“Nasce l’uomo a fatica ed è
rischio di morte il nascimento”, scrive il poeta [G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante, in:
“Poesie”, Mondadori, 1987, p.85]. Da subito, la vita e la morte, il corpo e la
parola si intrecciano in modo indissolubile e che resta misterioso. Un corpo
nasce da un altro corpo ed è già segnato dalle parole che lo hanno preceduto,
dal significante che barra il legame con la madre.
Il rischio di morte è da
subito non solo fisica, ma anche di possibile non-assenso all’ingresso nel
mondo significante umano [J. Lacan, Il
Seminario. Libro III. Le psicosi (1955-1956), Einaudi, 1985, p. 56]. Il corpo
allora può restare nei frammenti della biologia e non accedere al discorso e
all’immagine illusoria e unificante. Il dramma schizofrenico si situa lì. È prima
di tutto nella madre che il taglio simbolico occorre sia presente, a sua stessa
insaputa. Quello fisico non è sufficiente.
La madre, infatti,
contrariamente a ciò che si dice, non dà la vita, la trasmette soltanto, ne è
lo strumento inconsapevole, però in modo assai più pregnante dell’uomo. La
madre infatti è attraversata da una contraddizione insanabile, mette il suo
stesso corpo, lo cede in certo senso, al servizio del bambino, di questo
parassita che la abita, ma nello stesso tempo deve ritrarsene perché il figlio non rimanga una parte di lei stessa, amata o
odiata secondo le circostanze.
Freud, nel parlare del
bambino, sottolinea, come farà anche Lacan, la prematurità e l’impotenza con
cui l’essere umano viene al mondo, rispetto anche alle altre specie animali.
Prematurità e impotenza che, dice, “il bisogno di essere amato, bisogno che non
abbandonerà l’uomo mai più” [S. Freud, Inibizione,
sintomo e angoscia (1925), in Opere, vol. X, Bollati Boringhieri, p. 301].
L’essere umano nasce “infans”,
muto, senza parola, nudo e senza nome, dovrà riceverlo dall’Altro e sarà il primo
indelebile marchio del linguaggio in cui si è trovato immerso, il primo segno
della contraddizione insanabile che lo attraversa. Il nome proprio è, con il
corpo stesso, quanto di meno “proprio “ ognuno hanno. Già lì, infatti, nel
nome, il soggetto si fa rappresentante fin nel corpo, del desiderio dell’Altro,
della trasmissione intergenerazionale che l’ha segnato prima di nascere
biologicamente.
Prima ancora di emettere
suoni, sia pure inarticolati, il bambino è già parlato dal discorso parentale,
da quello della madre. Non è senza parole, anche non espresse, di amore, di
dolore, di paura e anche di odio, che la madre porta in sé questo essere
vivente e nuovo che è il bambino.
Il bambino, parassita e
sconosciuto, che la madre cerca di assimilare - si può dire addomesticare - durante
la gravidanza, con le parole che gli rivolge, il nome che gli prepara insieme agli
oggetti per accoglierlo.
La madre, con la gravidanza, acquista
una pienezza non solo fisica, che la donna nel suo sentirsi mancante non ha e
che può divenire pericolosa per lei stessa e per il bambino, o perché la
respinge o perché vi si accomoda e può sentirsi svuotata dopo il parto [J-A.
Miller, Dei sembianti nella relazione tra
i sessi, in: “La Psicoanalisi”, n.45, Astrolabio, 2009, p.15].
Si situano qui le diverse
varietà di baby-blues, depressioni post – partum, che non necessariamente si
manifestano alla nascita del bambino. Molte donne dicono della gravidanza, per
lo più con un godimento che va oltre la gioia, alcune con giustificato timore.
Può essere un esempio la madre
che, dopo alcuni giorni, non ha voluto più allattare il bambino per il timore
del troppo di godimento che aveva provato e di dove questo poteva portarla.
Perché, se è vero che ogni
essere umano è solo e sperimenta la derelizione, la donna in gravidanza si trova in una pericolosa e paradossale
solitudine a due.
Il bambino, pur se ancora non
nato, è lì pronto a colmare ogni sua mancanza, proprio con la realtà del suo
bisogno, della sua immaturità e completa impotenza [J. Lacan, Due note sul bambino, in: “La Psicoanalisi”,
n.1, Astrolabio, p.22]. Per questo è importante che la madre non si immerga
nella sua solitudine di godimento del figlio, ma abbia intorno chi le può
ricordare che, pur madre, è anche sempre una donna.
