lunedì 21 gennaio 2013

Il tempo della crisi e la politica dell'inconscio

Seminario dell'Istituto freudiano di Milano.
15 dicembre 2012


È un compito impegnativo quello di introdurre l’argomento di quest’anno: Il tempo della crisi e la politica dell’inconscio. Ho lavorato molto, tuttavia spero di avere mantenuto una certa leggerezza. Mi hanno spiegato che il tema che avete scelto ha sullo sfondo l’argomento del prossimo congresso AMP, quindi ho cercato di vedere in Televisione cosa poteva rispondere a questo tema.
In Televisione c’è una frase che mi piace molto: «scegliere l’inconscio di cui siete soggetti». Mi sono chiesta se ancora oggi potessimo dire questa frase. E poi: che cosa è la psicoanalisi? Che cosa può permettervi? E mi sono chiesta se questa definizione sia un orientamento verso il reale. 
Queste sono le questioni che ho avuto in mente lavorando il testo. 
Il titolo del prossimo congresso AMP si è un po’ trasformato, inizialmente era Un gran disordine nel reale, ora è Un reale per il XXI secolo. Dopo lo stravolgimento dell’ordine simbolico, che abbiamo studiato l’anno scorso, siamo passati al reale. Faccio notare che si passa da “il” reale a “un” reale. 
Guy Briole, direttore del prossimo congresso, scrive che J.-A. Miller ha ritagliato questo titolo per noi per evidenziare quello che del reale poteva costituire per tutti noi un blocco. Il reale quindi aveva un lato un po’ per tutti, faceva blocco. La tesi è che se le manifestazioni di questo reale in questo secolo sono diverse e disordinate, l’incontro con un reale è sempre singolare per ciascuno, per via della sua contingenza. Vedete qui l’opposizione tra “il” reale e “un” reale, al reale per tutti è opposto un reale singolare per ciascuno. Questo “un reale” evoca per noi anche l’Uno del c’è l’Uno del seminario XIX, o ancora quello che  Miller ha chiamato l’Uno del godimento, che ha sviluppato nel suo ultimo corso a partire dall’ultimo insegnamento di Lacan. “Un reale” ha quindi delle risonanze per quelli che sono della parrocchia, come direbbe Lacan. 
Dovremmo considerare le incidenze del reale nel mondo in cui viviamo e le sue conseguenze sul nostro modo di considerare la psicoanalisi nel XXI secolo. Detto in un altro modo, con questo reale singolare ciascuno fa un bricolage come può, e anche le società devono inventare dei modi di fare, perché gli umani possano sistemare le cose tra loro.
Questo per situare lo sfondo. Ma cosa vuol dire tutto questo? Cercherò di dare una mia risposta oggi. Ho preparato un percorso per commentare alcuni passaggi di Televisione.  
Non voglio fare uno sviluppo dettagliato sull’epoca contemporanea, non è il mio punto forte e per questo argomento vi rimando piuttosto a coloro che sanno parlarne bene come Marco Focchi, Eric Laurent o Marie Hélène Brousse. Io mi accontento di prendere come riferimento, oltre all’introduzione che ha fatto Miller a Buenos Aires, altri testi di Miller quali Una fantasia e Intuizioni milanesi.  Non li riassumerò, ma voglio indicarvi come ho affrontato la questione. Miller ci dice che occorre interrogarsi sulle condizioni e sulla pratica analitica oggi, interrogarsi su come la psicoanalisi risponde al disagio. Questo ci permette di vedere che la psicoanalisi non deve tanto aggiornarsi, quanto piuttosto trovare il giusto passo per rispondere al disagio della civiltà oggi.
Miller ricorda come due discorsi, il discorso del capitalista e quello della scienza, hanno stravolto e ristrutturato il mondo: il dominio combinato di questi due discorsi ha rotto i fondamenti della tradizione, ha distrutto quello che strutturava l’esperienza umana fino a quel momento. Quindi, “frattura della tradizione” può essere considerato un sinonimo di “crisi”.  L’ordine del mondo che era sostenuto dal Nome del Padre era un ordine del tutto, fondato sull’idea, in una logica edipica, che è necessario che il godimento sia proibito perché sia permesso. Non voglio ricordare tutte le conseguenze che derivano dallo sprofondamento del Nome del padre e la sua pluralizzazione. Quello che succede è che non c’è più una struttura che si appoggia sul Nome del padre e quello che abbiamo al suo posto ha il nome un po’ vago di globalizzazione. È un tipo di insieme completamente diverso, è un tutto dove niente è più al proprio posto, non è più strutturato in modo tale che ciascuno si trovi identificato al proprio posto. Il corollario di tutto questo, Miller lo sottolinea più volte, è che abbiamo un soggetto disorientato e senza punti di riferimento. 
Un altro tratto della civiltà ipermoderna oggi è la messa in primo piano del plusgodere, non è più un mondo strutturato dagli ideali. Miller ha affrontato questo argomento già un po’ di anni fa, a Comandatuba ha parlato del «montare allo zenith dell’oggetto a plusgodere» e in Una Fantasia scrive il discorso ipermoderno, parla di questa scrittura dove troviamo a minuscola al posto dell’agente. Scrive il plusgodere come il godimento del soggetto, ma anche come tutti quegli oggetti, gadgets, che la tecnica ci mette a disposizione, e questo produce un soggetto senza punti di riferimento che Miller scrive come $. Rispetto a questo essere senza punti di riferimento, quali sono le soluzioni che il soggetto cerca di trovare? Ne trova due: da un lato la valutazione, dall’altro cerca aiuto. Quindi, oltre al contagio della valutazione, si ha anche un proliferare di terapie vaghe e si cerca tutto quello che può promuovere lo sviluppo personale. In rapporto a questo c’è la nozione del sapere, S2. Il sapere in fondo è soltanto una parvenza, una nozione relativistica, non solo nella filosofia ma anche nella vita quotidiana. Con queste soluzioni siamo, in effetti, lontano da un orientamento verso il reale. 
Miller nelle Intuizioni milanesi dà un esempio di questo soggetto senza punti di presa che cerca degli appigli, e ne descrive l’effetto con il termine giapponese Hikikomori, ben rappresentato dall’immagine del ragazzo isolato nella sua stanza attaccato al computer. Questi ragazzi sviluppano tutto un sapere specifico sui computer, ma solo su questo. Tuttavia, questo rinchiudersi produce delle bolle di certezza circoscritta che consentono alle persone di recuperare un minimo di padronanza, ma al costo di una specializzazione estrema. Potremmo dire che questi adolescenti, che sviluppano un sapere particolarmente ricco su queste nuove tecnologie, sono personalità monomaniache. Questo lato “mono”, qualunque cosa esso sia, è un po’ una tendenza della nostra epoca, anche nella salute mentale.
Potremmo domandarci se anche la psicoanalisi non sia una bolla di questo genere, la psicoanalisi come ricerca di una certezza dove tutto traballa. È una questione. Ed è la questione che pone il titolo “Politica dell’inconscio” per esempio. Non c’è l’idea che potremmo ritrovare l’inconscio di papà, come dice Miller. 
Nelle Intuizioni milanesi l’inconscio è politica, e sicuramente il termine politica nel nostro campo ha dei titoli di nobiltà, lo possiamo collegare, per esempio, al trittico “tattica, strategia e politica” che Lacan definisce in Direzione della cura. La tattica della interpretazione, la strategia della traslazione e la politica che riguarda gli obiettivi della psicoanalisi, cioè l’idea che lo psicoanalista si fa della propria azione, ciò che la orienta, ciò che ha di mira. 
Miller distingue quello che potrebbe essere una reazione nostalgica, che consisterebbe nel recuperare gli ideali minacciati, potremmo dire nel recuperare il Nome del padre, dall’idea di adattare la psicoanalisi al tecnicismo e perseguire la via della falsa scienza che segue invece il positivismo. Ci sarebbe anche una terza posizione, quella di dire: “tranquilli, non succede niente, questo non ci riguarda!”. Sono tutte posizioni poco produttive e dell’ordine della suggestione. Possono essere prese nel senso che “se c’è un problema allora possiamo avere la soluzione”, vale a dire proprio quello che caratterizza il discorso della scienza, cioè che le cose funzionano.  Queste soluzioni partono dall’idea che ci sia un sapere nel reale, quando invece nella psicanalisi c’è piuttosto un buco, un buco nel sapere nel reale, ed è la sessualità che fa questo buco. L’aforisma di Lacan «non c’è rapporto sessuale» vuol dire che non c’è un programma iscritto che porti all’incontro tra un uomo e una donna, non c’è un istinto in questo senso. Per questo oggi la psicoanalisi risponde rinnovando il concetto di sintomo. Il sintomo non è più inteso semplicemente come ritorno del rimosso nella logica edipica. Lacan, a partire dal seminario XXIII Joyce il Sinthomo, fa del sintomo ciò che s’inscrive proprio dove non c’è niente che si possa inscrivere. I sintomi, dice Miller, sono dei segni dell’assenza di rapporto sessuale, in questo senso Lacan dice che è ciò che vi è di più reale per ciascuno. Man mano che andiamo verso il reale, la domanda è se l’inconscio è reale o è simbolico, oppure è corporeo, come suggerisce Miller. Potremmo dire “politiche del sintomo”, in un certo senso.
Ho lavorato sulla questione del sintomo: riguarda tutta la questione della fine dell’analisi, la passe ecc… non a caso Lacan, alla metà degli anni Settanta, definisce l’analisi come un saperci fare con il proprio sintomo.
Il testo Televisione è datato Natale 1973. Lacan è stato filmato per la televisione francese da Benoit Jacquot e in questa intervista legge lo stesso testo che abbiamo oggi, non è stata un’intervista improvvisata. Le domande erano poste da Miller per iscritto e le risposte sono riportate nel testo, con la particolarità che a margine ci sono anche delle piccole note che ha aggiunto Lacan stesso rileggendo. Nella premessa Miller scrive: «Ho chiesto a colui che mi rispondeva (Lacan) di filtrare, di andare all’essenziale di quello che io capivo di quello che lui diceva». Il risultato è raccolto nel margine, in guisa di note di aiuto. È particolare ed è interessante avere questo taglio di lettura del testo, è inoltre interessante notare come Lacan si sia prestato all’oggetto del secolo, cioè la televisione. Abbiamo avuto Radiofonia l’anno prima, e poi Televisione.
Lacan si presta, lo fa un po’ per amicizia e non senza ironia, dice per esempio: «ho tentato di rispondere alla presente commedia». Ci riesce? È lui stesso a domandarselo, e commenta di no, mancato! Ma in rapporto a cosa è mancato? È fallito rispetto all’idea di parlare perché degli idioti possano capirlo, ma non è fallito se si considera da dove parla, parla al pubblico del suo seminario ed ha la gentilezza di dire che parla ad un pubblico di non idioti, di supposti psicoanalisti.  Parla dal posto dello sguardo, detto in altro modo, parla a partire dal posto dell’oggetto, e questo posto è anche quello che un supposto analista tiene, come mostra il discorso dell’analista. Una delle stranezze che Miller ha introdotto è proprio quella di scrivere il discorso ipermoderno con la stessa struttura del discorso dell’analista. Nel discorso dell’analista, l’analista è in posizione di parvenza d’oggetto, nell’a minuscola. Lacan dice: «essere questo oggetto grazie a cui quello che insegno non è un’autoanalisi», non è un ritorno su di se, sull’io o sul soggetto, l’enunciazione è da a minuscolo e si rivolge all’esterno. Punto interessante perché pone la questione di che cosa voglia dire insegnare, questa questione la pone in Televisione ma non solo qui.  Più avanti riprenderà le questioni kantiane, cioè “cosa posso sapere, cosa posso fare, cosa mi è consentito sperare”, e metterà l’accento sulla posizione da dove viene posta la domanda. La questione non è universale, ma è importante da dove la si pone. Così si trova in Televisione la questione “cosa è il sapere”, “cosa è la verità”, e “cosa è possibile dirne”? 
La prima frase dà il tono: «la verità non può essere detta tutta». Afferma anche che è impossibile che la verità si attenga al reale… non tutta, impossibile, reale, mancano le parole, dice.  Ricordiamoci che siamo nel 1973, l’anno della pubblicazione in francese del seminario XI, seminario tenuto nel 1964 e che è stato redatto da Miller. 
C’è una breve nota di Lacan: «quello che mi interroga sa anche leggermi». Questo riguarda l’incontro di Miller e di Lacan, Miller che ha fatto l’indice degli Scritti poco prima, nel 1964, e quindi sa leggerlo, sa leggere Lacan. Siamo subito dopo il seminario XX Ancora, che termina nel giugno 1973 ed è contemporaneo al seminario Les non-dupes errent (I non-gonzi vagano raminghi) gioco di parole con il Nome del padre: i non creduloni si perdono, s’ingannano, si sbagliano.  
Le formulazioni contenute in Televisione sono molto vicine anche alla Nota agli Italiani, breve testo dello stesso periodo indirizzato agli italiani che volevano formare una Scuola, uno scritto che riguarda la passe e la fine dell’analisi.  Il 1973 è anche un momento importante di variazione all’interno dell’insegnamento di Lacan: Miller situa la svolta intorno al seminario XX Ancora, e parla di un cambiamento di prospettiva radicale, un cambiamento di paradigma. Infatti, si passa da una “assiomatica del linguaggio” ad una “assiomatica del godimento”, dalla priorità del simbolico rispetto al reale all’equivalenza delle tre dimensioni Reale Simbolico Immaginario; o ancora, si passa dall’analisi come trattamento del reale attraverso il simbolico, all’analisi orientata verso il reale. Miller vede il segno di questo orientamento verso il reale alla fine del seminario XX, quando Lacan dice che l’oggetto piccolo a è soltanto una parvenza rispetto al reale, e situa il rovesciamento di prospettiva a partire dalla svalutazione del concetto di linguaggio come struttura per dare priorità alla nozione di lalingua
È utile situare questo rovesciamento per meglio collocare il testo Televisione, Miller l’ha ben collocato ed è un filo che percorre tutta la sua lettura di Lacan. Lacan cerca di trovare un’articolazione tra due dimensioni eterogenee, due dimensioni che sono presenti fin dall’inizio ma non sempre allo stesso modo: da un lato c’è il versante dell’inconscio strutturato come linguaggio, vale a dire il Freud de L’interpretazione dei sogni e delle formazioni dell’inconscio, dall’altra parte abbiamo il versante pulsionale o del godimento, quello dei Tre saggi sulla teoria sessuale. Miller mostra come all’inizio Lacan abbia privilegiato il primo versante perché, nel suo ritorno a Freud, voleva riprendere il valore della parola e del linguaggio in psicoanalisi che al tempo era un po’ assente. La tesi “l’inconscio è strutturato come un linguaggio” è il punto di partenza, e resterà a lungo il punto di appoggio dell’elaborazione di Lacan, ma progressivamente, e in diversi modi, il versante pulsionale sarà articolato con il significante, per esempio con l’introduzione dell’oggetto a minuscola che è eterogeneo al significante e anche all’immaginario. Nel seminario X L’angoscia, dove Lacan ne parla una prima volta, questo elemento è molto incarnato e poi man mano acquista una consistenza logica, diventa un elemento che è ripreso nella logica significante del discorso anche se resta ex-timo. Il rovesciamento che si produce con il seminario XX cambia le cose, la nozione di linguaggio è svalutata, mentre fino a quel punto era il godimento ad essere barrato dal significante. In Sovversione del soggetto il godimento è proibito a chi parla e questo dà il paradigma di tutto il Lacan classico, mentre nel seminario XX troviamo l’espressione «dove parla lì gode» che è un totale capovolgimento rispetto alla funzione del significante. Prima il significante mortificava ora ha una funzione di godimento. Cito la frase di Ancora sull’inconscio: «l’inconscio non è che l’essere pensi, l’inconscio è che l’essere parlando gode», e aggiunge che «l’essere non vuol saperne di più, non vuol saperne niente del tutto». L’inconscio qui appare sotto tutta un’altra dimensione che non quella della catena articolata S1-S2 che risponde alle leggi della metafora e della metonimia. Questo pone il problema in riferimento all’interpretazione, c’è un legame molto stretto tra la concezione che si ha dell’interpretazione con quella che sia ha dell’inconscio. Nell’Istanza della lettera, per esempio, l’interpretazione è vista come un’operazione significante sul significante, ma le cose diventano più complicate quando è il godimento che diventa centrale. Miller fa notare che c’è un cambiamento di tono in Lacan: all’inizio c’è una sorta di ottimismo sul potere della parola e una fede nell’avvenire della verità del soggetto, mentre dal momento in cui l’assioma centrale è che “il reale esclude il senso” Lacan pone il problema della possibilità stessa della psicoanalisi. È come se fossero tagliati i ponti tra le cose e i nomi. Il godimento è opaco perché esclude il senso. Allora come può funzionare la psicoanalisi che è una pratica basata sulla parola? Si pone la questione di chiarire l’inconscio e lo faremo analizzando quattro passaggi in Televisione.

