domenica 2 settembre 2012

Sulla scuola e sul concorso per dirigerla III


Al Sottosegretario di Stato
Dott. Marco Rossi Doria


Faccio seguito di nuovo con una raccolta di ulteriori osservazioni che destino, come le precedenti, al luogo che ritengo essere il più consono ad una lettura ancor più che ad una risposta: la lettura qui, ritengo sia già risposta.
Mi inoltro con un termine: DISINNESCATO! …è la parola che più mi evoca il meccanismo del concorso per dirigenti scolastici: la cui interruzione, in Lombardia, per quanto brusca, fa pensare ad un taglio reale, non ipotetico, dei suoi possibili obiettivi di deflagrazione sul sistema scolastico che, tale concorso era previsto dovesse avere.
Antiche connessioni tra senso del dovere e principio di piacere hanno condizionato operativamente la gestione di questo concorso con-fondendo sempre più i due concetti in un unico obiettivo : tras-formare la scuola attraverso qualcosa che può sembrare simile ai processi di variazione “genetica” già tentati con l’immissione di progetti con le loro linee guida, che regolamentano “spazi” dell’umano che insindacabilmente, fisiologicamente e soggettivamente presentano come caratteristica propria lo sconfinamento  “oceanico”, da sondare e da interrogare prima ancora che da utilizzare (un ottimo esempio è rappresentato dai progetti di educazione alla sessualità). Progetti come questi hanno mostrato, nel tempo, tutta l’incapacità a spostarsi su un versante che raziocinante non  è per sua natura.Tali progetti, dunque, nel loro improprio quanto inutile raziocinio “a confinamento multiplo”, a seconda degli indirizzi con cui si presentano,  rivelano il significato e la volontà rampante di un rovesciamento logico riferito alla funzione della scuola : essa non rappresenterebbe in questo caso il luogo-funzione di sapere ma luogo-fabbrica di trasformazione della “materia prima” in  prodotto finito sostituendo in tal modo il compito storico dell’istituzione scolastica per l’infinito nelle sue varietà presentate dall’evoluzione dello studente.  
Per una simile condizione all’interno della scuola sono necessari calchi e stampi dai confini precisi, dai bordi invalicabili a guisa di qualsiasi possibile errore: ogni de-bordaggio è interpretabile come non-sistematico e per questo non funzionante quindi: operatori obbedienti, insegnanti dal sapere pre-confezionato ma soprattutto dirigenti assolutamente allineati e conformi al calco ossia al pensiero unico.
Disegno sottile questo che tuttavia mostra le ragioni di tanto accanimento delle commissioni esaminatrici il cui compito è parso, in una simile ottica, quello del reclutamento dei nuovi dirigenti di fabbrica. Un accanimento che si presenta “a sorpresa” fin dalla prima prova, mostrando un potere sostenuto da formule di insindacabilità ed immunità in ciò che è parso assimilabile ad un “rastrellamento” da parte di un esercito sapientemente guidato-operato da una scuola che ha puntato così le armi in suo potere … contro la scuola. 
Ciò che, in questo contesto, ha fatto sentenza, è la volontà di dominio sull’imprescindibile potere “a tutto pieno” dell’Altro, definito nel suo oggetto di appartenenza “il sapere”.
L’osservanza dimostrata, la cui rigidità, impropria quanto sorprendente in un simile contesto,  rievoca l’osservanza religiosa delle crociate all’insegna dei massacri compiuti nel nome di un imperativo ben più potente politicamente ed economicamente che non sul piano mistico, mostra come, più che un cambiamento, questo concorso sia stato il segnale di avvio per  una “avanzata di Attila” a seguito della quale, il dirottamento successivo della “nave-scuola”, non è riuscito, lasciando terra bruciata e resti: non è il gattopardo generalmente a godere di resti e macerie bensì l’avvoltoio e lo sciacallo.
Un dirottamento tuttavia non orientato all’acquisizione di nuove rotte verso destinazioni altre, (altri saperi, acquisizioni strumentali innovative ecc) bensì impantanato in una strategia di sbarramento al dinamismo dialettico, costretto dall’imperativo di una nuova dirigenza sostitutiva di un sapere dinamico transfattuale con saperi interfattoriali e rispettosi del religioso ossequio al feticcio dell’obbedienza considerata idealmente come plus-valore in un registro che passa non solo attraverso un richiamo al meritocratico ma alla benevolenza divina.  
È proprio in questa logica che è possibile leggere il principio di piacere di chiaro richiamo freudiano che avrebbe guidato la logica di questo concorso. Un principio che mostra anche  il volto politico con cui questo concorso è nato, e, un po’ come in una sorta di adozione con il cambio di gestione governativa, esso continua a mostrare i suoi tratti genetici che faticano a declinarsi nelle condizioni dei passaggi di eredità. 