Che la madre si viva anche
come donna è fondamentale fin da prima della nascita del bambino, per lei e per
il nuovo nato, perché la solitudine a due lasci il posto al taglio che permette
la relazione umana. Occorre che la donna acconsenta a perdere qualcosa della
“pienezza” acquisita per accettare la mancanza, resa presente dal suo corpo
stesso con le trasformazioni che sfuggono a qualsiasi determinazione cosciente.
Paradossalmente, il modo per
non lasciare sommergere la donna nella madre con la sua completezza, specie
nell’avanzare della gravidanza, è quello che il mito ci tramanda, la protezione della madre e del
bambino. È attraverso quest’oblatività paterna che, mentre mette a lato la sua fallacità,
l’uomo la arricchisce, e la madre può sentirsi ancora una donna per un uomo, nel suo divenire madre.
Percorso complesso e sempre a
rischio. Il concepimento e la gravidanza infatti comportano una metamorfosi
profonda sia della donna che dell’uomo. Entrambi, ciascuno a suo modo, scoprono
una nuova dimensione della solitudine umana, banco di prova per una nuova
relazione che includa il bambino. Altrimenti, nonostante tutte le apparenze di
famiglia, il figlio troverà ad accoglierlo un guscio materno già pronto, continuazione
di quello nel corpo della madre, dove ella lo collocherà e da cui sarà poi
molto difficile muoversi. Il primo prezzo dell’esistere infatti è nella
rinuncia a una parte di sé, quella comune fin nel corpo tra la madre e il
bambino. Il bambino “infans” ancora non ha la parola ed è l’Altro che lo parla,
lo “interpreta”, con quanto di equivoco e malinteso può esserci in questo.
È l’Altro che dà un senso ai
suoni che il bambino emette e a tutto il movimento del suo corpo. La pulsionalità
del bambino si intreccia al linguaggio da subito, al discorso della madre, dei
genitori, scava solchi nel corpo e in essi si incanala la libido del soggetto, facendone un essere umano irripetibile e
solo.
Da subito, da prima di
nascere, l’essere umano si trova preso nel linguaggio, necessario per vivere e
che può anche costringerlo fino alla fine fisica o psichica. Senza la parola
rivolta a lui infatti il bambino non vive, come osservava già Spitz [R. Spitz, Il
primo anno di vita del bambino, Giunti-Barbera, 1972], e confermano
le moderne indicazioni nei reparti di neonatologia [M. Szejer, Des
mots pour naitre, Gallimard, 2003].
Anche se non parla, il bambino
intende, fa sue le parole dell’Altro e ancora di più il desiderio, che esse
veicolano o celano. La voce infatti è il
primo elemento percepito dall’essere umano, insieme al maneggiamento del corpo.
Paure, timori e anche troppo di godimento passano dalla madre ai sensi del
bambino, plasmano il suo corpo e tracciano le vie
per il suo essere nel mondo umano. Le pulsioni infatti sono l’eco nel corpo che
ci sia un dire [J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII. Il sinthomo (1975-1976), Astrolabio, 2006,
p.16].
Senza questo dire, senza la
parola dell’Altro, sorge l’angoscia, il segnale della derelizione solitaria
insostenibile. Lacan ci dice che l’angoscia
è “il sentimento che sorge dal sospetto di essere ridotti al nostro corpo” [J. Lacan, La
Terza, in: “La Psicoanalisi”, n.12, Astrolabio, 1993, p.33]. Questo
corpo che è “nostro” e che ci è estraneo e che solo la parola che veicola l’amore,
l’interesse particolare, può tenere insieme.
L’amore infatti, già nel mito,
è lo struggimento per l’unità perduta e l’anelito a riottenerla. Il dualismo
corpo-parola, corpo-anima, è fin dalle
origini del pensiero occidentale, corpo e pensiero non coincidono, non
hanno alcun legame “naturale” fra loro. Il corpo è invece in frammenti e solo
il montaggio pulsionale può portare una fuggevole soddisfazione, con la
delimitazione delle zone erogene. Montaggio e delimitazione, impossibili al
soggetto schizofrenico, il cui lamento è proprio sull’invasione di godimento
doloroso nel corpo, che sfugge e rende irraggiungibile qualsiasi soddisfazione.
Lacan dirà: “sono dove non penso”, sottolineando la divisione dell’essere
umano fra biologia e linguaggio, con il termine “parletre” che lo sancisce. Il
corpo e le sue manifestazioni, i suoi sintomi sono al centro già della scoperta
di Freud, con le “malattie che parlano, per farci intendere la verità di ciò
che dicono” [J. Lacan, Intervento sul transfert (1951), in: “Scritti”, vol.1, Einaudi, 1974,
p. 210].
