daniel Lagache: Psicoanalisi e struttura della personalità,
la cui redazione è finita nella pasqua del 1960, lo stesso anno del Congresso
di Bonneval, Lacan già si riferiva a quest’articolazione. Nelle pagine che
dedica allo smontaggio della pulsione dice: «Diremmo che tutto è significante?
Sicuramente no, ma è struttura». Questo frammento è fondamentale perché Lacan
effettua un autentico giro, nel senso che fin a questo momento lui aveva legato
struttura e significante. A partire da questa data dice che c’è struttura ma
non soltanto significante. Jacques-Alain Miller ha sottolineato l’importanza di
questo brano dicendo che tutto è struttura, ma non tutto nella struttura è
significante.
Per questo motivo Lacan propone un cambiamento:
dalla linguistica alla logica, come strumento per dotare la psicoanalisi di una
prospettiva scientifica. C’è anche un cambiamento rispetto alla prospettiva
freudiana sulla dinamica: non è più una energetica, metafora con cui Freud
concepisce l’aspetto libidico prendendo in prestito il concetto dalla fisica,
ma Lacan fa ricorso alla logica formale. L’alienazione e la separazione sono il
risultato dell’utilizzazione della logica degli insiemi, così come la riunione
e l’intersezione che implicano.
Un’altra prospettiva permette di capire questo
giro di Lacan. È il cambiamento dalla significazione fallica come prodotto
della metafora, come via della sessuazione del soggetto, all’idea che sia un
resto, l’oggetto a che scappa al campo del significante, il modo in cui il
soggetto è presente nel campo del Altro.
L’appello al complemento
L’abbordaggio del godimento non si fa soltanto per
il significante fallico ma con un nuovo valore che prende l’oggetto parziale,
come resto non misurabile dal significante fallico. L’essenziale della
questione della separazione è che il soggetto diviso tramite il significante
produce questo appello, una condizione di complementarità che non sarà rivolta
all’Altro, ma che dovrà mettere in gioco qualcosa da lui stesso: l’oggetto a.
Con questa parte, lui potrà stabilire una congiunzione tra la posizione di
soggetto e l’oggetto, cioè quella che scrive il fantasma $<>a.
Mi sembra particolarmente interessante la
spiegazione di Lacan sul fatto che la nozione di intersezione sorge dalla
sovrapposizione di due mancanze: «Una mancanza viene incontrata dal soggetto
nell’Altro, nell’intimazione stessa che l’Altro gli rivolge nel suo discorso.
Negli intervalli del discorso dell’Altro, sorge, nell’esperienza del bambino,
una cosa che vi è radicalmente reperibile - Mi dice questo, ma che cosa vuole?»
[Il seminario, Libro XI, p. 210]. In questo intervallo, e sottolineo
intervallo, che taglia il significante, che fa parte della struttura stessa del
significante, risiede quello che Lacan ha chiamato, in altri registri
dell’insegnamento, la metonimia. Nel seminario I quattro concetti
fondamentali della psicoanalisi Lacan dice: «È qui che striscia, è qui che
scivola, é qui che fugge, come un furetto, quello che noi chiamiamo il
desiderio. Il desiderio dell’Altro viene afferrato del soggetto in ciò che non
quadra, nelle mancanze del discorso dell’Altro, e tutti i perché? del
bambino testimoniano meno di un’avidità della ragione delle cose, di quanto non
costituiscano una messa alla prova dell’adulto, un perché mi dice questo?
sempre ri-suscitato di nuovo dal suo fondo, che è l’enigma del desiderio
dell’adulto.
Ora, nel rispondere a questa presa, il soggetto,
come Calandrino [Gribouille è un personaggio che rappresenta per i francesi un
naïf, un essere ingenuo, semplice, che può gettarsi al fiume per non diventare
umido a causa della pioggia, così rappresenta quelli che per timore di un male
si gettano in un altro peggiore N.d.A.], apporta la risposta della
mancanza antecedente, della propria scomparsa, che egli viene a situare nel
punto della mancanza intravista nell’Altro. Il primo oggetto che egli propone
al desiderio parentale, il cui oggetto è sconosciuto, è la sua propria perdita
Può perdermi? Il fantasma della sua morte, della sua scomparsa, è il primo
oggetto che il soggetto deve mettere in gioco in questa dialettica e, in
effetti, lo mette - lo sappiamo da mille fatti, non fosse che dall’anoressia
mentale. Sappiamo anche che il fantasma della propria morte viene comunemente agitato
dal bambino nei suoi rapporti di amore con i genitori.
Una mancanza ricopre l’altra. (…) È una mancanza
generata dal tempo precedente serve a rispondere alla mancanza suscitata dal
tempo seguente» [Ibid.], la perdita di una parte di se stesso, come
perdita originale, prima, e la sparizione, il fading, l’afanisi del soggetto che
corrisponde all’operazione di alienazione dopo.