Un principio di piacere, dunque, che mostra il tentativo ad oltranza di mantenere la propria “pace” sensoriale (o forse semplicemente intellettiva),  ottenuta come condizione politica attraverso la “decapitazione” del “corpo docente”  in un tentativo appunto di raggiungimento della pace definitiva, eliminata la testa dell’ “Altro” pensante e per questo laborioso, è possibile ottenerne un cadavere: esso, si sa, impressiona per la rigorosa quanto innaturale immobilità. Il lavoro che intorno ad esso viene svolto, non porta, in alcun caso, alla sua vivificazione ma è funzionale a mostrare ai vivi il luogo di ciò che vivo non è. Qualcosa quindi di ben diverso da ciò che il desiderio organizza e che si contrappone all’abbattimento pulsionale imposto dal pacifico criterio del piacere. 
Il paradigma qui si propone con un’associazione del principio di piacere legato a questo concorso che ne ha generato la morte stessa come pure la possibile volontà di creazione di una scuola inanimata e meccanicamente rivolta al nulla, in luogo del desiderio che si costruisce sulla mancanza e si orienta, con un certo godimento, verso il superamento di sbarramenti, in linea con la sete di sapere.
Tanto zelo operativo, dunque, non si avvicina al senso hegeliano del lavoro per l’uomo, bensì sembra connotato in una rumorosa parvenza. 
La scuola potrebbe lasciare il posto alla sQuola (nessun sarcasmo, solo un riferimento ed un invito alla lettura di “Q”  di Luther Blissett, ed al mantenimento della memoria storica e della sua analisi che consente al meccanismo della parola di continuare ad essere “letta” e quindi ascoltata  differenziando l’uomo da “altro”. 
Alle nuove leve, per mancanza di esperienza ma soprattutto, in assenza di un sapere componibile attraverso  dati a cui si può accedere solo attraverso l’elaborazione di un passaggio esperienziale nei fatti (davvero calzante ancora il riferimento a Q di L.B.),  alle nuove leve, dunque, spinte più dal complesso di inferiorità ancor più che dal desiderio meritocratico di ascesa sociale, di fronte alla nomina “in su” a dirigente, non resta che dirigere la propria obbedienza, in assenza di modelli di pensiero altro. 
Tendo a citare l’esperienza come elemento che consolida forme di coraggio in grado di affrontare gestioni complesse come il sistema scolastico, il coraggio soprattutto di tutelare quanto già storicamente definito, come i criteri di civiltà di un paese, che poco si allineano con la fiducia collettiva prestata a baluardi ed insegne, politiche o religiose che siano, poiché, si sa, la fiducia è sempre cieca ed il compito della scuola è di rendere visibile ciò che l’inesperienza per gli alunni, il velo per insegnanti ed un fitto drappo per i dirigenti, nascondono. 
Il coraggio quindi di tutelare il negoziato storico che sancisce il patto sociale: esso è significativo di una condizione di adultità e di identità che si discosta elettivamente dall’infantile ed inevoluta presa di posizione utilitaristica e corrosiva troppo spesso confusa e rimaneggiata come Forza e Coraggio nel suo versante più religioso o Forza … e quant’altro in quello laico.
Il coraggio di difendere le fondamenta minate del patto sociale appartiene al richiamo all’interesse pubblico, diversamente dall’intraprendenza di coloro che, nominati a tutelare l’interesse pubblico, si appellano a trattative create ex-novo, in un tentativo di parziale ri-definizione rispetto a quanto stabilito dalla sentenza del Tribunale Regionale, come nel caso della Lombardia.
Il costante richiamo a forme di emergenza a seguito della sentenza di annullamento delle prove scritte da parte del TAR Lombardia del suddetto concorso, soprattutto da parte delle amministrazioni implicate in questo annullamento che definisce altresì il fallimento di quanto è stato operativamente attuato come di coloro che ne hanno gestito la regia, impone ineluttabilmente alcune riflessioni.
Emergenza è tutto ciò che si riferisce allo stato straordinario che  “emerge” e che le cose e le situazioni assumono a seguito di eventi  altrettanto straordinari.
L’assenza di personale dirigente nelle scuole non definisce di per sé alcuno stato straordinario a fronte dei dati degli ultimi anni. Periodo, questo,  in cui le scuole sono state dirette, così mi riferiscono, da “reggenti”. Si sarebbe dovuto trattare di un operazione di componimento delle dirigenze, assenti in alcuni casi da anni,  con immissioni di personale a superamento del concorso e relativa graduatoria. La ripetitiva operazione eliminatoria dei candidati avrebbe di gran lunga minato e  lasciato completamente assente ogni possibilità di elenco di graduatoria cui attingere.