Oltre la possibilità di dire
si situa con l’ultimo Lacan il nucleo inesplorabile del corpo nella sua solitudine. Il corpo stesso infatti è il risultato di un
“montaggio”. Alla nascita il bambino non sa di averlo, imparerà a percepirlo
attraverso le cure, le parole che accompagnano il nutrimento, lo svezzamento, l’educazione
sfinterica, il maneggiamento del corpo.
Si pongono qui le basi del
rapporto che avrà da adulto con gli aspetti pulsionali del corpo, ma per questo
occorre che ci sia chi gli rivolge la parola, chi “nomina” il suo corpo nei
suoi primi bisogni. Le parole e gli atti, in un certo senso, scrivono sul
corpo, ne fanno un’unità fino allo stadio dello specchio, rivelatore dell’avvenuta
o meno organizzazione pulsionale. Sono le parole a dare vita e unità al corpo,
altrimenti in frammenti. Il corpo fa comunque enigma all’essere parlante, con
il suo incontro impossibile tra biologia e rappresentazione del soggetto nel
mondo simbolico.
Lo sviluppo infatti di questo
corpo non ha nulla di naturale, per tappe, non stadi evolutivi, ma contingenza,
tukè, stigmate di vittoria o di
sconfitta. Queste prime tracce saranno impossibili da cancellare e l’essere
umano dovrà imparare a farne qualcosa, ad esempio con somatizzazioni nell’isteria,
con rappresentazioni nell’ossessività, modi diversi della rimozione oppure il
soggetto negherà inizialmente l’assenso all’ingresso nel simbolico, nell’insondabile
decisione dell’essere [J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica (1946),
in: “Scritti”, vol. 1, Einaudi, 1974, p.145].
Il cammino per la relazione
umana con gli oggetti di amore e di soddisfazione, per lenire la solitudine
ineliminabile, passa all’inizio per il “narcisismo primario”, dove può subire
un arresto. La scoperta di Freud ci dice anche che tutto il corpo è erogeno,
percorso dalla pulsione, che ha la sua origine in stimoli interni e da cui non
è possibile una fuga ma solo un accomodamento singolare.
Già il fort-da del bambino
introduce una scadenza significante, che designa l’oggetto e anche il soggetto
stesso [J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della
psicoanalisi (1964), Einaudi, 2003, p. 60sg]. Presenza - assenza, perché solo la presenza
angoscia. Lacan dirà che è l’assenza possibile, con la mancanza che comporta, a
dare la sicurezza dell’esistenza, del ritorno dell’oggetto anelato, che non
sarà mai quello agognato.
L’importanza dell’immagine
allo specchio non è in quanto tale, perché l’immagine non ricopre, non unifica,
di per sé il caos corporeo, ma mette in evidenza, insieme all’unicità, la
relazione tra questa immagine e il soggetto, la cui assenza appare nella
psicosi, nell’autismo.
Ciò che permette questa
relazione tra il bambino e l’immagine, tra il soggetto e il corpo è la parola dell’Altro
e il desiderio che essa veicola come risposta alla domanda umana: cosa sono per
l’Altro? Scrive Lacan: “Il primo detto
decreta, legifera, è oracolo, conferisce all’Altro reale la sua oscura autorità”
[J. Lacan, Sovversione
del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano (1960), in:
Scritti, vol. 2, Einaudi, 1974, p. 810]. Da qui nasce l’identificazione
a un tratto, che la parola scrive sul corpo e che diventerà l’insegna di quel
soggetto.
Come nasce il soggetto, come
si incarna il significante nel reale? Quello che possiamo vedere nei diversi movimenti è il modo di
costituirsi del soggetto, l’origine resta oscura, come la fine. Non vi è
comunque nell’uomo alcun movimento istintuale, paragonabile a quello delle altre specie animali, ma sempre
un passaggio nella Domanda. Dalla Domanda all’Altro
alla Domanda dell’Altro, il significante, la parola che si iscrive fa nascere
il soggetto e insieme introduce il senso della morte [J. Lacan, Posizione
dell’inconscio (1964), in: Scritti, Vol.2, Einaudi, p. 851].
Il soggetto nasce fra
alienazione e separazione-recupero di un minimo di godimento intorno all’oggetto
a, “moneta spicciola de La Cosa” [J-A. Miller, I sei paradigmi del godimento (1999), in:
“La Psicoanalisi”, n. 26, Astrolabio, 1999]. Il corpo, da parlato alla
nascita, diviene parlante, ma ogni frammento di piacere sancirà la solitudine
del soggetto. Non esiste quindi uno
stato fusionale madre –bambino, né prenatale, né iniziale della vita, ma solo
la parola che media il passaggio e scrive nel corpo, introducendo l’essere
dalla biologia senza nome alla vita umana, alla nostalgica e solitaria ricerca
dell’oggetto perduto.
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