Queste parole di Lacan mi sembrano molto
importanti dal punto di vista clinico e sono un orientamento utile dal punto di
vista tecnico, con le parole di Lacan: « è qui che vedremo spuntare il campo
del transfert» [p. 209. E nell’articolo Posizione dell’inconscio dice a
proposito della tecnica che l’idea d’un inconscio come pulsazione si ritroverà
con la scansione del discorso del paziente in quanto l’analista vi interviene.
«L’attesa dell’avvento di questo essere nel suo rapporto con ciò che designano
come desiderio dell’analista (…) ecco la vera e ultima molla di ciò che
costituisce il transfert» [p. 847].
Per questa ragione vediamo di solito all’inizio
dell’analisi dei bambini apparire un gioco: nascondersi o far sparire se stesso
o certi oggetti che lo rappresentano. Ugualmente, nell’analisi di adulti
vediamo un atteggiamento simile nell’uso della sparizione, come l’arrivo in
ritardo per domandare all’Altro il suo desiderio. «Questo organo dell’incorporeo
[l’oggetto a] nell’essere sessuato, ecco ciò che dell’organismo il soggetto
viene a collocare nel tempo in cui si opera la sua separazione. Grazie ad esso
egli può fare della sua morte, realmente, l’oggetto del desiderio dell’Altro».
Perché ha bisogno del mito?
Cosa offre a Lacan il mito al di là della
prospettiva logica che viene utilizzando: la logica degli insiemi e le
operazioni di riunioni e d’intersezione? Lacan ha spiegato in altri contesti,
ad esempio ne Il mito individuale del nevrotico, che il valore del mito
è di dire una verità che non si può dire in altro modo. E credo che nel
paragrafo di cui ora ci occuperemo, vediamo Lacan lottare con la difficoltà
d’introdurre la dinamica in un modo logico e, allo stesso tempo, mostrare il carattere
vivo e persino minacciante della libido.
Il mito che presenta la libido [Il seminario,
Libro XI, p. 191] come un organo irreale nel senso di «un strumento della
pulsione» (che si può legare al concetto posteriore di “apparato di godimento” del
seminario XX) cerca anche di dire qualcosa che è impossibile da dire in un
altro modo. Ma qui è piuttosto un modo di parlare del reale che ci sfugge. Così
precisa che “irreale” non vuol dire immaginario. Ma cosa è un organo irreale?
Lacan ha già definito in quali sensi utilizza
“organo”: «La libido deve essere concepita come un organo, nei due sensi del
termine, organo-parte dell’organismo e organo-strumento» [Il seminario, Libro
XI, p. 182]. E in Posizione dell’inconscio [p. 852]: «Questa lamella
è organo perché è strumento dell’organismo». E nel seminario XI [p. 201]
fornisce la ragione fondamentale che rende necessario l’utilizzo di un mito:
«L’irreale si definisce in quanto si articola con il reale in un modo che ci
sfugge, ed è precisamente questo che necessita che la sua rappresentazione sia
mitica, come noi facciamo». E nello scritto: «Come ogni altro mito si sforza di
dare un’articolazione simbolica più che un’immagine» [p. 851].
Irreale ma incarnato: «Ma, per il fatto che sia
irreale, questo non impedisce a un organo di incarnarsi. Ve ne do subito la
materializzazione. Una delle forme più antiche che incarna nel corpo questo
organo irreale è il tatuaggio». Il tatuaggio oggi ha più importanza rispetto
all’epoca nella quale Lacan parlava, una pratica più estesa adesso nelle nostre
società occidentali, ad ogni modo continua a mantenere le funzioni segnalate da
Lacan: è per l’Altro, situa il soggetto nel campo delle relazioni del gruppo,
tra ognuno e tutti gli altri, e ha chiaramente una funzione erotica che è
sempre facile da percepire. Dopo faremo altri fenomeni che mostrano questa
qualità della libido di essere un organo che s’incarna. Prendendo in
considerazione la qualità della libido di essere un organo che s’incarna, il
fenomeno psicosomatico e l’anoressia sono due esempi che ci consentono di
pensare in un altro modo queste entità cliniche, grazie all’operazione di
separazione.
Il secondo motivo che Lacan ci offre del perché
introdurre la dinamica attraverso un mito è che, dice, vuole rivaleggiare con
un altro mito «di un così grande prestigio», evocato sotto l’autorità di Aristofane
come fa Platone. Da sempre Lacan ha illuminato la lettura di classici, e in
particolare Il Simposio, nel seminario VIII Il transfert,
facendone una lettura molto meno enfatica, meno presuntuosa, mostrando invece,
in particolare nel caso di Aristofane, il carattere comico dei dialoghi. E
questa volta fa altrettanto: «Si tratta persino, se volete, di uno scherzo» [Il
seminario, Libro XI, p. 191]. Il mito: «Ricordiamone la primitiva bestia a
due dorsi in cui si saldano due metà fortemente unite con quelle di una sfera
di Magdeburgo, che, separate in un secondo tempo dall’intervento chirurgico
della gelosia di Zeus, rappresentano quegli esseri affamati d’un complemento
introvabile che siamo divenuti nell’amore. (…) La favola è una sfida ai secoli
in quanto li ha attraversati senza che nessuno abbia tentato di fare di meglio.