  1. A pagina 98 nella parte VI si legge: «la psicoanalisi vi permetterebbe di sperare sicuramente di chiarire l’inconscio di cui siete soggetto, ma tutti sanno che non incoraggio nessuno in questo senso, nessuno il cui desiderio non sia deciso». E abbiamo la nota a margine con questa domanda: «Non vuoi saperne niente del destino che prepara per te l’inconscio?».

  1. In un secondo passaggio, a pagina 83 parte IV, la formula di Lacan «chiarire l’inconscio di cui siete soggetto» viene espressa in un altro modo, e diventa: «ritrovarsi nell’inconscio come struttura». Qui Lacan risponde alla questione sugli affetti. Riprende le passioni dell’anima ed esprime la tristezza nei termini in cui ne parla Spinoza, come peccato, «una vigliaccheria morale che in ultima istanza non si situa che in rapporto al pensiero, cioè al dovere di dire bene o di trovar profitto dal ritrovarsi nell’inconscio nella struttura». Nella nota a margine troviamo: «c’è etica solo nel dire bene». Ritrovarsi nell’inconscio diventa una questione etica, c’è etica solo nel dire bene. In opposizione alla tristezza Lacan situa un’altra virtù: il «gaio sapere», cioè un certo rapporto con la lingua e con il senso. Non è il capire ma è «sfiorare il senso, rasentarlo più che si può senza che questo risulti appiccicoso», e questo è il godere della decifrazione. A margine: «sapere solo del non senso, sorta di un sapere dell’impossibile», è un tentativo di includere l’impossibile nel modo in cui si parla, nel dire bene. Nella parte VI Lacan riprenderà la questione dell’etica della psicoanalisi. 

  1. Anche in un terzo passaggio, nella parte III, Lacan parla di «ritrovarsi nella struttura», dove risponde alla questione sul rapporto tra psicoterapia e psicoanalisi. La domanda è: «A che condizione il soggetto ha possibilità di ritrovarsi nella struttura?». È a condizione che l’analista prenda una certa posizione. La posizione da prendere è di fare lo scarto o di essere un santo. «Un santo non fa la carità piuttosto si mette a fare la pietra di scarto: scarita». L’analista fa questo per permettere al soggetto dell’inconscio di prenderlo come causa del proprio desiderio, e attraverso l’abiezione di questa causa il soggetto ha la possibilità di ritrovarsi nella struttura. A margine, in questo punto, Lacan scrive: «oggetto a incarnato». Come troviamo nel discorso dell’analista, Lacan fa qui delle estrapolazioni sul legame che gli analisti possono intrattenere tra di loro e con la Scuola e sulla formazione degli analisti. La domanda implicita è come si possa raggiungere questa posizione di santo, Lacan evoca la passe, le società psicoanalitiche ecc.

