giovedì 9 marzo 2017

Seminario del 28 gennaio 2017 Docente invitato: Marta Serra


Dalla relazione fra la rappresentazione e l’affetto in Freud alla relazione fra il simbolico e il reale in Lacan.
L’articolazione tra il registro simbolico e quello reale, o come dice Lacan nelle prime pagine del seminario, “la relazione dell’affetto con il significante” (Jacques Lacan, Il seminario. Libro X. L’angoscia 1962-1963, Einaudi, 2007, p. 17) può essere considerata la tematica centrale sottesa a tutte le elaborazioni che si sono prodotte nella psicoanalisi, dai primi scritti freudiani fino all'insegnamento ultimo di Lacan.
Si inizia con il Freud degli Studi sull’isteria, che annunciano la prima topica. È il momento in cui Freud affronta le formazioni dell'inconscio - sogni, lapsus, atti falliti e sintomi - in un modo totalmente innovativo: dove non sembrava esserci alcun senso, dove il soggetto dice: “non so perché mi succede, non è logico, non lo capisco”, lui dice che c'è un senso. Accade che il significante che lo direbbe è rimosso, è fuori dalla coscienza.
Dove sembrava non esserci soddisfazione - quando il soggetto dice: “mi fa soffrire, lo vivo male, è sgradevole” - Freud dice che c'è una soddisfazione, ma è una soddisfazione che non si può riconoscere perché l’affetto che include è spostato, non corrisponde.
Ne è l’esempio la ragazza che si sveglia angosciata per un sogno nel quale si vede durante il funerale del suo secondo nipote, cosa che le risulta tremendamente dolorosa dato che non è passato molto tempo dal funerale del primo nipote qualche tempo prima. Lei presenta il suo sogno a Freud come obiezione a quello che lui afferma rispetto al sogno: che è una realizzazione di un desiderio. La ragazza dice di non trovare nessun senso a quel sogno, e ancora molto meno una soddisfazione. Così, Freud le propone di associare, di parlare delle prime cose che le vengono in mente, finendo per fare emergere quello che Freud cercava: il funerale del primo nipote fu l’ultima volta in cui lei vide il suo amato, e… un nuovo funerale sarebbe l'occasione ideale e unica per un nuovo incontro. Il senso e la soddisfazione che erano in gioco non avevano nulla a che fare con il funerale ma con l’amato, che era il significante rimosso: recuperato questo significante si chiarisce la soddisfazione in gioco.
Questa doppia incidenza dell’operazione freudiana - semantica ed economica, o detto in altro modo, di linguaggio e di pulsione - si è mantenuta sempre presente durante tutte le sue elaborazioni.
La teoria freudiana si è modificata, si è arricchita e si è corretta, mantenendo però un punto immodificabile, basato su una doppia affermazione che fu l’asse centrale di tutte le successive trasformazioni: c’è una verità occulta e c’è una causa sessuale.
Anche rimanendo nella terminologia freudiana, questa doppia affermazione può essere espressa in modi differenti: c’è senso e c’è soddisfazione, o anche, c’è linguaggio e c’è pulsione. Soltanto molto più tardi, con Lacan, parleremo di verità e di godimento o di simbolico e reale.

Quale fu la lezione iniziale di Freud?
Agli inizi della psicoanalisi, la clinica pose a Freud due questioni diverse: da un lato quello che con Lacan chiamiamo “le formazioni dell’inconscio” e dall’altro lato un affetto, l’angoscia. Si aprirono così due percorsi di lavoro che portarono a sviluppi molto diversi.
Freud affrontò il percorso delle formazione dell’inconscio mediante le psiconevrosi, cioè l’isteria, l’ossessione e la fobia. Per queste categorie, Freud ritenne che il meccanismo fondamentale alla base delle stesse fosse la rimozione (e il suo fallimento). Si rimuove un significante e l’affetto a cui esso era vincolato, oppure si sposta su un altro significante, producendo ad esempio idee ossessive, o si fissa nel corpo, come un sintomo di conversione o, ancora, rimane libero trasformandosi allora in angoscia.
Tuttavia Freud affrontò il percorso dell’angoscia già nel 1894 attraverso una clinica diversa, che non aveva niente a che fare con la rimozione: all’interno di quelle che chiamava “le nevrosi attuali”, creò una sezione propria denominata nevrosi d’angoscia.
Per Freud, la nevrosi d’angoscia era dovuta alla trasformazione diretta dell’energia pulsionale in angoscia. L’angoscia, diceva Freud, sorge proprio quando non é stata possibile la “trasformazione psichica della pulsione”, ovvero quando la pulsione, in mancanza di un processo di elaborazione significante, si trasforma direttamente in quell’affetto doloroso e sgradevole che è l’angoscia. Freud riscontrava questa situazione nei casi di donne che usavano la pratica sessuale del “coitus reservatus”, o il “coitus interruptus”, in cui emergeva l’angoscia della gravidanza, abbandonando però subito questa costruzione, quando si è reso evidente che l’angoscia sorgeva anche in soggetti che non temevano né rifiutavano la gravidanza.
Di queste due vie di approccio al disagio soggettivo - le psiconevrosi e la nevrosi d’angoscia - Freud decise di sviluppare le prime, abbandonando la seconda senza troppe spiegazioni.