Io ci proverò» [Posizione dell’inconscio, p. 848]:
Perché questo mito è perdurato così tanto? Possiamo
spiegare che è riuscito a permanere per tanto tempo perché è una risposta
adeguata, non corretta, non esatta, ma adeguata, per i soggetti che vorrebbero
immaginare che c’è un’altra metà nel mondo che deve essere trovata, cioè
permette di mantenere l’idea dell’esistenza del rapporto sessuale.
Per le stesse ragioni si è accordata una chiara
prevalenza alla sfera nel campo delle scienze naturali durante molti secoli.
In molti miti e credenze l’idea dell’altra metà va
nello stesso senso. Ad esempio, il mito della nascita di Eva dal corpo di Adamo
mostra la preminenza accordata da sempre alla sfera, alla sua divisione e
all’appello al complemento. Per Lacan piuttosto si tratta della incompletezza,
come la chiamerà più tardi, ad esempio nel seminario XVI, e anche della perdita
di una parte di se stesso.
«Il rapporto con l’Altro è proprio ciò che, per
noi, fa sorgere ciò che la lamella rappresenta - non la polarità sessuata, il
rapporto del maschile con il femminile», come fa la favola di Aristofane e
tutte le riflessioni sulla coppia da quest’epoca ai nostri giorni, «ma il
rapporto del soggetto vivente con ciò che perde per il fatto di dover passare,
per la sua riproduzione, attraverso il ciclo sessuale» [Il seminario, Libro
XI, p. 193], e più tardi, negli ultimi seminari, dirà anche per essere
parlante.
Sotto quest’aspetto Lacan è freudiano, afferma che
nell’inconscio non s’inscrive la polarità sessuale e considera tutti questi
propositi di mantenere il mito creato da Aristofane come un’intenzione di
sostenere l’esistenza del rapporto sessuale. Ma quello che s’inscrive è la
pulsione. Il concetto di strumento, messo in rilievo da Lacan, illumina il
concetto di organo nel caso delle pulsioni in quanto costruite come un
montaggio. Lo illustra con le installazioni artistiche, al modo di quelle di Marcel
Duchamp: «Il montaggio della pulsione è un montaggio che, in primo luogo, si
presenta senza capo né coda - nel senso in cui si parla di montaggio in un
collage surrealista. Se avviciniamo i paradossi che abbiamo appena definito a
livello del Drang, a quello dell’oggetto, a quello della meta della
pulsione, credo che l’immagine che ci viene in mente mostrerebbe una dinamo in
funzione collegata a una presa del gas, da cui esce una penna di pavone che
solletica il ventre di una bella donna, che è lì in pianta stabile per la
bellezza della cosa» [Ibid., p. 165]. E aggiunge: «Si vede anche come
ciò che Freud chiama Schub, o colata della pulsione, non è la sua
scarica, ma va descritta piuttosto come l’evaginazione in andata e ritorno di
un organo la cui funzione va situata nelle coordinate soggettive precedenti» [Posizione
dell’inconscio, in “Scritti”, vol. 2, p. 850].
Si vede bene che non si tratta assolutamente di un
istinto, come si continua a dire fra gli psicoanalisti ortodossi. L’istinto si
scarica, la pulsione è un percorso di andata e ritorno. Il Drang è
costante.
Lacan oppone il suo mito al mito di Aristofane,
nel suo non è questione di trovare la sua altra metà, ma il complemento della
parte perduta da se stesso.
«Ebbene, immaginiamo che ogni volta che le
membrane si rompono, dalla stessa uscita s’involi un fantasma, quello di una
forma della vita infinitamente più primaria, e che non sia affatto pronta a
raddoppiare il mondo come microcosmo.
Rompendo l’uovo si fa sí l’Homo ma anche
l’Hommelette.
Supponiamola come un’ampia crêpe che si sposti
come l’ameba, ultrapiatta tanto da passare sotto le porte, onnisciente perché
mossa dal puro istinto della vita, immortale perché scissipara. Ecco qualcosa
che non sarebbe bello sentirsi colare sul viso, senza rumore, durante il sonno
per sigillarlo. (…) Inutile aggiungere che contro un essere così temibile la
lotta s’ingaggerebbe presto, ma una lotta difficile.(…) Infatti non sarebbe
facile ovviare alle vie dei suoi attacchi, impossibili del resto a prevedersi
perché non conoscerebbe ostacoli» [Ibid., p. 849].
La libido è definita da Lacan come un puro istinto
di vita, di vita immortale, di vita che non si può rimuovere.