  1. Cosa vuol dire, per Lacan, «ritrovarsi nell’inconscio nella struttura»? Torniamo nella parte VI, a pagina 92 dove tratta delle questioni kantiane: «che posso sapere? niente che non abbia la struttura del linguaggio in ogni caso, dal che risulta che il punto in cui arriverò in questo limite è solo una questione di logica. Questo si afferma in quanto il discorso scientifico riesca all’allunaggio dove si attesta per il pensiero l’irruzione di un reale. Ciò senza che la matematica abbia altro apparato che linguistico». Quello che Lacan valorizza qui è che il discorso scientifico non solo modifica il reale ma lo crea, anche il discorso politico entra in gioco. L’uomo è arrivato sulla luna in base a calcoli, attraverso il maneggiamento di piccole lettere. La questione è dove è la psicoanalisi? A pagina 93: «Cosa si può dire del sapere che ek-siste per noi nell’inconscio?  Cosa può dirsi che del reale ci venga da questo discorso». La scienza crea lo stesso reale, e cosa possiamo dirne a partire dal sapere inconscio, il discorso analitico è esso stesso capace di produrre un reale? Lacan commenta che questo può sembrare folle, tuttavia è una domanda che bisogna porre. La questione è quella del sapere nel reale. Prende come esempio la perversione e dice che non possiamo insegnare a tutti in modo scientifico quello che si verifica nell’esperienza analitica. Introduce il problema della trasmissione, vale a dire come la psicoanalisi possa parlare dell’esperienza analitica. Lacan si è chiesto più volte se la psicoanalisi fosse una scienza, è stato un filo conduttore, evidentemente bisogna articolare la risposta. 
Riprendiamo il primo passo scelto in Televisione: «la psicoanalisi vi permetterebbe di sperare sicuramente di chiarire l’inconscio di cui siete soggetto». L’espressione che usa Lacan «tirer au claire» che traduciamo con «chiarire» ha più il significato di “risolvere un enigma”, si utilizza quando qualcosa è opaco, un sinonimo potrebbe essere “delucidare”. Miller, nel suo corso sull’Uno, porta l’attenzione su questa espressione e dice che Lacan l’ha scelta perché era rivolta a lui, è lui che lo intervista: di Miller si dice che sia chiaro, e già lo si diceva all’epoca. Nella delucidazione quello che viene in primo piano è il versante del sapere, chiarire l’inconscio è in rapporto con la rivelazione di una verità, ma l’accento è messo sull’aspetto epistemico. La nota a margine è: «non vuoi saperne del destino che prepara per te l’inconscio?».
Siamo alla risposta alla terza domanda kantiana, “che mi è permesso di sperare?”, per la quale ci riferiremo al testo Lakant, conversazione che Miller ha tenuto a Barcellona proprio a partire da Televisione. Qual è la questione che anima Kant? Cerca una certezza matematica, quello che vuole è dare una risposta universale, e nella Critica della ragion pratica cerca di dimostrare proprio questo. Affrontando queste questioni, Lacan fa un passo a lato e mostra come per la psicoanalisi il problema si ponga in modo diverso e, in un certo senso, respinge le domande: «queste questioni non contano affatto in psicoanalisi se in modo preliminare non ci si domanda chi è l’io che pone le questioni». Miller insiste affermando che in psicoanalisi non si può adottare una prospettiva universale, le questioni sono di ciascuno, in particolare, e anche le risposte.
Cosa mi è permesso sperare dalla psicoanalisi? In fondo Lacan traduce le questioni kantiane riferendole alla psicoanalisi e questo permette di chiarire l’inconscio di cui siete soggetti. Seguo un’analisi dettagliata della frase, quello che c’è scritto è «cosa la psicoanalisi vi permetterebbe di sperare», al condizionale. Perché la questione kantiana abbia un senso la trasformo in «da dove sperate», quello che il discorso psicoanalitico potrebbe promettervi, sottolineando il voi. Ma sperare cosa? Appena dopo Lacan dirà che la speranza nel domani radioso ha condotto le persone di cui aveva stima al suicidio: «Il suicidio è il solo atto che riesce senza fallire e se qualcuno non ne sa qualcosa è perché procede dal partito preso di non volerne sapere». È la scelta di non volerne sapere. La psicoanalisi pone la questione: «non vuoi tu saperne del destino che ti prepara l’inconscio?», del destino che ti costruisce l’inconscio? Si vede che si tratta di un sapere che il soggetto non può padroneggiare, piuttosto è l’inconscio che ci governa. Il termine “destino” è pesante, evoca qualcosa che è scritto, che determina. Ci potremmo porre la questione di cosa la psicoanalisi possa fare con questo determinismo a partire dall’inconscio. Penso alla conferenza su Joyce dove viene usato il termine “destino”, si ha l’illusione di dire e si è parlati e si costruisce la trama del proprio destino in cui si è presi. Del segno, del marchio del linguaggio che si è impresso su di noi si fa un destino. 
C’è una differenza tra l’inconscio strutturato come un linguaggio e l’articolazione del significante, e l’inconscio come elucubrazione sulla lalingua.  In varie conferenze tenute nel 1975, l’inconscio non è presentato come un discorso articolato ma piuttosto come i marchi, i segni di cui il bambino, neanche il soggetto, si è impregnato, qualcosa che gli segna il corpo. È un’altra concezione dell’inconscio che segna l’enorme rovesciamento avviato con il seminario XX: «quel che accade al corpo per via della lingua» è un’altra definizione che Lacan darà del sintomo, per via della materialità della lingua da cui il bambino è investito nel suo ambiente. È un accento diverso. O delucidare “l’inconscio di cui siete soggetti” attraverso la decifrazione delle metafore e delle identificazioni, oppure ritrovare le marche di cui ci si è impregnati. Questo è l’accento che Lacan mette nel suo ultimo insegnamento, e che oggi è l’orientamento di Miller: avere di mira il reale del sintomo.
Televisione si trova su un punto di giuntura, tra l’inconscio come sapere articolato e l’inconscio come godimento. Si trova questa ambiguità quando Lacan dice cos’è l’inconscio. Cosa ha scoperto Freud? Non si può dare un senso sessuale a tutto, quello che Freud mostra è che c’è un godimento, l’inconscio lavora, non calcola, non giudica, ma tutta la sua sostanza si concatena. Freud scopre, decifrando i sogni e i sintomi, che c’è un godimento sul fondo delle catene significanti. Non sono catene di senso, ma di godimento. Lacan gioca con la parola godisenso, è un tentativo di congiungere queste due dimensioni separate, senso e godimento, in modo che non si escludano. Poi si spingerà più lontano, nel seminario XXIV L’insu que sait de l’une-bévue s’aile à mourre (Il non saputo che sa è l’amore) introduce qualcosa che si spinge più in là dell’inconscio, e gioca sull’equivoco del termine Umbewust, termine tedesco per indicare l’inconscio, che diventa une-bevue, in francese la svista, la sciocchezza che si fa. Questa svista, dice Lacan, è la base materiale dell’inconscio, è quel tremolio, quel traballamento che si produce prima che lo si capisca, è la materialità prima ancora che le si possa aver dato un senso. 
Nella prefazione all’edizione inglese del seminario XI, che Miller ha ampiamente commentato in L’esp d’un laps, Lacan gioca sulla contrazione dello spazio di un lapsus e commenta che quando lo spazio di un lapsus non ha più alcun senso allora siamo sicuri di essere nell’inconscio, ed è qui che usa l’espressione «inconscio reale». È inconscio reale prima che all’inconscio sia dato un senso, e nell’analisi l’interpretazione fa attenzione a queste piccole sviste e fa di questi elementi casuali ed isolati un’articolazione. È questo che Lacan ha scritto nella sua formula une-bévue, la svista è l’S1, il significante solo, non articolato. Allora, le formazioni dell’inconscio sono già una interpretazione di questa traccia materiale, sono già un’articolazione S1-S2, Lacan dirà che è già una costruzione, una elucubrazione, ed è quello che Miller chiamerà l’inconscio di traslazione. Miller differenzia i due piani dell’inconscio perché in fondo è l’analisi che fa esistere l’inconscio nella traslazione, la psicoanalisi avvia questo cammino di delucidazione e non si può farlo altrimenti che facendo dei collegamenti.
In psicoanalisi quando si dice orientare verso il reale, o verso il sintomo opaco, è in fondo un cammino che chiede di leggere per arrivare a quello che è illeggibile. Nell’ultimo Lacan, la pratica dell’analisi è una pratica che ha di mira l’Uno. Miller, per esempio in Il rovescio dell’interpretazione, dice che si tratta di riportare il soggetto al significante elementare a partire dal quale ha delirato nella sua nevrosi. Bisogna ricondurre il soggetto agli elementi della sua esistenza contingente, fuori senso e assolutamente separati. Si tratta di ricondurre la trama del destino del soggetto agli elementi primari. Il destino è già articolato in S1-S2. Aver di mira il reale non è aver di mira il sintomo. Il sinthomo, con il “th”, è piuttosto aver di mira il nodo reale e materiale,    singolare a ciascuno, che è l’urto della lingua sul corpo. 
Al di là di tutti i meandri del desiderio, l’analisi mira a cogliere quello che è il nucleo di godimento, non si tratta di puntare a un senso nascosto quanto piuttosto di disfare l’articolazione destinale avendo di mira il non senso. Alla fine l’analisi conduce a un tronco di reale che può essere colto, ed è per questo che si insiste nel dire “un reale”. Nel seminario XXIII Lacan non parla del reale come fosse una sorta di tutto, dice «ci sono solo dei frammenti di reale e se ho inventato un reale è il mio reale». È come il torsolo di una mela: per arrivare al centro bisogna sgranocchiare molto.  Lo si può cogliere avendo presente che ciò che si dice è un po’ un ricamarci sopra, che la verità è mentitrice, il reale sfugge al simbolico e anche all’immaginario. Quello che fa la psicoanalisi è di cogliere ciò che c’è di più reale.
E c’è la questione di come se ne possa parlare dopo, se necessariamente si è in una questione fittizia. Questo è un punto particolarmente importante perché non si tratta di relativismo dove tutto è finzione e una risposta vale l’altra, piuttosto si tratta di vedere come, per esempio appoggiandoci sulle testimonianze degli AE, si cerchi di rendere leggibile ciò che per definizione è illeggibile. La questione di Lacan potrebbe essere così riassunta: a partire dal discorso dell’inconscio, possiamo farne matema nel reale creando una possibilità di trasmissione integrale?  O non è piuttosto la poesia che permette questa operazione? Il seminario XXIV sembra andare in questa direzione, il ben dire è una retorica. È la questione di come possiamo parlare ai nostri contemporanei dell’esperienza psicoanalitica e di questo orientamento verso al sintomo. È la risposta della psicoanalisi. In modo da far posto alla più grande singolarità possibile del soggetto.