Relativamente a questa nevrosi d’angoscia freudiana é importante sottolineare che presentava l’angoscia come un affetto estremamente singolare nel suo rapporto con il significante: qualcosa che si presenta proprio quando manca il significante, quando il significante non funziona o non è raggiungibile.
Tuttavia, il grande cambiamento che Freud fornì nel 1926 con il testo Inibizione, sintomo e angoscia, fu quello di definire come l’angoscia, che qualsiasi soggetto può incontrare in determinate congiunture della sua vita, non sia che un ritorno di una prima esperienza d’angoscia infantile. È per evitare questo segnale di pericolo che l’angoscia è, che il bambino introduce la rimozione.  Freud individuò così l’angoscia come motore della repressione.
Perché, allora, Freud abbandonò lo studio delle nevrosi d’angoscia? A mio avviso, la sua scommessa teorica e la sua grande scoperta fu l’inconscio, l'inconscio come insieme di rappresentazioni - significanti, diremmo con Lacan - eliminate dalla coscienza, confinate fuori dal pensiero cosciente perché superano il soggetto, lo sopraffanno. Rappresentazioni dalle quali il soggetto si difende rifiutandole, ma che al tempo stesso non perdono la loro capacità di influire sulla sua vita perché grazie alla propria abilità di condensarsi e spostarsi - come ad esempio nel sogno della giovane innamorata - sono capaci di produrre le formazioni dell’inconscio. Freud aveva scoperto, senza saperlo, le leggi della strutturazione del linguaggio e il loro effetto negli esseri parlanti.
Comparato a tutta questa creatività delle psiconevrosi, l'affetto dell’angoscia, che localizzava nelle “nevrosi d’angoscia”, era alieno ai processi di condensazione e di spostamento in quanto li considerava come meccanismi di produzione delle formazioni dell’incosciente; di conseguenza non gli era di nessun aiuto per lo sviluppo delle sue teorizzazioni sull'inconscio e per il metodo psicoanalitico che stava costruendo.
Così Freud fece crescere la psicoanalisi attraverso il percorso delle nevrosi, si focalizzò sul processo simbolico della rimozione e il ritorno di quel rimosso, con in mente un obiettivo: localizzare l’inconscio, produrre il significante non raggiungibile dal soggetto attraverso l’interpretazione, favorendo l’insorgenza di un effetto di verità che consegnava il senso del sintomo, del sogno, e liberava così la soddisfazione che lo riguardava.  In questo modo il sintomo, in teoria, non aveva già nessuna ragione per continuare a esistere. Dovrebbe diluirsi fino a sparire.
Freud mantenne questa concezione del sintomo e alla fine trovò un problema: la soddisfazione che comporta il sintomo non si lascia ridurre - Lacan lo formulerà come: “È godimento quello che la verità trova nel resistere al sapere”. Decifrare i significanti intrappolati nel sintomo non elimina la soddisfazione che è in gioco. Il sintomo resiste.
In qualche modo, Freud arrivò a quello che nell'ultimo insegnamento di Lacan potrebbe sintetizzarsi come: il piacere non si lascia ridurre al significante, il reale è irriducibile al simbolico.