È abbastanza sorprendente il modo in cui Lacan
enfatizza l’aspetto relativo alla partizione da se stesso attraverso
l’utilizzazione d’immagini biologiche, ad esempio: «Consideriamo questo uovo
nel ventre viviparo in cui non ha bisogno di guscio, e ricordiamo che ogni
volta che le sue membrane si rompono, è una parte dell’uovo a esser ferita,
giacché dell’uovo fecondato le membrane sono figlie allo stesso titolo del
vivente che viene alla luce per la loro perforazione. Ne viene che alla sezione
del cordone ciò che il neonato perde non è come pensano gli analisti, la madre,
ma il suo complemento anatomico. È quel che le levatrici chiamano “délivre”»,
gli annessi fetali [Posizione dell’inconscio, pp. 848-849]. Questi
riferimenti biologici, ad esempio qui gli annessi fetali, sono molto strani
nell’insegnamento di Lacan. Ha cominciato ad accennare alle determinanti
biologiche appena prima, nel seminario precedente sull’angoscia, dove parla
della castrazione in termini di detumescenza fallica, e che continua nel
seminario XI e nell’articolo Posizione dell’inconscio, ma dopo non
riprenderà mai più questa prospettiva. Forse la descrizione nei termini della
biologia gli permette di sottolineare di più che la perdita sia di una parte da
se stesso, perdita originale, in opposizione alle correnti della psicoanalisi
dell’epoca. Dice ad esempio, nella p. 849, che la nascita non suppone la
perdita della madre come abitualmente affermano gli analisti, ma la perdita del
suo complemento anatomico, e questo è il motivo per il quale Lacan parla di
mutilazione ed anche di automutilazione. Nella p. 851 illustra quest’aspetto a
proposito del seno, rinforzando il carattere di «taglio anatomico» per opporsi,
con tono ironico e quasi di beffa, all’idea del seno come «“fonte di una
nostalgia regressiva” per il fatto di essere stata quella di un nutrimento
stimato. Esso è legato al corpo materno, si dice, al suo calore, alle premure
dell’amore. Ma ciò non dà sufficientemente ragione del suo valore erotico, di
cui un quadro (a Berlino) di Tiepolo, figurante in un orrore esaltato
sant’Agata dopo il supplizio, dà un’idea più adeguata» L’immagine di sant’Agata
la mostra portare su un vassoio i suoi seni tagliati nel martirio. Alcune righe
dopo aggiunge: «si tratta del seno specificato nella funzione di svezzamento
che prefigura la castrazione».
Riassumo il gioco del nipote di Freud con le
parole di Lacan: «Freud, quando coglie la ripetizione nel gioco del nipotino,
nel fort-da reiterato, può sí sottolineare che il bambino tampona l’effetto della
scomparsa della madre facendosene l’agente, ma questo fenomeno è secondario.
Come sottolinea Wallon, non è che il bambino sorvegli immediatamente la porta
da cui è uscita la madre mostrando così che si aspetta di rivederla lí, ma,
prima, è al punto stesso in cui ella lo ha lasciato, al punto da lei
abbandonato vicino a lui che egli porta la sua attenzione. La faglia introdotta
dall’assenza così disegnata e sempre aperta resta causa di un tracciato
centrifugo in cui ciò che cade non è l’altro», la madre nel caso del nipote di
Freud, «in quanto figura in cui il soggetto si proietta, ma il rocchetto legato
a lui da un filo che egli trattiene - in cui si esprime ciò che, di lui, in
questa prova si stacca, l’automutilazione a partire da cui l’ordine della
significanza si mette in prospettiva. (…) Il rocchetto non è la madre ridotta
una pallina grazie a chissà quale gioco degno degli Jivaro - è piuttosto un
piccolo qualcosa del soggetto che si stacca pur essendo ancora suo, ancora
trattenuto» [Il seminario, Libro XI, p. 60].
L’introduzione del mito, in queste pagine, somiglia
più a un film di terrore in confronto alle descrizioni della che ne fanno uno
Jung, che parla di una energia psichica indifferenziata, d’una energia vitale
ampia e generalizzata, ma anche di Freud, che descrive la libido come un campo
di forze, prendendo la metafora della fisica. Credo sia un effetto cercato da
Lacan il fatto di essere una descrizione più prossima ad un film che fa paura.
Sicuramente con queste immagini Lacan dà non soltanto una descrizione più o
meno astratta, come sono le operazioni di alienazione e separazione da un punto
di vista logico, ma anche una descrizione più incarnata, più materiale.