Domanda
A proposito del dire bene, si può considerare la scrittura come qualcosa che può trattare il rapporto fra il soggetto e il proprio godimento?

Risposta
Ha ragione nell’evocare il termine “scrittura”. Naturalmente, bisogna distinguere la scrittura come scritto e la scrittura nel senso di scrittura poetica, romanzesca, dello scrittore. Lacan nel suo ultimo seminario Il momento di concludere si interroga sul fatto di poter fare la passe per iscritto, commenta: «forse avremmo maggiori possibilità di cogliere il reale». Quindi la scrittura nel senso della lettera fuori senso, che per Lacan è quasi sinonimo di reale. C’è un’affinità della lettera con il reale, ed è per questo che Lacan insiste tanto sulla matematica, in Televisione dice che si aspetta qualcosa che sarebbe come un dono per le matematiche. C’è un passaggio dove si domanda cosa chiedere a quelli che vogliono fare una analisi: «la rifiuto alle canaglie» dice, oppure «ci vuole un desiderio deciso», e afferma:  «ci vorrebbe un dono come quello che è necessario per accedere alla  matematica se questo dono esistesse». Evoca qualcosa del trattamento attraverso la lettera, con lo scritto, affrontare il reale attraverso lo scritto. Pensiamo agli scrittori, ci sono degli scrittori del senso come ci sono degli scrittori dell’illeggibile. Per esempio, potremmo distinguere tra le scritture del fantasma, delle storie e degli scenari, e le scritture che lavorano la lettera, il fuori senso, ma tutto questo non ci direbbe ancora nulla di quello che è l’uso della scrittura per l’autore stesso. Lacan si è smarcato dalla interpretazione psicoanalitica, edipica, dell’arte. Con Joyce piuttosto ha insistito sulla funzione sintomatica dell’arte che, in effetti, è un trattamento del godimento.

Anne Lysy

Trascrizione di Eva Bocchiola
Redazione di Giuseppe Perfetto

giovedì 10 gennaio 2013

Il sintomo nella psicosi



Relazione tenuta presso l’Istituto freudiano di Milano il 22 settembre 2012.



Presentazione del Relatore
José María Álvarez è psicoanalista, membro della ELP (Escuela Lacaniana de Psicoanalisis), lavora all’Ospedale Universitario Río Hortega di Valladolid, presso il quale è anche Coordinatore degli specializzandi di Psichiatria e Psicologia clinica. Autore di diversi testi, si ricorda un importante trattato sui fondamenti della psicopatologia psicoanalitica e La invención de las enfermedades mentales. Centro della ricerca del Relatore è il tema della psicosi.