Come inizia in Lacan lo studio della coppia simbolico/reale?
Nei primi tempi dell’insegnamento di Lacan, il registro simbolico regna sugli altri registri, il linguaggio è onnipotente, il reale si confonde con l’immaginario e il simbolico lo cattura e lo riduce, introducendolo nelle vie del significante.
La metafora paterna - il significante più importante dell’insegnamento strutturale di Lacan che si può considerare un mix tra il complesso di Edipo e il complesso di castrazione - e, in questa, il Nome del Padre, è risposabile di modulare, regolare e limitare il godimento del soggetto, introducendolo nella significazione fallica: il fallo è l’operatore fondamentale, è la soluzione.
Nel seminario VII, L’etica della psicoanalisi, il registro del reale comincia a prendere forma, Lacan fa emergere, partendo dai testi di Freud, il concetto di godimento. Però sarà solo nel Seminario X, L’angoscia, che comincerà a produrre la riduzione del simbolico in relazione al reale, del significante in relazione al godimento e introdurrà anche il valore reale - non già immaginario - dell'oggetto a del fantasma. Il concetto di reale inizierà a prendere forza.
È forse per questo motivo che, nella prima pagina del seminario X, Lacan dice che sceglie l’angoscia perché “l’angoscia è precisamente il punto d’incontro dove vi attende tutto quello che è stato il mio discorso precedente. Vedrete come ora potranno articolarsi tra loro un certo numero di termini che forse, sino a oggi, non vi sono sembrati sufficientemente collegati”. (p. 5): cosa vuole dire questo? Che il reale era già presente nelle sue elaborazioni, com’era presente il fantasma, e l’oggetto a… ma da questo momento penserà a una nuova forma di articolazione fra di loro.
D’altronde dobbiamo tenere conto che il seminario stesso è una progressione del suo pensiero e delle sue elaborazioni. Ci sono delle intuizioni che si trovano nelle prime pagine che non sono riprese fino a molto più tardi, per esempio quando nella prima pagina dice che “la struttura dell’angoscia non è lontana dalla struttura del fantasma, per la ragione che è certamente la stessa”. (p. 5)
Cosa si può dire a questo riguardo?
Si può dire che l’angoscia, quale fenomeno soggettivo che può apparire inaspettatamente nella vita di qualsiasi soggetto, si presenta sempre destabilizzando quello che già costituiva la “soluzione” ideata dal soggetto di fronte al reale della vita.  
L’angoscia è sempre un certo straripamento del soggetto, uno straripare dell’organizzazione cosciente e incosciente utilizzata per regolare la vita quotidiana e le eventualità eccezionali che si presentavano nelle relazioni non solo con gli altri, ma anche nella relazione con se stesso, cioè, con i suoi pensieri e con il suo corpo.
L’angoscia è segnale di questo straripamento, segnala che il fantasma ha fallito nella sua funzione di mantenere il reale a distanza. In questo senso, angoscia e fantasma si assomigliano: ambedue evidenziano un reale – pericoloso - in gioco.
Lacan non ha dubbi nell’affermare il carattere irriducibile di quel reale che si presenta nell'esperienza dell’angoscia (p.174); non a caso utilizza il termine “irriducibile”, il quale può essere inteso sia come “impossibile da simbolizzare” sia - se lo immaginiamo nell’articolazione del simbolico con l’immaginario - come “impossibile dargli senso”. Il reale è quello che è fuori senso.

Si può cogliere una delusione di Lacan nell’incapacità del simbolico di metabolizzare il reale?
Non credo che questa sia la formulazione corretta per porre la domanda. La questione è che Lacan non ritornava sui propri passi quando qualcosa contraddiceva quello che lui stesso aveva sviluppato per anni. Di fronte a quella difficoltà, a quell’altra contrarietà, Lacan non dubitava nel proseguire il suo insegnamento orientandosi, non già in un “Ritorno a Freud” ma in un “Lacan contro Lacan”.
Forse per questo, nel Seminario X, afferma che non farà riferimento al testo di Freud perché “non c’è tema in cui la rete del discorso freudiano sia più prossima a darci una falsa sicurezza”. (p. 12)
In un certo modo, se i sogni erano per Freud la strada principale per accedere all’inconscio, a quel rimosso in quanto simbolico; l’angoscia potrebbe avere una funzione simile rispetto al reale.
Quello che l’angoscia mette in gioco nella sua apparizione fenomenologica è qualcosa che riferisce a qualcosa di primario nel vivente - la sostanza godente, la chiamerà poi Lacan - nel suo incontro con il linguaggio.
Per inciso, rispetto alla definita sostanza godente, Lacan, a pagina 96 domanda in maniera molto diretta ed esplicita: “Come entra il significante nel reale per far nascere il soggetto? Cosa permette al significante di “incarnarsi”?” Non elude di rispondere a questa domanda, anzi lo fa in modo contundente: “(...)Lo permette, d’inizio, quello che abbiamo qui per presentificarci gli uni agli altri, il nostro corpo”.
Vediamo, allora, il corpo in una funzione che va molto al di là della pura immagine dell’identificazione speculare. Occupa già il posto di punto d’incontro fra il reale e il significante, in quello che mi appare come un’anticipazione del posto centrale del corpo nell’ultimo insegnamento di Lacan.
Molto spesso è attribuito a Lacan di avere riscattato il corpo nel suo ultimo insegnamento, per metterlo allo stesso livello degli altri due registri, come se precedentemente, nel periodo mediano del suo insegnamento, lo avesse messo da parte, dimenticandolo. Forse - visto quello che diceva nel Seminario X - sarebbe più corretto dire che lo ritroviamo nel suo ultimo insegnamento perché abbiamo imparato a leggerlo bene.