Riassumendo, si può dire che l’utilizzazione del
mito serve:
- per articolare il rapporto con il reale che ci
sfugge, il mito ci dà una articolazione simbolica;
- per rivaleggiare con un mito così durevole, il
mito della coppia come due metà complementari;
- per rappresentare l’oggetto a, l’oggetto della
pulsione, in chiara opposizione alla polarità sessuata, al rapporto del
maschile con il femminile, che non s’iscrive nell’inconscio e, in questo senso,
è una anticipazione della formula “Non c’è rapporto sessuale” che manterrà sino
alla fine del suo insegnamento;
- per offrire una immagine più incarnata, nel
testo si fa riferimento alla materializzazione nella figura del tatuaggio.
«La libido è la lamella che fa scivolare l’essere
dell’organismo al suo vero limite, che va oltre il limite del corpo» [Posizione
dell’inconscio, p. 852]. In questa affermazione vorrei evidenziare due
questioni: da una parte la differenza che Lacan fa tra corpo e organismo,
dall’altra, quando dice che va oltre il limite, Lacan pensa l’essere
dell’organismo come una superficie che copre il corpo di differenti modi
secondo la struttura.
Sottolineo che l’organismo non è concepito nel
senso colloquiale, ma è concepito come corpo + libido, così lo definisce
Jacques-Alain Miller in un articolo molto interessante che ha per titolo Riflessioni
sul fenomeno psicosomatico [La Psicoanalisi, n. 2].
Lacan spiega il modo in cui la libido fa
strisciare l’essere dell’organismo al suo vero limite offrendoci
un’osservazione del comportamento animale per far capire l’idea del
prolungamento della libido al di là del corpo: «La sua funzione radicale
nell’animale è materializzata in certa etologia dell’improvvisa caduta del suo
potere di intimidazione al limite del suo “territorio”». Si capisce bene che
l’estensione del potere di intimidazione va al di là del corpo dell’animale,
fino ai confini del suo campo, del suo territorio. In questo caso si vede anche
che «è organo perché è strumento dell’organismo» [Ibid., p. 852].
Lacan continua con l’introduzione della manovra
dell’isterica, dicendo che mette «la libido alla prova fino all’elasticità
estrema». Cosa vuol dire mettere la libido alla prova della sua elasticità? La
libido si localizza nel sintomo isterico secondo un modo diverso da quello
proprio dell’immagine speculare. Il corpo isterico soffre una frammentazione
che possiamo esemplificare con la paralisi del braccio o della gamba, come nell’astasia-abasia
della paziente di Freud Elisabeth Von R., o la paralisi della mano, che produce
l’inibizione nevrotica di uno scrittore. In ambedue è il corpo libidico che si
fa presente. È precisamente un modo di fare diagnosi differenziale tra un sintomo
neurologico e uno isterico. Il primo seguirà le vie dell’innervazione
anatomica, il sintomo isterico, ad esempio un’anestesia a guanto, seguirà
invece la forma immaginaria della mano.
Il fenomeno psicosomatico
Fenomeno psicosomatico (FPS): Lacan lo chiama
“fenomeno” per mettere in rilievo che non è un sintomo in stricto sensu, non è
una formazione dell’inconscio che ha struttura di linguaggio. Il sintomo
suppone una sostituzione che nel linguaggio della retorica ha nome di metafora,
per questo motivo è aperto allo spostamento retroattivo per riformulazione e a
un cambiamento dovuto all’emergenza degli effetti di verità. Il FPS, invece, si
configura nell’assenza di metafora soggettiva, nell’assenza di afanisi. Lacan
parla di una stessa matrice per spiegare una serie di casi: il debole mentale,
la psicosi e il fenomeno psicosomatico, «Anche se in ciascuno il soggetto non
occupa lo stesso posto» [Il seminario, Libro XI, p. 233]. In tutti
questi casi è in gioco la mancanza d’intervallo tra S1 e S2,
cioè la prima coppia di significanti si solidifica, si congela, si olofrasizza.
Per Lacan il fenomeno psicosomatico è nel bordo della psicoanalisi perché è al
limite del campo del linguaggio. Dobbiamo giustificare perché nonostante sia ai
confini del linguaggio possiamo occuparci del FPS in psicoanalisi.
Un fenomeno psicosomatico non s’interpreta. La sua
interpretazione è nella maggior parte dei casi inutile. Soltanto in alcuni casi
si potrebbe avere qualche effetto in modo suggestivo, nell’articolo
“Riflessioni sul fenomeno psicosomatico” [cit.] Jacques-Alain Miller dice che
questi fenomeni si possono risolvere, quando lo fanno, dalla suggestione perché
c’è una struttura comune tra la suggestione e il fenomeno psicosomatico:
quest’ultimo, dice, è una specie di suggestione prolungata, in certo modo
eterna.
Il FPS evita, schiva, la struttura del linguaggio,
con diverse conseguenze, una è che la categoria di trauma non è valida. In
questi casi è piuttosto un evento storico, biografico, che non si trasporrebbe
per struttura di linguaggio ma che si iscriverebbe direttamente.