I. Il Seminario XXIII nella prospettiva della psicopatologia

Il Seminario XXIII di Lacan è molto complicato. Studierò il Seminario XXIII nella prospettiva della psicopatologia, questo ci porterà a riflettere sulle forme discrete della follia e ad illustrare un modello attualmente in auge nella psicopatologia: il modello continuista.
Ho indirizzato l’interesse sulle domande: Joyce era folle? E se lo era, quale era la sua follia? E se non era folle, perché non lo era? Per rispondere a queste domande farò riferimento al Seminario XXIII, e ad altre chiavi che attraversano l’opera di Lacan. 
In primo luogo cercherò di armonizzare le due cliniche di Lacan. Dopodiché cercherò di interrogare la nozione attualmente in auge di “psicosi ordinaria”. Successivamente, proporrò che la diagnosi di qualunque forma di psicosi (straordinaria o ordinaria) si possa diagnosticare con la clinica classica di Lacan, e così farò rispetto al rapporto di Joyce con sua figlia Lucia. Infine, voglio anche proporre che il trattamento della follia o della psicosi, a partire del Seminario XXIII, o della teoria dei nodi, è più ottimista: non solo per ciò che possono fare gli analisti, ma anche perché i folli sono alla ricerca continua di riequilibrarsi. C’è una frase che ripeterò nel corso di questa conferenza, che sintetizza in modo volgare la tesi di Lacan sul nodo borromeo, è un proverbio spagnolo: “c’e sempre uno strappo per una scucitura”, vuol dire che c’è sempre un rimedio per una disgrazia.
Il filo conduttore di tutta quest’argomentazione si centrerà sul rapporto fra Joyce e la figlia Lucia, perciò prenderò come riferimento un’idea illuminante di Lacan, che si trova più o meno a metà del Seminario XXIII secondo l’edizione francese. 
A proposito del rapporto di Joyce con Lucia, Lacan dice che Joyce attribuisce a sua figlia Lucia qualche cosa che sta nel prolungarsi del suo proprio sintomo. Se capisco questa frase, mi do per soddisfatto. Di quale sintomo si tratta? Lacan lo precisa continuamente dicendo che a Joyce si impone qualcosa rispetto alla parola in un modo che il sintomo di Joyce, rispetto all’imposizione di parole, si trasferisce, o si prolunga, in sua figlia nella forma della chiaroveggenza o telepatia. Chiarirò questi termini, posto che Lacan parla di “telepatia” e Joyce di “chiaroveggenza”, e gli psicotici sono “molto rigorosi”, come Lacan dice in una conferenza in un’università americana. Se Joyce dice “chiaroveggenza”, lo dice per qualche motivo, come spiegherò.
La tesi che voglio sostenere è che se c’è qualcosa di folle in Joyce è la convinzione sulla chiaroveggenza di sua figlia Lucia. Dal punto di vista psicopatologico, questo è [l’elemento] più forte rispetto al resto delle idee che Lacan cerca di verificare nel corso del Seminario. Per difendere il mio punto citerò una frase di un amico e collaboratore di Joyce, il cui nome è Paul Léon, che dice: “Il signor Joyce si fida di una sola persona e quella persona è Lucia. Ciò che lei dice o fa, è l’unica cosa che lo guida.”
Il Seminario XXIII si inserisce nella grande tradizione della cultura occidentale, per esempio la relazione tra la creazione e la follia, e poi la relazione tra il linguaggio e la soggettività; questo va al di là della psicopatologia ed è inserito in ciò che ha a che fare col nostro mondo culturale. 
Dirò brevemente qualcosa sulla relazione tra creazione e follia. Su questo punto si sono scritte intere biblioteche. È il problema fondamentale della cultura e della psicopatologia occidentale riferito alla melanconia. È il problema XXX di Aristotele rispetto al genio e al folle, recuperato da Ficino e dalla tradizione rinascimentale. Non entrerò su queste questioni che mi interessano molto ma sono molto ampie da sviluppare, vi dirò qual è la proposta di Lacan: l’inconscio non è la fonte della creazione, ma per Lacan è il sintomo la fonte della creazione. Lo dice chiaramente nell’Università di Yale: “spiegare l’arte attraverso l’inconscio mi sembra sospetto, questo è tuttavia ciò che fanno gli psicoanalisti. Spiegare l’arte attraverso il sintomo mi sembra più serio”. Nella dottrina di Lacan, l’artista è un inventore, è qualcuno che sa fare qualcosa. Quest’invenzione originale è la cosa più originale di ciascuno, il sinthomo. Una breve differenza tra sintomo e sinthomo: il sintomo contiene una significazione che può essere decifrata, interpretata, mentre il sinthomo è irriducibile alla significazione. Questo ha molto a che fare con Joyce. Da qui derivano due questioni fondamentali che dopo spiegherò con più dettagli: una riguarda la nominazione e l’altra riguarda il godimento.
Il rapporto di Joyce con il sinthomo. Joyce ha incarnato il più singolare. Joyce incarna il sinthomo fino a fare di esso il suo proprio nome. Non si tratta di leggere l’opera di Joyce, specialmente Ulisse o Finnegans Wake, cercando un senso, o una significazione oppure “che cosa vuol dire questo”. Joyce è, come dice Lacan, disabbonato all’inconscio, è alieno all’interpretazione, al rapporto tra inconscio e interpretazione, è al margine di questo. Ciò che ci interessa di Joyce è il lavoro che fa per farsi un nome, e per sopravvivere per sempre. Lacan sviluppa una tesi, che lo conduce lungo tutto il Seminario, sull’importanza per Joyce di farsi un nome. Lacan dice: “ho centrato la questione intorno al nome proprio e ho pensato, facciate voi quello che volete su questo pensiero, che dal fatto di crearsi un nome, Joyce ha fatto una compensazione della mancanza paterna”. Questa è la via che percorre tutto il Seminario. Non dimenticate questa frase per il caso, che vedremo dopo, di Erminia Macola che ripete un aforisma di Nietzsche: “quando qualcuno non ha un padre, deve fabbricarselo”.
Volevo fare un’avvertenza. Troviamo una gran difficoltà quando dobbiamo fare una diagnosi di una persona che è anche un artista. Per esempio Stanislaus Joyce, il fratello di Joyce, nel suo libro con l’affascinante titolo: “Il guardiano di mio fratello”, avverte che molti passaggi del libro Il giovane artista sono romanzati, non bisogna prenderli come dei fatti biografici diretti. Bisogna mantenere una certa prudenza secondo la mia opinione. Anche Freud menziona questo. Ricorderete la frase in cui Freud parla dei cristalli che al cadere e rompersi si infrangono seguendo linee di rottura predeterminate: è la frase su cui appoggiamo la visione strutturalista della psicopatologia freudiana. Tuttavia, quando scrive il saggio sulla Gradiva, Freud scrive questo: “la frontiera tra gli stati animici chiamati normali e quelli patologici è in parte convenzionale, e in ciò che resta è tanto fluida che probabilmente ciascuno di noi la attraversa varie volte nel corso dello stesso giorno”. Così abbiamo due prospettive contrarie all’interno dello stesso Freud: una categoriale o strutturale, l’altra dimensionale. Lo stesso che troviamo in Lacan nel rapporto tra il Seminario III e il XXIII, è lo stesso che troviamo nel DSM IV e nel futuro DSM V. Tornerò su questo argomento. 
Rispetto alla seconda questione tradizionale nella nostra cultura, il rapporto tra linguaggio e follia, vorrei introdurre il concetto fondamentale per intendere Joyce: lalingua (lalangue). Il linguaggio è stato usato tradizionalmente in funzione della comunicazione, tuttavia oggi tutti sappiamo, o sospettiamo che il linguaggio sia costitutivo. Questo è una novità nella storia della cultura del XIX secolo, che ha in Freud il grande protagonista e in Lacan il grande teorico che afferma questa questione. Vi siete mai chiesti perché non ci sono allucinazioni uditive prima delle descrizioni del XIX secolo? È una domanda fondamentale per capire che il linguaggio fino ad allora si manteneva sul piano della comunicazione, ma con l’andata in pensione di Dio e l’emergenza del discorso scientifico appare una nuova soggettività, un nuovo spazio nella soggettività, e con essa la schizofrenia o l’automatismo mentale. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che il linguaggio parla al soggetto. “Die Sprache spricht” dice Heidegger, lui ci parla, il linguaggio ci parla. Tutto questo si è potuto addensare come conoscenza nel campo della letteratura per esempio con Joyce o Virginia Woolf, nel campo della filosofia con Wittgenstein o Heidegger, ma soprattutto i grandi ispiratori di questo grande cambiamento radicale sono gli allucinati, gli psicotici. Sono i primi che nella loro esperienza cominciano a trasmettere che il linguaggio parla attraverso di loro. Nell’ambito della clinica è chiaro dalla Grecia, fin da Platone, che il linguaggio si usa per guarire le malattie dell’anima, ma a nessuno prima di Freud viene da pensare che il linguaggio costituisce e dà forma al sintomo. Con questo vi fate un’idea di ciò che Joyce rappresenta, come grande testimone, sia sulla base della sua esperienza personale sia come artista, di questa nuova presenza del linguaggio che ci parla, che ci usa per farsi sentire. Lacan inventa un concetto straordinario al riguardo, è un concetto vincolato a Finnegans Wake: il concetto di lalangue