Primo capitolo: l’angoscia nella rete dei significanti
Nel primo capitolo Lacan mostra molti significanti e crea una rete di significanti (p. 6):
1. Da una parte prende degli interrogativi che erano emersi nel grafo del desiderio: Che vuoi? Mi ami? Questi interrogativi indicano: “La relazione essenziale dell’angoscia con il desiderio dell’Altro”.
2. Dall’altra parte prende i significanti dei filosofi, alcuni li nomina soltanto: Kierkegaard, Marcel… di altri, sceglie un significante, per esempio di Sartre: la serietà; di Heidegger: la preoccupazione… per poi inserirsi lui stesso in questa serie, ed è interessante perché identifica se stesso con un significante, ovvero l’attesa. Di tutti questi significanti dice che non ci danno niente per abbordare l’angoscia.
3. Infine aggiunge tre significanti, quelli che orienterebbero verso l’ultimo Freud e quanto disse a proposito dell’angoscia nel suo testo Inibizione, sintomo e angoscia, ovvero che “a proposito dell’angoscia non c’è rete” (p. 12): in rapporto a l’angoscia, la rete dei significanti fallisce, non funziona.
Questi significanti sono però utili a Lacan per produrre una matrice organizzata in funzione di due assi: la difficoltà e il movimento. Questo schema gli permetterà di sviluppare i due modi che il soggetto ha di rispondere all’angoscia: “uscire” (di scena, ndr.) oppure fare una rappresentazione, ovvero il passaggio all’atto e l’acting out. In questo primo momento comunque prende l’asse della difficoltà e aggiunge due significanti, impedimento e imbarazzo, mentre prendendo l’asse del movimento aggiunge emozione e (emoi) turbamento.
Nella dimensione del movimento prende l’emozione, di cui dice che è estremamente opportuna perché, etimologicamente, si riferisce a movimento. C’è emozione solo dove c’è shock, scuotimento. Lacan dice che è “il movimento che si disaggrega”, nel senso di un movimento o una reazione smisurata rispetto a quello che succede, una reazione smisurata che fa sì che l’essere nella sua totalità ne sia affetto.
Alcuni, come Goldstein, hanno detto che l’angoscia era questo, una reazione catastrofica, però questa reazione catastrofica l’hanno anche messa in relazione con la crisi isterica, o con la collera, pertanto, non è sufficiente per distinguere l’angoscia, ci dev'essere qualcosa di più.
Innanzitutto, con questo, Lacan separa già l’angoscia dall’aspetto puramente organico - dall’organismo mosso in modo organizzato o disorganizzato - per iscriverlo, anche se non lo dice, del lato del soggetto.
Propone, per ultimo, emoi (turbamento) nell’estremo dell’asse dell’alterazione del movimento, dicendo che con questo termine, “l’etimologia lo favorisce di maniera favolosa” (p. 20), cosa che non succede con il termine che si è trovato per la traduzione italiana, turbamento. Forse si potrebbe proporre, invece di “turbamento”, il termine “commozione” che contiene l’ambiguità di una perturbazione violenta, ma anche nel senso di perdita di potenza, per esempio quando si parla di commozione cerebrale.
Lacan non finisce di riempire tutte le celle, ne lascia alcune vuote, però è a questo punto, dopo aver chiarito il terreno della triade freudiana, che potrà parlare dell’angoscia.
L’angoscia – si chiede - cos’è? Abbiamo scartato che si tratti di un’emozione. (...) Dirò che è un affetto” (p. 17)