Possiamo scrivere il fenomeno psicosomatico: I (
), per evocare la sua affinità con il tratto unario, preso da Lacan in Freud,
ma qui non indicizzato con l’Altro del significante. È per questa ragione che
Lacan, nelle stesse pagine del seminario XI (che costituiscono i nostri
riferimenti fondamentali su questo tema), si riferisce agli esperimenti sul
riflesso condizionato di Pavlov a proposito dell’animale, dicendo che l’animale
non essendo un essere parlante non mette in gioco, sul tappeto, il desiderio
dello sperimentatore. Cosa significa situare il FPS quasi nel registro
dell’animale dell’uomo? Significa che nel FPS il soggetto lì dove dovrebbe far
questione il desiderio dell’Altro lo schiva, schiva l’Altro del significante.
Questa è un’altra caratteristica differenziale rispetto al sintomo isterico,
perché questo rapporto con l’Altro è costitutivo del sintomo isterico. Nel FPS
il meccanismo di rappresentazione non funziona, S1 non fa catena con
S2, il soggetto non è rappresentato da un significante per un altro.
E si può anzi domandarsi se c’è o non c’è soggetto. Miller dice che nella
misura in cui il soggetto cessa di essere rappresentato manca la discontinuità.
Siamo in presenza o in assenza di un significante unario, di un significante
privilegiato (Miller segnala che il nostro linguaggio non è molto adeguato), in
ogni caso sarà un S1, ma in un certo senso assoluto.
Cosa disponiamo per pensare questo S1?
S’interroga Miller. E afferma: le nostre risorse sono scarse. Nel tratto unario
si ha un significante da solo, non articolato. Possiamo apportare il
geroglifico, ma un geroglifico nel deserto, possiamo pensare alla segnatura,
che al limite è una semplice X, la marca che il soggetto era lì, il nome
proprio, nel senso che fa cortocircuito dell’Altro del linguaggio, il nome
proprio attraversa le diverse lingue e sembra riferirsi in modo diretto
all’oggetto senza passare per l’articolazione significante. Anzi, non potremmo
evocare il sigillo? E la scarificazione? Questa enumerazione serve per mostrare
la difficoltà di definire questo S1.
Nella Conferenza di Ginevra Il sintomo [La
Psicoanalisi, n. 2] Lacan dice che «lo psicosomatico è qualcosa che è nel suo
fondamento profondamente attecchito nell’immaginario». Il fenomeno psicosomatico
è ancora, conclude J-A. Miller, un campo di ricerca dell’S1, che non
supera il livello dell’analogia. Dovremmo studiare di più il carattere di
questo S1, almeno fino a trovare la nostra impossibilità, cioè un
reale. Lacan si riferisce, nella stessa pagina, alla psicosi: «È sicuramente di
qualcosa dello stesso ordine che si tratta nella psicosi. Questa solidità,
questa presa in massa della catena significante primitiva è ciò che proibisce
quell’apertura dialettica che si manifesta nel fenomeno della credenza».
Dovremmo opporre a questa credenza la certezza psicotica. Nella paranoia, così
piena di credenza, ciononostante regna il fenomeno dell’Unglauben, cioè
non il non crederci ma l’assenza di uno dei termini della credenza, termine con
cui si designa la divisione del soggetto. Nella pagina successiva Lacan
afferma: «Se in effetti non esiste credenza che non supponga nel suo fondo che
la dimensione ultima che essa deve rivelare è strettamente correlativa al
momento in cui il suo senso svanirà». Cioè, manca l’afanisi del soggetto.
D’altra parte, l’incorporazione della struttura
del linguaggio ha sul corpo un effetto preciso: la separazione del corpo e del
godimento. Possiamo qui parlare di evacuazione, svuotamento del godimento che
rimane riservato a certe zone erogene del corpo. Nel caso del FPS il godimento
torna a entrare nel corpo. Con una localizzazione, non la delocalizzazione del
godimento della psicosi, ma una localizzazione diversa dalla “normale”. C’è una
localizzazione spostata, fuori delle zone erogene del corpo.
Torno all’idea di Lacan di una libido incarnata,
corporificata, per indicare che, nel brano che stiamo commentando, Lacan nel
proporre che i limiti dell’organismo vanno al di là dei limiti del corpo
propone allo stesso tempo una topologia che risulta strana per noi, perché la
nostra inclinazione naturale vede nel corpo una funzione di esteriorità, di
forma totale, e consideriamo che l’organismo è nell’interiore. Lacan, al
contrario, considera specifico dell’essere parlante, specialmente nel caso
dell’isteria, che l’organismo include la libido stessa, e una libido fuori dal
corpo, così come sono fuori corpo gli oggetti a.