Che cos’è il linguaggio di cui gode l’essere parlante? Non citerò la lunga frase del seminario Ancora, ma vorrei che rimaneste con l’idea che prima di quando noi parliamo ordinatamente, i bambini piccoli, i bebè, fanno le lallazioni, balbettano, e da questo balbettare, di questo lalangue due cose richiamano l’attenzione e le possiamo osservare nei bambini piccoli: la dimensione sonora e il godimento. È straordinario osservare i bambini piccoli con un’emozione fortissima al momento di emettere questi suoni, con un godimento straordinario. Joyce è per eccellenza un adulto che sta immerso ancora in questo godimento parossistico di lalangue, Joyce e alcuni pazienti che chiamiamo maniacali o melanconici in fasi maniacali. Qualunque studioso della psicopatologia sa, leggendo Enrico A. Morselli, Eugenio Tanzi o Kraepelin, che la caratteristica della fuga delle idee è la costruzione per suoni, per fonetica. Miller quando analizza la costruzione letteraria di Joyce parla di omofonia, stiamo parlando dello stesso fatto, lo stesso fatto trattato in modo molto diverso dal maniacale che da Joyce. Joyce impiegò sedici anni per scrivere Ulisse, e molti anni per scrivere Finnegans Wake. Si tratta di une opera che è costruita con fonemi di diverse lingue, che non vuol dire niente. Finnegans Wake bisogna leggerlo a voce alta perché è suono. La moglie di Joyce si chiama Nora Barnacle, che vuol dire cozza. È una cozza. È molto interessante perché è la relazione che aveva con Joyce. Questa signora, quando morì suo marito, la intervistarono e disse: “A casa mia venivano degli scrittori e alcuni scrittorucoli, André Gide…, al mio Jim non piacevano affatto le parole, ciò che gli piaceva erano i rumori e i suoni. Per questo è molto contento di essere sepolto vicino allo zoo perché ascolta i leoni, gli elefanti, era ciò che gli piaceva…”. Ed era vero che la sera, dopo aver bevuto come ogni irlandese che si rispetti, lui scriveva, e sono celebri le sue risate che svegliavano tutta la famiglia. Questo ci fa capire il godimento che provava Joyce al momento di scrivere. Pertanto, non si tratta di senso ma di godimento. 
La questione è: che cosa ha apportato a Joyce il fatto di scrivere? Nel caso di Joyce sembra evidente che la scrittura gli serviva per mettere un certo limite alla cassa di risonanza, a questi echi infiniti e minacciosi di lalangue. Detto in un altro modo, una forma per limitare gli effetti dell’imposizione delle parole. Miller lo dice con delle parole bellissime: “la scrittura era un paravento protettivo”. Da questo punto di vista, la follia potremmo pensarla come il punto di partenza, cioè: rovesciamo il modello di riferimento della psicosi. Tradizionalmente si pensa che uno entri, parta, dalla normalità e poi impazzisca. Il Seminario XXIII ci invita a pensare il contrario. È come la storia stessa della mitologia greca, partiamo dal Caos per arrivare alla norma, al Cosmos. Riprenderò questi aspetti. 
La questione della psicopatologia. Nella prospettiva psicopatologica del Seminario XXIII ci sono solo due modi per pensare la follia. Una è relativa al fatto: le malattie mentali sono costruzioni discorsive o sono fatti della natura? Che cosa risponderemo a questa domanda? Non c’è modo di stare nel mezzo: o uno si pone da un altro o dall’altro. La seconda domanda è: la follia è una oppure è molteplice? Sono solo alcuni a delirare oppure tutto il mondo delira? E ne aggiungiamo un’altra: la follia è continua o discontinua? 
Non possiamo pensare la follia se non in rapporto a queste questioni. Infatti, si osserva lungo i secoli XX e XIX un movimento oscillatorio che va da un polo all’altro. Non solo in Freud o Lacan, prendiamo i grandi clinici, per esempio Kraepelin ha passato tutta la sua vita a costruire tutte le categorie delle malattie mentali, differenti una dall’altra, era un uomo categoriale per eccellenza e lui credeva che fossero malattie veramente, fatti della natura. Quando andò in pensione dal suo insegnamento presso l’Università di Monaco di Baviera, scrisse alcuni articoli riguardo alla follia e la sua prospettiva cambiò completamente. Non era più categoriale ma dimensionale, diceva: “non trovo differenza tra la follia maniaco-depressiva e la demenza precoce”. Anche in Freud si può vedere qualcosa di simile, è molto categoriale, strutturale, all’inizio, chiaramente appoggiando le categorie in meccanismi. Ma, per esempio, quando studia la scissione dell’Io, alla fine della sua opera, trova che la scissione dell’Io era dappertutto, nella nevrosi, nella psicosi, nella perversione. Nel caso di Lacan è ancora più evidente. Quando si legge la Tesi di dottorato dedicata al caso Aimée, probabilmente la tesi più forte che richiamò attenzione in quell’epoca è stata la proposta che la paranoia cominciava con una crisi, era cioè discontinua, crisi e discontinuità erano ciò che distingueva la schizofrenia. Tutto il contrario dirà dopo, nel Seminario XXIII, nelle conferenze di Yale... Se leggiamo le opere più classiche di Lacan, il Seminario III, IV, V, ecc., vediamo in quale modo ordina le categorie o strutture freudiane o strutture cliniche, e in quale modo quelle strutture nevrosi versus psicosi sono disgiuntive tra loro. Restate con quest’immagine.
Nel Seminario III Lacan propone un’immagine, una metafora, rispetto alla psicosi e alla preclusione del Nome-del-Padre: “uno sgabello può sostenersi su tre gambe”, anche con due aggiungeremo facendo un certo equilibrio. Un equilibrio di cui potremmo dire che sono identificazioni, sono passaggi all’atto, ma in ogni caso è un modello molto rigido perché è disgiuntivo, o è questo oppure è l’altro. È nel mezzo che cosa c’è? Tra nevrosi e psicosi cosa c’è? Questo modello psicopatologico è molto ricco. Il modello delle strutture è ricco perché articola la clinica psichiatrica classica con una spiegazione psicoanalitica. Perché la clinica classica non aveva nessuna spiegazione, era pura osservazione… ed è meglio che si fermi lì perché se uno legge Kraepelin le spiegazioni che dà sono da ridere… o Séglas o Clérambault. Invece tutta la clinica classica, tutta la semiologia, è ordinata in accordo con la teoria freudiana. Questa è la grande potenza della clinica classica lacaniana. Ma questa clinica ha un difetto molto grande; cosa c’è tra la nevrosi e la psicosi? Per dirlo in un altro modo: la psicosi si costruisce come rovescio della nevrosi, dal punto di vista epistemico. Il nevrotico ama, lo psicotico invece è amato, il nevrotico dubita, lo psicotico ha una certezza. In questo c’è qualcosa di vero, ma anche qualcosa di forzato. Al contrario, nel Seminario XXIII parliamo di una clinica elastica, una clinica favorita dal modello topologico dei nodi, perché ci sono molti modi di annodare tre nodi che si possono sciogliere. Non è uno sgabello, ma sono nodi che si possono annodare in molte maniere. Il modello dei nodi mi ricorda un po’ il fatto che tra reale, simbolico e immaginario non c’è un rapporto naturale. Mi ricorda una teoria che Lacan sicuramente conosceva nella sua formazione psichiatrica e che fu esposta da Philippe Chaslin: è la concezione della discordanza. È un modello di pensare in cui le cose non tornano una con l’altra, ad esempio un soggetto perseguitato però contento, c’è una discordanza tra l’umore e le idee.
Queste sono alcune considerazioni generali rispetto alle due cliniche e ai problemi che ognuna di esse sviluppa. Perché, mentre la clinica classica pone il problema dei limiti, la clinica dei nodi pone il problema delle separazioni, dei casi intermedi, delle nevrosi pseudo-schizofreniche, della paranoia rudimentale, del delirio sensitivo di Kretschmer, ecc. Questo è un problema tradizionalmente trattato nella psicopatologia clinica. 
Riassumendo, il Seminario XXIII, in questa prospettiva psicopatologica, cerca di apportare soluzioni sui limiti, sui borderline, sugli inclassificabili. D’altra parte ciò è frutto della maturità clinica propria di Lacan, come succede a tutti noi ci dimentichiamo sempre più delle diagnosi per focalizzarci sulla persona diretta. Tutti gli autori e gli specializzandi lo sanno: all’inizio della nostra pratica si ha bisogno di categorie, per organizzarci e organizzare il nostro panorama… “è un nevrotico, allora…. È un fobico, è un ossessivo, ciò vuol dire che…”. Abbiamo bisogno di questa tranquillità. Man mano che andiamo a sviluppare la nostra pratica ci sentiamo più a nostro agio… Questo pone questione del classicismo del Seminario III se confrontato con il Seminario XXIII, più elastico. Vi è un movimento oscillatorio in tutte le concezioni psicopatologiche, ma c’è anche una maturità clinica. Il Seminario XXIII presta attenzione alle forme discrete o le forme normalizzate di follia, la psicosi chiamata “ordinaria”. Questo Seminario prende una prospettiva elastica e continuista, cosa che ha un grande valore perché avvicina la follia al buon senso. Potremmo pensare che il modello della soggettività di Lacan sia un modello psicotico. Infine, è importante mettere in evidenza che l’insegnamento classico di Lacan ci lascia un po’ legati rispetto al trattamento della psicosi, mentre il Seminario XXIII è molto più ottimista: “uno strappo per una scucitura” è un detto spagnolo che dà una speranza rispetto alla soluzione di qualunque problema.