Cosa dice degli affetti?
In primo luogo, Lacan cerca di distinguere l’affetto dell’emozione: l’emozione è dell’ordine del comportamento, del movimento, mentre l’affetto, tra cui l’angoscia, è sempre dell’ordine di un segnale.
Allo stesso tempo, fa un altro passo complementare, avvicinando l’affetto alla passione. La tesi, “l’affetto è passione” è in questo seminario toccata velocemente, qualche paragrafo più avanti - in relazione a Aristotele e la retorica - però sarà sviluppata più esplicitamente nel testo Televisione.
Per fare un esempio degli affetti passionali non prende l’angoscia ma ricorre alla collera (p. 17), che non è precisamente un esempio nuovo in Lacan, lo aveva già usato nel Seminario VII, L’etica. Lì rammentò il tema della collera dicendo che gli affetti “non si devono confondere con la sostanza che cerchiamo al di là dell’articolazione significante” (p. 127), il campo di quello che c’è “dietro al soggetto” (p. 128) perché gli affetti, “sebbene non siano significanti, si possono sempre ridurre a una segnale” (p. 127).
Come sarebbe questo segnale? Lacan lo spiega in modo dettagliato nell'esempio della collera: “una reazione del soggetto a una delusione, al fallimento di una correlazione sperata fra un ordine simbolico e la risposta del reale”, quando “i cavicchi non entrano nei buchi”. Ossia, il soggetto spera che le cose siano in un certo modo, che quello che lui sta vivendo si sviluppi seguendo certe previsioni che si era fatto, che si sviluppi come aveva previsto e, improvvisamente, si presenta qualcosa d’inaspettato: il segnale che il reale non si adatta all’ordine simbolico come si vorrebbe. In spagnolo c’è una espressione molto chiara per questo: “ha perdido los papeles”, “ha perso le staffe”.
Nel Seminario X, come già nel Seminario VII, Lacan ricorda che è stato accusato di non interessarsi sufficientemente agli affetti, lui ricusa quest’affermazione dicendo che ha provato a dire cosa non è l’affetto. Per esempio in questo paragrafo: “non è l’essere dato nella sua immediatezza, e neppure il soggetto in una forma bruta. Non è, in nessun caso, protopatico (...)”. Per finire dicendo: “(...) l’affetto ha una rapporto stretto, di struttura, con quello che è un soggetto”. (p. 17)
Questa è la linea essenziale di Lacan: l’affetto non è un indice che ci rivelerebbe qualcosa di un essere occulto, un essere che - essendo anteriore a qualsiasi processo significante - sarebbe stato trasformato o velato a causa del significante, a causa del linguaggio.
Lacan rifiuta l’idea del soggetto protopatico - un soggetto elementale, che ha reazioni indiscriminate, in modo automatico, come la sensibilità della reazione tattile al calore, al dolore o alla pressione - più o meno confuso con la pulsione o anche con l’istinto. Per lui l’affetto e il soggetto hanno una relazione che non è associativa, non si vincolano posteriormente all’apparizione di quest’ultimo ma è una relazione strutturale. Ci può essere affetto, come segnale, solo per un soggetto che è frutto del linguaggio.
Inizialmente Lacan aveva messo l’angoscia in stretta relazione con il fantasma, mentre adesso mette l’affetto in stretta relazione con il soggetto.
Questa relazione strutturale tra affetto e il soggetto è qualcosa che Lacan formula adesso che la categoria del reale e quella del piacere stanno già prendendo forza, o era già un’intuizione anteriore? Lacan lo sosteneva già in piena epoca di primato del simbolico.
Per esempio, nel Seminario VI, Il desiderio e la sua interpretazione, diceva: “Il cosiddetto affetto non è qualcosa di assolutamente opaco e chiuso che costituirebbe un al di là del discorso, una specie di nucleo vissuto di cui non si saprebbe da quale cielo ci è piovuto addosso. L’affetto è molto precisamente e sempre, qualcosa che si connota in una certa posizione del soggetto rispetto dall’essere. Intendo dire in relazione all’essere in quanto ciò che gli si propone nella sua dimensione fondamentale è simbolico. Ma capita anche che, al contrario, esso costituisca all’interno di quel simbolico un’irruzione del reale, in tal caso piuttosto sconvolgente. (...) La collera non è altro che questo: il reale che arriva in un momento in cui abbiamo compiuto una bellissima trama simbolica dove tutto va a gonfie vele, l’ordine, la legge, il nostro merito e la nostra buona volontà. All’improvviso ci si accorge che i cavicchi non entrano nei buchi. Ecco l’origine dell’affetto della collera”. (pp. 159-160).
Cosa vuol dire “origine dell’affetto della collera”? Si tratta dell’origine, nel senso della causa che diviene opportunità concreta per un soggetto di provare collera o si tratta dell’origine della possibilità medesima di sperimentare quell’affetto?
Nel corso dell’insegnamento di Lacan si farà via via più chiaro che gli affetti, in tutta la loro diversità - ne troviamo 53 nel suo insegnamento - sono un prodotto, un risultato, un effetto. Non sono un elemento già lì dall’inizio, a disposizione dell’essere umano, e non è così neppure per gli altri viventi.
C’è la possibilità di sperimentare affetti soltanto per chi è affetto da linguaggio, cioè, i parlêtres, gli esseri parlanti.
Ci sono occasioni in cui gli esseri parlanti vogliano avvicinarsi ai viventi in generale, seguendo una fantasia di “umanizzazione” della natura, e si raccontano delle favole su come la natura stessa sia affetta dalle parole; alcune persone pensano che le piante crescano di più se parlano loro… e addirittura in un film francese un gruppo di amici cercava di verificare l’effetto delle parole su due vasetti di riso: parlano a un vasetto con amore, con termini dolci, e all’altro vasetto lo insultano, lo maltrattano verbalmente… non essendo il tema centrale del film non si arrivava a nessuna conclusione fortunatamente!
Procedendo nell’insegnamento di Lacan, la sua posizione rispetto alla relazione fra affetto e significante si fa sempre più chiara ed esplicita. Nel Seminario XVIII, Il rovescio della psicoanalisi, lo esprime in questo modo: “(...) affetto ce n’è soltanto uno, cioè, il prodotto della cattura dell’essere che parla in un discorso” (p. 162).
Nel seminario XX, aggiunge: “il linguaggio senza dubbio è fatto della lalingua. È una elucubrazione di sapere sulla lalingua. (...) Siamo affetti dalla lalingua prima a causa di tutti gli effetti che racchiude e che sono affetti”. (pp. 167-168).
Tornando al Seminario X, a pagina 17, si coglie un’altra caratteristica dell’affetto che Lacan ci propone: “l’affetto -dice- non è rimosso. (...) È stato tolto dalla stiva e va alla deriva. Lo si ritrova spostato, folle, invertito, metabolizzato, però non è rimosso. A essere rimossi sono i significanti che lo ancorano”.  In questo passaggio Lacan dice di appoggiarsi a Freud, il quale sempre sostenne che nell’inconscio non c’è niente dell’ordine di un’energia animale, di un qualcosa sconosciuto o strano, di una profondità che conterrebbe alcuna sostanza. Freud concepì l’inconscio - dall’inizio e non cambiò mai questa idea - come una serie d’iscrizioni, tracce mnestiche, rappresentazioni, quello che Lacan tradusse come significanti e che lo portò, temporaneamente, a formulare: “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”. È per questo che la psicoanalisi non ha niente a che vedere con una psicologia del profondo.
La tesi che l’affetto è spostato dal suo luogo non è una tesi tardiva del psicoanalisi, è qualcosa che Freud aveva situato da tempo e sviluppato ampiamente in Progetto di una psicologia per neurologi, dove spiegava come la rappresentazione traumatica cada sotto l’effetto della rimozione, mentre la quantità di eccitazione, l’affetto legato a detta rappresentazione, non segua lo stesso percorso. Non è rimossa ma rimane spostata, vincolandosi a un'altra rappresentazione diversa da quella traumatica.
In questo senso, se gli affetti si separano del significante che li produce - quando il significante è rimosso - e si legano a significanti diversi da quelli che li corrispondevano originariamente, possiamo capire perché Lacan affermi che gli affetti ingannano, che il senti-mento, mente, che quello che sento, mente. Però attenzione! Non vuol dire che l’affetto in se stesso sia bugiardo ma è la sua associazione con il significante quello che gli dà questa caratteristica.