In Riflessioni sul fenomeno psicosomatico
Miller disegna due circoli concentrici e segnala che nel caso dell’essere
parlante il corpo è dentro il circolo che rappresenta l’organismo, mentre che
nel FPS è all’inverso. In effetti, nel FPS il paradosso è che la libido non è
un organo incorporeo come nel caso normale, o perfino nel caso dell’isteria, ma
la libido diviene corporificata. La lesione potrebbe essere considerata come
libido corporificata. Nella Conferenza di Ginevra, Lacan propone che «è per il
godimento specifico che il FPS ha nella sua fissazione che si deve abbordare lo
psicosomatico», cioè è necessario cercare nella soddisfazione il principio
causale del congelamento, della olofrase, per trasformare il FPS in sintomo,
ovvero far sì che l’Altro non sia soltanto il corpo proprio.
L’anoressia mentale
Questa prospettiva di Lacan serve anche per
illuminare un nuovo settore della clinica: la cosiddetta anoressia mentale. In
una intervista su Radio Lacan, Domenico Cosenza proponeva che questo è un
soggetto che ha un rapporto molto importante con il tema del Convegno
Internazionale di Rio de Janeiro L’inconscio e il corpo parlante. Questo
tipo clinico mostra una particolare passione negativa per l’immagine nello
specchio, un funzionamento dell’olofrase sul piano della parola e il linguaggio,
e un godimento compulsivo e senza limiti, costituisce un buon esempio del
problema che vengo sviluppando sulla stessa matrice e che riunisce una serie di
casi: il FPS, la psicosi e l’anoressia mentale. Sono casi dove s’incontra una
assenza di metafora soggettiva, di afanisi.
Per capire meglio questo problema possiamo
considerare la riflessione di Lacan sul gioco del rocchetto del piccolo nipote
di Freud, conosciuta come l’esperienza del Fort-Da, che Lacan riprende
innumerevole volte nel seminario XI, sopratutto per spiegare la ripetizione.
All’inizio del suo insegnamento, ad esempio con Funzione
e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, Lacan proponeva come
essenziale l’opposizione fonematica Fort-da, il gioco ripetitivo, l’assenza
della madre. Nel seminario XI la problematica si rovescia: Lacan mostra che
l’essere del soggetto si definisce dal lato del rocchetto e si accompagna del
fascino del Fort-Da. Quest’inversione topologica mostra bene che, in questo
momento, è nel rocchetto che si decide l’essenziale della operazione. Dice che
il rocchetto è qui messo in gioco, nel luogo dove si è aperto un buco,
un’apertura sul fondo dell’assenza della madre.
Una lezione clinica: l’osservazione di Freud
Nel 1920, Freud inventa l’osservazione analitica
del bambino nel laboratorio del Fort-Da, osservando il gioco di un piccolo
bambino di un anno e mezzo, suo nipote che abitava a sua casa per alcuni
settimane.
Primo tempo. Il bambino lanciava lontano, al di là
della sua culla, tutti i piccoli oggetti che poteva appropriarsi, e
accompagnava questo atto con una espressione d’interesse e soddisfazione, un “Oooo”
forte e prolungato, che secondo l’opinione della madre e di Freud non era
proprio una interiezione, una esclamazione, ma significava Fort, “partito”.
Freud deduce che era un gioco e che il bambino utilizzava i suoi giocattoli per
giocare a “partito”.
Secondo tempo. Freud nota poi una modificazione
del gioco. Il bambino teneva una bobina intorno alla quale era avvolto un filo,
lui la lanciava sopra il bordo della culla questa bobina e osservava la sua
scomparsa pronunciando un “Oooo” pieno di senso. Dopo tirava il filo per
riprendere la bobina e salutava la sua riapparizione con un allegro Da, “qui”.
Era il gioco completo di sparizione e ritorno, presenza-assenza, del quale si
percepiva spesso soltanto il primo atto, infaticabilmente ripetuto, sebbene il
maggior piacere del bambino provenisse dal secondo.
Terzo tempo. Freud aggiunge alle due precedenti
un’osservazione ulteriore. Un giorno la madre si è assentata durante molte ore,
ed è ricevuta dal bambino con il saluto “Bebé…Oooo” che non fu facile da
interpretare. Freud dopo capisce che il bambino, durante la lunga assenza di
sua madre, aveva trovato un modo di far sparire se stesso: lui aveva scoperto
la sua immagine nello specchio, specchio che non arrivava a terra cosicché
mentre lui era abbassato, chinato, l’immagine spariva. Freud credeva che questo
gioco fosse in rapporto con «importanti risultati di ordine culturale ottenuti
dal bambino» per il fatto di aver conseguito una rinuncia pulsionale che gli
permetteva di accettare che la madre partisse, senza pianto e senza ira. Freud
pensava che il bambino si compensasse del traumatismo causato dall’assenza
della madre mettendo in scena lui stesso, con i suoi oggetti, la presenza-assenza,
facendo poi montare sulla scena la sua immagine speculare, il suo Io.
La partenza della madre non poteva essere
piacevole per il bambino. Freud allora si è domandato come conciliare il fatto
che il bambino nonostante ciò ripeteva l’esperienza penosa. Due interpretazioni.