Adesso, mi piacerebbe dedicare alcune parole alle psicosi ordinarie da una prospettiva clinica, ma anche critica. In alcuni lavori le ho definite “psicosi normalizzate”, perché? Perché sono soggetti che fanno un gran sforzo per passare come normali. Il termine “ordinarie” ha una risonanza brutta, volgare. Si dice sempre che la psicosi ordinaria o normalizzata, o la follia discreta, presenta una sintomatologia piccola: “è un po’ delirante, il legame sociale è ridotto”, quindi abbiamo l’immagine di Jean-Pierre Deffieux quando dice che “sono soggetti psicotici con vestito di nevrotici”. Abbiamo qui un problema clinico, perché effettivamente conosciamo l’identità psicopatologica di un soggetto quando ha una crisi, la prova del nove è la crisi. Invece, le psicosi ordinarie non hanno grandi crisi, ma dall’altra parte ci danno l’idea di quali siano stati i rimedi che hanno usato per non avere la crisi, quale annodamento, quale tappo ha inventato il soggetto per non scatenarsi. Quindi quando leggiamo della psicosi ordinaria abbiamo sempre tre denominatori comuni: una sintomatologia piccola o discreta, una pseudo normalità e il servire come tappo, ciò che evita qualcosa di peggiore. Affrontiamo la questione della psicosi ordinaria attualmente, ma in realtà esiste una lunga tradizione. Menzionerò solo alcuni autori perché possiate vedere che non si tratta di una cosa nuova: alcune forme di “monomania” di Esquirol (le monomanie ragionanti), la “follia lucida” di Trélat che dice: “sono folli nei loro atti più che nelle loro parole perché si esprimono con lucidità”. L’opera classica di Prichard sulla “follia morale” dove si dice qualcosa di fondamentale: “non c’è in questo ordine illusione o allucinazioni percettibili o la mancanza di convinzioni sul giudizio simile alle ingannevoli impressioni”, insomma vuol dire che in questo tipo di follia non ci sono allucinazioni propriamente dette né le convinzioni delle grandi idee deliranti. Invece, troviamo soggetti che non sono molto folli, ci danno l’impressione che sono folli ma è molto difficile provare perché. Vi dirò alcune caratteristiche, come linee generali, su questi soggetti che sono folli ma non lo sembrano. In questo tipo di soggetti, l’unico segno che ho trovato, e che non è descritto dalla psicopatologia classica, è una forma speciale di psittacismo: soggetti imitano o copiano frasi dagli altri e le ripetono come pappagalli. Tutta la clinica si costruisce attraverso i casi estremi, la schizofrenia paranoide è costruita sulla schizofrenia paranoica, la paranoia si costruisce sui grandi deliranti paranoici, ma quando abbassiamo l’intensità, Bleuler per esempio dice: questo è un caso di schizofrenia semplice, questo è un caso di schizofrenia latente. Kraepelin dice: “questa è una forma di paranoia rudimentale, e dov’è la follia? sembra così simile alla normalità”. Bisogna tener conto che la nosografia è un’invenzione che facciamo noi, le classificazioni sono artificiali. Se leggete il testo di Miller El ruiseñor de Lacan, tutto il mondo sa che le classificazioni sono invenzioni nostre, come anche le strutture cliniche. Ci sono alcune costruzioni che sono più adeguate alla clinica e altre meno, ma questo campo dove la follia si avvicina alla normalità è più oscuro, complicato. C’è una formula molto bella di Miller che vorrei trasmettervi: “Noi pensiamo le strutture cliniche come delle nazioni separate da confini, ma forse la soggettività moderna o la nostra maggiore conoscenza della psicopatologia ci fanno vedere che al posto di frontiere abbiamo a che fare con dei litorali”. Come dicevano prima, con la frase di Freud, stabilire una frontiera tra la malattia e la salute è molto complicato, e forse tutti passiamo da una all’altra varie volte durante una giornata.
Ora darò qualche informazione sulla follia normalizzata, la psicosi ordinaria. Prima di tutto: lo psitacismo, ovvero sono soggetti che parlano con parole di altri, con il gergo militare ma non dicono niente. Ripetono frasi nelle quali il soggetto non si inserisce in ciò che dice e il linguaggio non lo sostiene. Si può avere l’impressione di stare a sentire una conversazione tra sordi. La fenomenologia appare dalla parte del corpo, un mio paziente dice: “sono stanco”, e cinque anni più tardi: “sono stanco, si, no, più o meno…”. Sono soggetti che parlano ma non sono inseriti nella “carne” del linguaggio. Un’altra caratteristica che ho trovato in questi soggetti è che non storicizzano, non c’è un racconto: ciò che Freud chiamava il romanzo famigliare, fondamentale per la diagnosi. Non s’inseriscono in una storia. Lacan nel testo Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi parla del sentimento della vita, vuol dire che questi soggetti non hanno il sentimento di essere nella vita, nel corso degli anni. Quando per esempio incontriamo qualcuno e diciamo: “ti ricordi cinque anni fa…,” abbiamo una storia, è integrata, dà l’idea di essere all’interno di una vita storicizzata. Invece, in questi soggetti sembra di avere a che fare con frammenti, istanti. A parte lo psittacismo, abbiamo dei discorsi prefabbricati. Richiama l’attenzione il fatto che questi soggetti non si inseriscono in una genealogia, in una filiazione. Parlano di questioni che noi pensiamo: “ma com’è possibile che questo non sia stato rimosso?”, mettono sul tavolo cose terribili senza alcun pudore. Colpisce la precarietà delle identificazioni sessuali, hanno rapporti con uno o con l’altra. Le identificazioni sono molto cangianti, si sostengono a identificazioni con un determinato tratto di un gruppo e poi passano a un altro. L’ultima caratteristica è il rapporto che intrattengono con il corpo: vi è un sentimento di estraneità. 
In questa relazione abbiamo parlato di certezza, di delirio, di allucinazione. Questo è un terreno complicato e probabilmente la diagnosi non si fa con un solo elemento ma con molti: il rapporto con il corpo, col legame sociale, con il linguaggio… Invece con un solo elemento possiamo diagnosticare la psicosi, per esempio se c’è allucinazione verbale. Queste sono alcune complicazioni della psicosi normalizzata o ordinaria. 
Tutta la clinica classica si sostiene sulla traduzione dell’esperienza del soggetto in segni osservabili, abbiamo chiamato questa “semiologia”. Per esempio, vediamo una persona che si tira i cappelli e scriviamo “tricotillomania”. È poco interessante dal punto di vista della diagnosi, ma se uno si morde le labbra potremmo pensare che lo fa perché ha delle allucinazioni psicomotrici verbali. In modo che tutta la clinica classica si sostiene sulla forza della semiologia, invece ciò che non dobbiamo fare con la psicosi ordinaria è dedurre la psicosi dalla teoria, sarebbe come dire: “lei è malato di schizofrenia perché ha un’alterazione alla serotonina”, oppure “lei ha una preclusione del fallo e quindi ha una psicosi ordinaria”. La clinica e la psicopatologia sono fatti e dati clinici, e sono questi che ci devono guidare nella diagnosi. Diciamo in Spagna: “Non si può mettere il carro davanti ai buoi”, metter il carro davanti ai buoi è diagnosticare una psicosi ordinaria dalla teoria. Se ha un lapsus nel nodo borromeo, no! I buoi precedono sempre il carro.
Abbiamo un problema con la psicosi ordinaria. A volte, per alcuni analisti, o clinici, la diagnosi di psicosi o di psicosi ordinaria gli impedisce di manovrare per un timore, e la cura passa troppo sulla punta dei piedi: non si interpreta, si dà troppa attenzione al paziente. Questo è un effetto della moda della psicosi ordinaria. In discorsi piccoli come il nostro siamo sempre sottomessi al discorso di gruppo, e con il passare degli anni ci rendiamo conto che abbiamo dato troppa importanza ad alcuni concetti. Pensate a due cose sulla psicoanalisi: la “follia isterica”, dove tanti schizofrenici venivano diagnosticati come isterici, oppure quando si legge il Seminario III di Lacan in modo sbagliato, quando Lacan invita i clinici a cercare i disturbi di linguaggio e alla fine tutto risultò essere disturbo di linguaggio. Dobbiamo avere una certa attenzione rispetto alla psicosi ordinaria e mettere sempre i buoi davanti al carro. 