Qual è la particolarità dell’angoscia come senti-mento?
È a proposito di questo inganno che Lacan fa dell’angoscia un affetto in un certo senso eccezionale: l’angoscia è l’affetto che non inganna. Non inganna precisamente perché appare sciolto del significante e, piuttosto, nella pratica, nella clinica, quello che facciamo è accompagnare l’analizzante, il paziente, a poterla legare al discorso, così che provi a vestirla con le parole. È il conosciuto effetto terapeutico del senso.
Alla fine della prima sessione del Seminario X Lacan ha già detto che l’angoscia è un affetto, però non ha fatto una teoria generale sugli affetti, e lo giustifica dicendo che sarebbe “sviluppare una psico-logia” (p. 18), e sottolinea “non siamo degli psicologi, siamo degli psicoanalisti”. Gli psicologi sono quelli che studiano la psiche, i processi propri della mente umana, presi in opposizione ai processi che sono puramente organici, e sviluppano un discorso su questo, insomma una continuazione dell’idea classica dell’essere umano come corpo e anima.
Su questo punto Lacan si allontana da Freud, il quale aveva usato più volte il termine “psiche”: intanto parlando di apparato psichico, ma il termine stesso “psicoanalisi” etimologicamente significa la scomposizione di qualcosa complesso in ognuna delle sue parti. È precisamente quello che ha fatto Freud con le sue due topiche dell’apparato psichico: inconscio-preconscio-conscio; io-Es-super-Io.
Un altro esempio è il termine metapsicologia, creato per nominare il congiunto della concezione teorica e distinguerla della psicologia classica in quanto per lui era centrare l’interesse nell’aldilà della coscienza, nell’incosciente.
In realtà, potremmo dire che Freud riprendeva – seppur in un modo diverso - un problema classico, quello della natura dell’uomo pensato come corpo e anima, soma e psiche. Per esempio, Freud propose che la pulsione come concetto di frontiera, tra lo psichico e il somatico. Inoltre nel 1938, in uno dei suoi testi conclusivi, “Compendio di psicoanalisi”, Freud tornò sullo stesso problema segnalando che non sappiamo cosa c’è lì in mezzo, non sappiamo cosa articola psiche e corpo.