Nella prima Freud pensa che il bambino, passivo alla mercé degli eventi, si
assicurasse per pulsione di dominio un ruolo attivo nella ripetizione del
gioco. Una ripetizione significante che viene al posto del ricordo
traumatizzante. Nella seconda Freud vedeva nella azione del bambino una specie
di sfida. Rifiutando l’oggetto, soddisfa la pulsione di vendicarsi della madre.
Il suo atto ha una significazione di rifiuto dell’Altro, come fondamentalmente
non assimilabile, un inizio di simbolizzazione.
Se Freud, attraverso questo gioco, ha capito i due
assi della ripetizione significante del soggetto e del rigetto dell’oggetto, ha
avuto anche l’idea che il bambino ripetendo una esperienza sgradevole traeva
ciononostante «un guadagno di piacere d’altra specie», cioè quello che Lacan
nomina godimento.
Il bambino nasce al linguaggio
Lacan considera che Freud abbia avuto un’intuizione
geniale. Sono questi giochi di occultazione, mostrati da Freud, quelli che ci
permettono di riconoscere che il momento nel quale il desiderio si umanizza è
anche quello dove il bambino nasce al linguaggio.
Dobbiamo sottolineare due aspetti. Il bambino
s’impegna nel linguaggio attraverso il discorso dell’Altro, riproducendo più o
meno i vocaboli che riceve da questo Altro. Lo fa, nell’esempio, con la coppia
di significanti fort-da. Questa opposizione funziona come un battito
significante, “lì - non lì”, illustrando la catena significante ridotta qui al
suo minimo simbolico. E dobbiamo anche sottolineare che il bambino s’impegna
nel linguaggio anche con un oggetto, il rocchetto.
Questa osservazione presenta in modo quasi
sperimentale l’avvenimento di un soggetto. L’inscrizione nella catena
significante, fort-da, produce un soggetto, e questa operazione esige anche
l’estrazione di un oggetto. La realtà del bambino è sopportata da un oggetto, e
da un gioco che gli dà il suo quadro. Il soggetto si separa da un oggetto da
cui ha un godimento e questa separazione è logicamente contemporanea alla sua
inscrizione nella catena significante.
Si produce così un cambiamento omologo del
concetto di ripetizione. Non fa già ostacolo al ricordo, piuttosto appare come
la traccia di un incontro fallito con il reale. Lacan non accentua il godimento
legato all’insistenza della catena significante, ma fa presente che è legata a
una perdita. «L’insieme del gioco simbolizza la ripetizione, ma non certo
quella di un bisogno che farebbe appello al ritorno della madre e che si
manifesterebbe più semplicemente nel grido. Si tratta della ripetizione della
partenza della madre come causa di una Spaltung nel soggetto - superata
dal gioco che si alterna» [Il seminario, Libro XI, p. 61]. E nella
pagina precedente Lacan che «non è che il bambino sorvegli immediatamente la
porta da cui è uscita la madre mostrando così che si aspetta di rivederla lì,
ma, prima, è al punto stesso in cui ella lo ha lasciato, al punto da lei
abbandonato vicino a lui che egli porta la sua attenzione. La faglia introdotta
dall’assenza così disegnata e sempre aperta resta causa di un tracciato
centrifugo in cui ciò che cade non è l’altro in quanto figura in cui il
soggetto si proietta, ma il rocchetto legato a lui da un filo che egli
trattiene - in cui si esprime ciò che, di lui, in questa prova si stacca,
l’automutilazione a partire da cui l’ordine della significanza si mette in
prospettiva. Poiché il gioco del rocchetto è la risposta del soggetto a quanto
l’assenza della madre è venuta a creare sulla frontiera del suo dominio - sul
bordo della culla - cioè un fossato, intorno al quale non gli resta che fare il
gioco del salto». E Lacan aggiunge, con la sua caratteristica ironia, che «Il
rocchetto non è la madre ridotta a una pallina grazie a chissà quale gioco
degno degli Jivaro - è piuttosto un piccolo qualcosa del soggetto che si stacca
pur essendo ancora suo, ancora trattenuto». Il rocchetto illustra la
castrazione, che contiene l’oggetto sguardo, oggetto a in gioco. Meglio che di
essere totalmente preso nel reale dell’abbandono della madre e di situare il
suo corpo nel battito dell’opposizione significante (come si vede fare ad
alcuni soggetti psicotici, che passano il tempo a accendere/spegnere una lampada,
aprire/chiudere una porta). Il soggetto gioca, cioè gode con le parole e con il
rocchetto, l’equivalente di un pezzo del suo corpo. Per Lacan l’essenza della
ripetizione di questo gioco è il processo stesso della alienazione del soggetto
che si esprime nel Fort. Il soggetto dispone allora di una scelta forzata, la
traduzione e il nominare. Il soggetto è condannato «a non apparire che in
questa divisione».
Revisione redazionale di Giuseppe Perfetto
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