II.- La follia di Joyce 
Questa seconda parte dell’esposizione tratta in particolare della follia di Joyce focalizzata dal punto di vista del rapporto con la sua figlia. È uno degli aspetti che Lacan mette in risalto nel Seminario. Quali sono i punti che segue Lacan per supporre che Joyce fosse pazzo? Lacan non dice mai psicotico, ma folle. È molto interessante vedere perché Lacan parla di follia e non di psicosi. Riassumerei in cinque punti ciò che Lacan segue per verificare la follia di Joyce.
La mia classificazione è molto arbitraria, ha l’obiettivo di ordinare solo dal punto di vista espositivo. 
1) Prima di tutto il linguaggio, in due aspetti: epifanie e parole imposte. Quando Joyce parla di epifanie si riferisce, cito testualmente: “a una repentina manifestazione spirituale”. Lui camminava per le strade di Dublino e la sua attenzione veniva catturata da una determinata scena, lui prendeva nota di questa scena: brevi note che poi avrebbe incorporato in testi che avrebbe pubblicato molti anni dopo. Suo fratello Stanislaus Joyce le definisce così: “un’altra forma esperienziale del suo impulso letterario è consistito, mentre vivevamo in quella casa - una delle tredici o quattordici case dove visse la famiglia Joyce - nell’annotazione delle epifanie, manifestazioni o rivelazioni. Jim ha sempre disprezzato la simulazione, e quelle note furono in principio osservazioni ironiche su scivolamenti, piccoli errori, gesti, cose banali, tramite le quali la gente tradisce le molte cose che è capace di dissimulare. L’epifania erano abbozzi, non avevamo mai più di 12 righe, ma erano sempre osservazioni molte esatte su un tema futile”. Ho portato questo paragrafo di suo fratello per un motivo: quelle epifanie erano destinate a catturare ciò che Freud avrebbe chiamato lapsus, ciò che tradiva la volontà del soggetto. Joyce aveva una capacità analitica di vedere o osservare la soggettività lì dove non c’è finzione, dissimulazione. Ci sono alcuni autori che hanno voluto spiegare queste epifanie come esperienze enigmatiche. Le esperienze enigmatiche sono esperienze per eccellenza della psicosi e sono legate alla certezza, forse questa è una linea di ricerca un po’ eccessiva. 
Il secondo punto: le parole imposte. Non sono né l’automatismo mentale né la xenopatia, ma si legano alla carenza del Padre che, secondo Lacan, colpiva Freud. Lacan aveva ragione. Probabilmente Lacan non avrebbe letto la lettera che adesso citerò, ma in questo breve testo è molto chiaro. È una lettera che Joyce scrisse a Miss Weaver, che fu la sua protettrice. Joyce parla della voce del padre: “Mi sembra che la sua voce in qualche maniera è entrata nel mio corpo e nella mia gola, ultimamente più che mai, specialmente quando sospiro”. Scritto nel 1932, è l’anno in cui la figlia Lucia impazzisce, un anno dopo la morte di suo di padre. Ma la morte del padre non modificò in nessun modo questa esperienza della voce. Dal punto di vista analitico e psicopatologico, abbiamo qui due suggerimenti fondamentali per la diagnosi di psicosi, ma dobbiamo mantenere una certa riserva dato che le parole imposte ci colpiscono tutti. C’è un parlottìo linguistico, il linguaggio come un parassita, come un cancro che affetta tutti quanti. La differenza fondamentale tra un folle e un equilibrato sarebbe la presenza reale di quelle parole imposte, per esempio attraverso un’allucinazione. Pertanto, la mia opinione è che le parole imposte e le epifanie sono molto affascinanti, ma bisogna mantenere una certa riserva.
2) In secondo luogo: il corpo. Lacan dà una grande importanza a un frammento del Ritratto dell’artista da giovane dove Joyce viene picchiato dai compagni di scuola: il suo rapporto col corpo e con gli affetti è tanto singolare che Lacan dice che ogni psicanalista sarebbe colpito da questo rapporto. 
Nel libro che dedica a suo fratello James, rispetto a quest’episodio Stanislaus dice: “La discussione su Byron e l’eresia, e le botte con tre discepoli che risultano nel Ritratto dell’artista, non sono inventate né esagerate. È stato brutalmente spinto contro un fil di ferro spinato e mia madre ha dovuto rammendare gli strappi dei suoi vestiti”. Alcuni compagni lo colpiscono con bastoni e con un cavolo, Joyce si arrabbia ma il giorno dopo, quando ricorda l’incidente, dice: “Avevo sentito che c’era una forza occulta che andava a togliermi la cappa di odio accumulato, in un momento, con la stessa facilità con cui si stacca la pelle di un frutto maturo”. Ho riassunto, ma ciò che ha richiamato l’attenzione di Lacan è che il rapporto col corpo è troppo vuota di affetto, rabbia, collera o dolore. Questo curioso rapporto con il corpo colpì tanto Lacan che da esso dedusse una faglia, una mancanza nell’annodamento borromeo nel quale l’immaginario, cioè il corpo, scivola; una sorta di scivolamento del proprio corpo che sembra andarsene come una pelle. Questo episodio delle botte, come pista di ricerca mi sembra interessante, e va aggiunta ad altre piste dato che, a mio avviso, questo non è un fenomeno patognomonico, non è un fenomeno esclusivo della psicosi.
3) In terzo luogo: il Padre, questa è una pista sia teorica sia clinica. Lacan con buon criterio parte dall’idea che c’è una carenza: il padre di Joyce era carente. Dice Lacan: “Ho centrato la cosa intorno al nome proprio e ho pensato che per volersi fare un nome, Joyce l’artista, l’unico artista, con questo compensava la carenza del padre”. Non continuerò questa pista poiché mi sembra più teorica che clinica.
4) La quarta pista che segue Lacan, anche se non va molto lontano, è se Joyce era un redentore. È una delle posizioni per eccellenza della follia. Chiede al professor Aubert se Joyce era un redentore. Aubert non voleva dare una risposta chiara, ma Lacan insiste - era un testardo - e finalmente Jacques Aubert dice: no, non era un redentore. Per cui questa linea di ricerca, se Joyce era un redentore, la lasciamo fuori.
5) La quinta pista che svilupperò è sul rapporto di Joyce e Lucia Joyce, la figlia. Credo che qualunque clinico quando conosce questa relazione alla fine abbia una certa sicurezza che Joyce fosse folle e che sua figlia fosse ancor più folle, era una schizofrenica. 
Prima devo dire che ci sono altre linee di ricerca che richiamano l’attenzione dello psicoanalista e dello psicopatologo che non sono state studiate, per esempio l’abuso di alcol di Joyce. Joyce era un bevitore, non andiamo a approfondire se fosse un alcolista o no, però beveva. Che ruolo avesse l’alcol nel suo marasma interiore non è stato studiato. Una questione fondamentale e cruciale che appare nella sua vita e nella sua opera è il tema della gelosia. La gelosia rispetto a sua moglie Nora. Nell’Ulisse si vede chiaramente: come Leopoldo Bloom esce di casa, sua moglie si incontra con il suo agente teatrale. Nei racconti che sono presenti nel libro Dubliners, l’assunto delle fedeltà è presente. Trovai nell’ultimo libro che ho letto su Joyce, di Ian Pindar, la seguente citazione: “Quando Joyce ritorna per la prima volta in Irlanda, si incontra con uno dei suoi amici e questo amico gli insinuò che era stato con Nora quando Joyce pensava che Nora stesse lavorando in un albergo”. In quel momento il mondo di Joyce crolla, e questo autore, Pindar, scrive: “Dopo una notte tormentata tornò a scrivere a Cosgrave, con dubbi più recenti: è Giorgio figlio mio? Forse ridono di me quando mi vedono passeggiare con mio figlio lungo la strada”. Quando visitò un altro amico si trovava in uno stato di assoluta paranoia, e gli raccontò dell’infedeltà di Nora. Quest’aspetto della gelosia è sempre presente in tutta l’opera di Joyce.
Un altro aspetto che colpisce il clinico è la querulomania. Al momento di pubblicare le sue opere, il rapporto che Joyce ha con i suoi editori è querulomane: discussioni su una riga che non vogliono pubblicare, ecc.
Poi Ellmann, il maggiore biografo di Joyce, evidenzia gli episodi depressivi e melanconici che Joyce viveva in alcuni momenti della sua vita, dopo ne vedremo alcuni.
Un altro punto che colpisce, che Lacan non analizza perché non gli dà importanza, è quello che potremmo chiamare il carattere paranoico di Joyce. Ciò che si definisce tradizionalmente come carattere paranoico, vale a dire superbia, egolatria, sospettosità. Joyce era superbo. Il carattere non è sufficiente per diagnosticare, questa è la tesi di Lacan del ‘32 ma colpisce.
Ci sono altri due elementi fondamentali che ci permettono di capire perché Joyce non diventò più folle. Questo lo vediamo anche nei nostri pazienti: il rapporto di sostegno con sua moglie, con una donna che è stata sempre presente, anche se Joyce era assolutamente insopportabile, in più la presenza di suo fratello Stanislaus, che lo ha sempre aiutato nelle difficoltà economiche e che quando nacque il suo primo figlio dovette presentarsi a casa sua perché Joyce non sapeva cosa fare. Queste due figure sono fondamentali, Nora e Stanisluas, perché gli psicotici hanno sempre bisogno di alcuni supporti.
Andiamo adesso a Lucia, la telepate, la chiaroveggente. Il nome, Lucia, colei che porta la luce, non è un nome casuale. Joyce soffriva rispetto alla visione, non vedeva e diventò cieco, ma a sua figlia dette il nome di Lucia, nata il giorno di Sant’Anna la chiamò Lucia Anna. Questa donna nacque a Triste in un padiglione per indigenti nel 1907 e morì in un manicomio in Inghilterra, a Northampton, nel 1982. Voleva fare la ballerina moderna, ma i genitori si opposero sempre; studiò con il fratello di Isadora Duncan, Raymond. Il rapporto di Joyce con sua figlia fu sempre singolare, sappiamo abbastanza di questa relazione, ma le lettere tra i due furono distrutte dal nipote di Joyce, il figlio di Giorgio. Gli studi su Lucia dicono molto sulla sua follia, l’ultimo di Carol Shloss, To dance in the wake (Ballare nel funerale), minimizza la follia di Lucia e sostiene, come fece Jung al suo tempo, che fu l’ispiratrice diretta di Finnegans Wake e dello stile di Joyce, e il modello di riferimento per il personaggio di Anna Livia Plurabelle. Dice Shloss che Lucia fu una musa fondamentale per Joyce. Afferma anche che la nascita di Lucia implicò una liberazione del potenziale creativo di Joyce, allora era bloccato nella scrittura del Ritratto. In questo lungo libro di Shloss c’è una frase molto interessante, si suggerisce che padre e figlia potevano “comunicare con una voce inarticolata e segreta”.
Lucia credeva di essere un’artista, era gelosa dei successi del padre. Quando avvenne la pubblicazione di Ulisse negli Stati Uniti, nel 1922, Lucia tagliò i cavi del telefono perché il padre non ricevesse i complimenti. Lei urlava: “sono io l’artista!”. 
Andiamo ora alle fotografie, che sono sempre così rivelatrici. Si conservano molte foto: Lucia appare sempre di profilo perché era strabica. Il rigore della psicosi arriva fino alla anatomia. Joyce chiamò sua figlia Lucia: colei che porta la luce, come la santa che si strappò gli occhi e che la storia dei santi ha convertito nella patrona dei ciechi e l’avvocato dei problemi della vista. Questa questione è fondamentale per capire il rapporto tra padre e figlia, un rapporto mediato dalla telepatia e chiaroveggenza, cioè dalla percezione che va al di là dei sensi, un vedere al di là degli occhi. Lacan parla nel Seminario di telepatia e si riferisce a Lucia come telepatica, ma Joyce quando parla di lei dice che è chiaroveggente. Perché Joyce parla di chiaroveggente? La chiaroveggenza è una capacità di percezione extrasensoriale che permetterebbe ad alcune persone di ricevere informazioni relative ad eventi futuri. La telepatia, invece, consiste nel trasferimento di pensieri o sentimenti tra individui senza l’uso dei sensi. Lacan conosceva bene questo mondo, uno dei suoi primi lavori, scritto con Lévy-Valenci, si chiama Scritti ispirati, e la follia di cui Lacan parla è molto simile a quella di Lucia. Si ha così un’idea di questo rapporto singolare, mediato dal fatto di vedere al di là degli occhi. In più vi è un’altra caratteristica: Lucia era schizofasica. La schizofasia è una insalata di parole, quando lo schizofrenico parla senza nessun tipo di logica, di articolazione. Sorprendeva tutti il fatto che Joyce intendesse sua figlia, la ascoltasse con un’attenzione curiosa e seguisse la conversazione. 
È importante capire in quale momento Lucia diventa folle e vedere che cosa accade a suo padre. Probabilmente accade nel 1932: Lucia inizia a presentare segni molto evidenti di follia un anno dopo la morte del padre di Joyce. Qui inizia tutta la questione della visione e dello sguardo, non solo della visione degli occhi ma della questione dello sguardo come oggetto. Quando morì suo padre, e glielo comunicarono mentre era nel manicomio, Lucia rispose: “Che la smetta di fare cavolate quel cretino e che si tiri su dalla terra, mi stava sempre ad osservare”. Qua si intreccia tutta l’articolazione della visione, dello sguardo di Joyce attraverso gli occhi di sua figlia e della chiaroveggenza. Alle persone che lo conoscevano colpiva che Joyce si avvicinasse con tanto credito a sua figlia per chiederle cosa gli sarebbe successo nel futuro. Joyce non ha mai pensato che sua figlia fosse schizofrenica, pensava che fosse chiaroveggente e un’artista incompresa. Visitò molti medici, quasi venti medici, compreso Jung, ma Joyce non ha mai pensato che la figlia fosse malata.  Cercò anche di aiutarla, di trattarla. Come lo fece? La psicosi è la psicosi, ha un rigore. Le raccomandò di disegnare e ritagliare lettere dell’alfabeto. Perché Joyce era stregato dalle parole, come racconta una sua amica, Maria Jolas, che riferisce un aneddoto: Joyce si avvicinava tutti i pomeriggi alla stazione dei treni, saliva sui vagoni e toccava le iscrizioni dei vagoni per verificare che cosa dicevano e poi chiedeva alla sua amica Jolas di che cosa parlassero i passeggeri. Abbiamo qualcuno che è sommerso nei suoni e nel godimento. Sono le due caratteristiche che abbiamo messo in evidenza prima, parlando di lalangue
La proposta che facevo è che con la clinica classica si possono diagnosticare le psicosi discrete, dato che probabilmente hanno qualcosa dell’esperienza psicotica chiara, è a tal punto così che anche Jung che conobbe sia Joyce che Lucia, che trattò, disse: “Questo è folle, è uno schizofrenico latente, mentre sua figlia non è latente, è una schizofrenica chiara”. Considero che entrambi affogarono nel fiume, per seguire la metafora di Finnegans Wake, mentre Lucia affondò nella profondità, Joyce riuscì a sopravvivere. Con la clinica classica possiamo diagnosticare qualsiasi tipo di psicosi, come chiaramente fece Jung. Ma Jung, la clinica classica, non seppe dar valore alla scrittura, all’opera in cui Joyce era immerso… e pensare che quella era la sua stabilizzazione. Questo lo possiamo fare a partire della clinica dei nodi, in modo che, concludendo, credo che la clinica classica ci permetta di diagnosticare, di trattare ma rimane insufficiente per spiegare i multipli maneggi, equilibri che gli psicotici inventano e che fanno di loro i loro sinthomi. 

Domanda
La clinica continuista implica già la clinica classica o è possibile un superamento? 

Risposta
La clinica elastica o dei nodi è ancora da sviluppare, va sviluppata perché lì manca un supporto semiologico. Credo che sia una linea di ricerca. Ma nella nostra formazione, nella nostra pratica partiamo dalla rigidezza delle strutture fino a quando non le possiamo abbandonare. Al principio ci interessa molto la diagnosi, dopo il trattamento. Non si tratta tanto perché questo tizio è folle, ma che cosa ha fatto o può fare per stabilizzarsi. C’è uno spostamento dall’interesse diagnostico alla terapia. Dal mio punto di vista, non si devono invertire le questioni. Si deve iniziare dalla clinica classica, bisogna studiare i sintomi, l’esperienza, il transfert, ecc., poi mettere tutto questo sottosopra e interessarci a ciò che è più particolare di questa persona. Dal generale al particolare. Questo è il tracciato dell’opera di Lacan. Credo che non si possa iniziare dal particolare. 

José María Álvarez

Trascrizione di Florencia Medici
Redazione di Giuseppe Perfetto