Che cosa ne pensa Lacan di questa “psiche”?
Lacan si burla un po’ - o molto - della psiche in diversi momenti del suo insegnamento, dice di lei che è “una vecchia superstizione il cui testimone abbiamo in tutte le epoche” o che “è un sogno che è stato ereditato dalla filosofia” (1976). La critica anche apertamente: “Quella cosa che esiste soltanto nel vocabolario dei psicologi - una psiche attaccata al corpo. Perché diavolo, si deve dire, perché diavolo sarebbe doppio l’uomo? Che ci sia un corpo già nasconde abbastanza misteri…” (1975).
Com’è riuscito Lacan a sbarazzarsi della psiche? Cosa gli permise di non averne più bisogno per pensare ciò che è propriamente umano? Cosa mise come operatore di quella peculiarità umana? Il registro simbolico.
Per Lacan l’apparato non è psichico ma del linguaggio. In un certo senso Lacan cambia con questo il nome dell’umano: psiche sostituito da simbolo, psichico da simbolico. Quello simbolico è il registro a partire del quale è possibile cominciare a parlare dell’essere umano.
Una curiosità: nel secolo XIII, Federico II di Germania, intrigato dal sapere quale lingua avrebbe usato un individuo crescendo in mezzo a persone che non gli avessero mai parlato, fece un esperimento con un gruppo di bambini: prescrisse alle nutrici di alimentarli e lavarli, però senza coccolarli o parlargli in modo alcuno. Il lavoro fu vano… tutti i bambini morirono poco tempo dopo.
I risultati di questo esperimento brutale mostrano come la vita umana si sostenga nella relazione fra il corpo - con la sua forma e il suo flusso vitale - e il linguaggio. Il linguaggio è l’attrezzatura che ci dà una vita soggettiva, da essere parlante, da parlêtre.
In questo senso, l’ipotesi dei tre registri - Reale, Simbolico e Immaginario - è un’ipotesi antimetapsicologica: sono i tre termini di Lacan che oppone ai tre di Freud. Forse anche per questo Lacan fa un gioco omofonico tra RSI e hérésie (eresia) e si presenta come un eretico.  

Per cosa serve l’angoscia a Lacan?
Non si serve dell’angoscia per fare una teoria generale degli affetti, quello che gli interessa è la nascita del soggetto, in quale reale può apparire un soggetto, e di questo soggetto quello che vuole interrogare è giustamente il suo desiderio, cioè la sua mancanza, perché può esserci desiderio, per definizione, soltanto lì dove qualcosa manca. Si può desiderare solo quello che ci manca.
Da questo punto di vista è logico che Lacan affermi di aver parlato sempre dell’affetto. La psicoanalisi tale come lui la situa, come un discorso su una praxi - una pratica, non una teoria -, un discorso sugli effetti del parassitaggio del linguaggio sull’essere, sia nelle formazioni dell’incosciente sia nel pensiero, dev’essere situato e dedotto anche nella specificità di questo parassitaggio.
Potremmo dire che in certe occasioni il soggetto si fa rappresentare da un affetto, lo porta come l’unica cosa, la più importante, che ha per dire di sé. Tante volte, quell’affetto è l’angoscia.

Vorrei illustrarlo con una vignetta clinica.
Maria è una donna di approssimativamente cinquanta anni che vive felicemente sposata col suo secondo marito. Viene da me perché improvvisamente è presa dall’angoscia. Sa bene quando si è scatenato il suo disagio: da quando suo marito ha svalutato la gravità della situazione che attraversava suo figlio - figlio del primo matrimonio - che, per problemi nel parto di sua moglie ha chiesto a Maria di aiutarlo badando all’altro nipote.
La reazione di Maria col marito è stata rabbiosa, di rifiuto, verbalmente molto violenta, comportamenti inaspettati per lei. Per questo ha pensato di separarsi e successivamente ha avvertito un forte “dolore di pancia”, come sempre quando qualcosa la inquieta.
Maria non ha interesse nel raccontare la sua storia, lei vuole soltanto non essere più angosciata. Dice apertamente che a lei non piace rimuovere le cose del passato.
Della sua infanzia? Sa che suo padre si ammalò gravemente e morì pochi mesi dopo che lei vide la luce. La madre, anche se segnata della tristezza di quella perdita, seppe andare avanti: si risposò ed ebbero tutti una buona vita.
Con difficoltà riesce a raccontare del suo primo matrimonio, la separazione e anche come si è lasciata “strappare” il figlio dall’ex-marito. Tutte queste vicende non sa bene come le ha vissute affettivamente, ha soltanto il suo dolore di pancia a segnare i momenti difficili.
Quel “mal di pancia” appariva regolarmente nel suo discorso. Ho iniziato a sottolinearlo ogni volta che lei lo nominava, cosa che ci portava al racconto di ancora un altro episodio, producendo una serie che caratterizzava gli eventi importanti della sua vita. Era un significante chiave.
Dopo pochi mesi da quando ha iniziato le sedute, si aggiunge un lamento: da quando viene a trovarmi si sente malissimo fisicamente. Lei, che non è mai malata, ha dovuto rimanere a letto con febbre più volte per malesseri di origini diversi. Tuttavia, non lo mette in relazione a questo inizio di messa in parola ma piuttosto dice che l’angoscia la indebolisce. “Fino ad ora – mi spiega ancora un'altra volta - avevo soltanto…” “mal di pancia!”, finisco io la sua frase, con voce alta e decisa.
Maria rimane disturba, si arrabbia. Che il “suo” mal di pancia sia detto da me la porta fuori dalla sua posizione di bella indifferenza e amabilità. Ribatte: “Si, già da piccola avevo l’acetone, mal di pancia nervoso, per gli esami… dovrei ritornare a prima di nascere, perché mia madre già aveva “mal di pancia” per me”.
È in quel momento che sorge il racconto da sempre saputo però da cui aveva estratto l’affetto, per lasciarlo giacere a lato del suo pensiero: sua madre, incinta di lei, data la diagnosi mortale della malattia del padre, decise di abortire. Prese per farlo delle erbe che, fortunatamente, produssero soltanto un fortissimo dolore di pancia.
Adesso: maternità, abbandono, corpo, non chiedere aiuto, non voler sapere… cominciano a sfilare nel suo discorso. Appaiono sogni, tristezze che non furono mai tenute in conto, domande diverse e volontà di sapere di più.
Il dolore di pancia non diceva quello che conteneva, la divisione introdotta nel transfert apre in un altro modo la possibilità di un percorso analitico.