Così composto il quadro, pare difficile pensare all’emergenza evocata dall’ amministrazione  come a qualcosa che possa appartenere all’interesse dell’ordine pubblico, rimbalzando così la  responsabilità di quanto avvenuto, su coloro che hanno richiesto una equa lettura dei fatti. 
La visione di un quadro deve avvenire alla giusta distanza e l’immagine che sembra lasciare questo quadro mostra il bisogno di un restauro laddove le note di colore che lo valorizzano, identificabili nel riconoscimento di una responsabilità, sembrano via via scomparire dietro il velo delle dichiarazioni. 
Il richiamo alla responsabilità di una mancata tutela dell’interesse pubblico, così mirato alla quota-parte della scuola che chiama a sua difesa l’uso delle regole, delle norme legalmente riconosciute, mostra il tentativo di salvaguardare e rinnovare la pace dorata quanto inanimata, ben più che la tutela dell’interesse pubblico per  il quale, non un annullamento delle norme bensì spiegazioni a risarcimento degli errori svolti , eviterebbero una destabilizzazione del legame che fa dell’interesse  qualcosa di definibile come pubblico.
Straordinario è quindi il richiamo dell’emergenza da parte delle amministrazioni che ben poco hanno “vegliato” sulla gestione del bene pubblico. 
Emergenza forse è l’incalzante richiamo alle responsabilità che gli incaricati preposti, devono affrontare a risoluzione o risarcimento di un precipitare nel mare fangoso di un pasticcio che proprio il senso del dovere pubblico avrebbe evitato.  
È proprio la Lombardia, in un concorso pubblico che per la prima volta ha visto la “vivisezione” del corpo-Stato in una suddivisione nei vari micro-sistemi regionali, che, a detta di molti, sarebbe stata funzionale ad un rigoroso controllo sulle prevaricazioni preferenziali, collaborazionismi e “scelte di razza”, è proprio la Lombardia dunque ad avere definitivamente “tagliato la testa ad un toro” fin troppo d’assalto per fini così onesti, fin troppo in corsa da far pensare più alla presa che alla difesa di una roccaforte, la scuola, che, come ho già ribadito in precedenti mie osservazioni, per sua natura, solo la parola riesce ad espugnare.
È interessante osservare come proprio la Lombardia, con il governatorato degli ultimi anni, abbia operato, e senza colpo ferire, una trasformazione radicale nell’altro grande pilastro istituzionale: la sanità. Un cambiamento che ha stabilito una sostituzione logico-strategica di ciò che simbolicamente, filosoficamente e storicamente è sempre stato inteso con il termine “salute” con ciò che, in termini reali, l’Istituzione Sanità in generale, e lombarda in particolare, strumentalmente attraverso il mondo medico definisce come  l’ideale di salute.
La trasformazione del mondo medico-sanitario, è avvenuta nel tempo, praticamente senza colpo ferire, ma,  lasciando parecchi corpi mutilati o fors’anche soppressi nel nome di un sistema autoreferenziale totalmente avulso dall’unico movimento possibile che dia corpo e vita al concetto di salute e del suo “star bene”: la capacità medica di garantire un  senso a ciò che ogni paziente chiama sofferenza e che si definisce come una mancanza e non certo il fuori senso di un più di salute senza limiti. L’operazione sulla sanità è stata ampiamente elaborata ma soprattutto garantita con un by-passaggio da parte di un mondo medico che, ipertrofico nel suo rigoroso rispetto del linguaggio manualistico, si mostra  preoccupato  di stabilire un ovvio-fare comunque ed in qualsiasi situazione, in luogo del saper-fare, ben più intellettualmente laborioso.
 L’identificazione preconfezionata di risposte ha trasformato il saper fare medico in risposte prive di ascolto della domanda. Risposte quindi non garantite dalla capacità critico-intellettuale di riconoscere e distinguere tra sofferenza e non. Risposte comunque, ad “eventuale” copertura di ciò che un semplice lamento annoiato potrebbe produrre. Nel campo del disagio e della malattia psichica,  il mondo medico ha creato sapientemente l’idea di un combattimento “attivo” contro ansia, tensione, noia, di cui si parla continuamente, forse anche per non dover nominare la reale sofferenza di cui molte collettività sono pervase. Nella scuola, “il combattimento” si muove intorno a significanti come bullismo, educazione sessuale, volontariato, ecc…, spostando l’attenzione dalle sue reali ragioni d’essere.

Elsa Forner

Paderno Dugnano, 25 agosto 2012.