Lacan ci dà una definizione generale di affetto in questi capitoli?
No, Lacan elude la definizione di affetto.
In questo, segue i passi di Freud, che non diede una definizione dell’affetto a livello descrittivo, una definizione con cui si potrebbe riconoscere, identificare e così distinguere da qualsiasi altra cosa. Freud si riferisce al termine affetto perché parte dall’idea comune che tutti sappiano cos’è e, pertanto, siano capaci di riconoscerlo.
Rispetto all’angoscia, in Inibizione, sintomo e angoscia (1926), dice che è “(...) in primo posto qualcosa di sentito. La chiamiamo stato affettivo, sebbene non sappiamo che è un affetto”.

Non è che Freud pretenda di ubicare l’esperienza soggettiva come criterio di verità, però in questo modo evita di dare una definizione generale dell’affetto, una definizione descrittiva, perché per farlo dovrebbe appoggiarsi alla nozione di fenomeno – cioè dell’aspetto che le cose offrono davanti ai nostri sensi dall’infuori, il primo contatto che abbiamo con le cose. Sarebbe complesso nella teoria psicoanalitica, perché i concetti analitici non corrispondono a fenomeni osservabili, infatti quello che la psicoanalisi pretende di dimostrare è che non c’è accesso diretto del soggetto al mondo - sia esteriore che interiore - che non passi dal linguaggio, che non si produca senza la mediazione dell’Altro, e che, pertanto, l’espressione degli affetti e la descrizione di questi varia secondo le società e secondo i soggetti.
Lacan si domanda come potrebbe parlare dell’angoscia in generale quando con questo termine includiamo “esperienze così diverse come l’angoscia paranormale, o anche francamente patologica, l’angoscia de (...) i nevrotici e anche l’angoscia (...) del perverso, anche quella dello psicotico” (p. 27). Nonostante questo non si rifiuta di classificare l’angoscia come un affetto.

Cosa si potrebbe utilizzare per insegnare qualcosa su questa questione dell’affetto?
Lacan non parla tanto per parlare ma si riferisce a intenti concreti di diversi autori che hanno cercato di insegnare qualcosa sugli affetti, intenti che lui ha esplorato e analizzato. Ci presenta due metodi - il catalogo e l’analogo - sui quali ci espone quello che ha trovato e come ne sia rimasto deluso.
Propone un terzo metodo, il suo, che denomina come la chiave, e del quale dice che è orientato dall’ideale di semplicità che in tutto l’insegnamento cerca di raggiungere: cos’è la chiave? “La chiave è ciò che apre e che, per il fatto di aprire, funziona” (p. 14).
Come pensa possibile la semplicità in relazione all’affetto? Perché tutti i fenomeni umani sono mediati dal linguaggio, nessuno - l’affetto come gli altri - può essere né compreso né situato correttamente se non è in rapporto alla relazione dell’essere con il linguaggio. Pertanto anche per l’affetto, Lacan definisce così la situazione di “initium”: “non c’è apparizione concepibile di un soggetto come tale, ma a partire dell’introduzione primaria di un significante, e del significante più semplice, quello che si chiama tratto unario” (p. 25).
Questo significante dove si introduce? Nel reale del parlante, cioè, nella sostanza della quale il suo essere è fatto, in quello che Lacan chiamerà, più tardi, la sostanza godente.
Il reale dell’organismo che ogni essere è, risulta affetto da questa cosa semplice, simplex, che Lacan chiama anche “singolarità del tratto”. L’organismo, una volta che è influenzato dal linguaggio, sperimenterà affetti.
Il fatto che Lacan, nel Seminario X, usi il termine “singolare” ha la sua importanza, perché segna come irripetibile e unico ogni parlante; segnala l’impossibilità di prevedere, organizzare o orchestrare come e quando si produrrà quell'evento.
È perché ha un corpo “toccato”, “marcato” dal significante, che il parlante potrà sperimentare affetti, ed è importante esplicitarlo: sperimentarli nel suo corpo.
Potremmo dire che questa angoscia iniziale che alcuni contemporanei di Freud volevano attribuire alla nascita come successo puramente organico, Lacan l’attribuisce alla nascita, ma a una nascita molta concreta: alla nascita al linguaggio.


Preparazione redazionale di Alberto Tuccio