lunedì 13 febbraio 2012

Seminario dell’Istituto Freudiano di Milano, 16 dicembre 2011. Lettura del Seminario XXIII: Il sinthomo.


Uno strano disagio
Voglio ringraziare i miei colleghi milanesi, specialmente Marco Focchi, per avermi invitato a inaugurare il lavoro su questo straordinario seminario. È per me un onore e una sfida tentare di trasmettervi ciò che ho appreso delle tantissime – non le ho contate – letture che sono riuscita a fare dalla sua pubblicazione nel 2005 e, prima di quella data, dalle poche lezioni pubblicate e dell’edizione pirata, la versione non era ancora stabilita da Jacques-Alain Miller. Devo dire che da quando ho iniziato a leggere Lacan, ho accettato la sua difficoltà: leggevo e leggevo, anche se capendo poco… e, da quelle letture, alcune frasi rimanevano come segnate a fuoco nella mia memoria. Finché, a volte molti anni dopo, e sempre come conseguenza della mia analisi, riuscivo a accorgermi del motivo per cui avevo scelto, senza saperlo, inconsciamente, quelle parole, rivelandosi quindi, après-coup, il suo valore trasferale.
Nonostante ciò, alla lettura del seminario XXIII si sarebbe aggiunta uno strano disagio. Grazie al nostro mediatore nella lettura di Lacan, Jacques-Alain Miller, sono riuscita ad alleviare un po’ la sensazione di debolezza mentale che mi invadeva ogni volta. Nel suo corso 2004-2005 del titolo Pièces detachèes, dice che questo seminario ha qualcosa di “disturbante” e che un buon metodo per la lettura è “lasciarsi prendere”: cito la lezione del 1 dicembre del 2004: “Se non vi lasciate prendere dal modo in cui cerco con fatica di darvi esempio – incluso il tono che adotto, che non è quello abituale  – lo giudichereste [il seminario XXIII] dal lato del senso comune e quindi sarà giudicato incoerente (…) quando entrerete nel Seminario lasciate fuori la speranza e anche l’ordine, il principio e la dimostrazione. Leggetelo come si leggono le Scritture, con la S maiuscola. Lacan invita a farlo con la sua “sfrontatezza”, invita a confrontare ciò che lui proferisce col Libro della Saggezza, dandosi il vantaggio. Anche alle Scritture potremmo rimproverare l’assenza di ordine.
[…] Non sognate di cominciare, di progredire, ne immaginatevi di concludere …(…), lasciatevi prendere e abbandonate ogni idea di dominio, è preferibile sovrapporvisi. In particolare, dobbiamo sovrapporci alla straordinaria enunciazione di questo seminario.” Miller ci invita a “fare di Lacan”, quel che lui, Lacan, “fa di Joyce”: “bisogna arrivare a quell’enunciazione, inscriversi nel suo filo.”
Sicuramente risuona in questo consiglio quello che, a un certo punto, enunciò Lacan stesso nella conferenza dal titolo La Terza: “Seguite il mio esempio, non imitatemi”.
  Il reale nell’enunciazione
Esporrò, per proseguire, quel che risulta dall’aver applicato questo metodo, i “pezzi staccati” della mia lettura del seminario. I miei pezzi staccati, ottenuti a partire dei miei inciampi, del mio rinnovato incontro con la mancanza della mia comprensione, lasciandomi guidare, consegnandomi, tentando di scrivere la mia enunciazione in quella corda, in quel filo, quello del discorso analitico. La metafora del filo è freudiana: Freud parlava del filo del desiderio con cui si tesse la nostra vita. La metafora della corda è lacaniana, il filo ha preso la forma del nodo.
Dove è il nodo il modo in cui Lacan si sforza di provare il proprio reale, specifico della psicoanalisi: “Il reale è il referente della psicoanalisi”, afferma Miller.  Lo è nella misura in cui la nostra pratica deve orientarsi verso il reale del sintomo, per riuscire ad estrarre da esso quel che vi è di più singolare in ciascuno. In questo caso, il discorso di Lacan risulta all’altezza del proprio tema: Lacan parla come ciò di cui parla, parla a partire della falla del linguaggio per nominare il reale. Più volte ci trasmette i propri inciampi. Più volte dice senza dire, lasciando zone opache. Ombre. Enigmi. Lacci sciolti. Confessa anche di provare la sensazione  “di rischio assoluto” sul terreno che sta esplorando, e che nomina,  qua e là, come il suo territorio, il suo pensiero. Aspira a trasmettere una nuova maniera di pensare, una nuova maniera di parlare,  è quindi a partire dalla sconfitta, dalla falla, che “si trasforma nel significante padrone del seminario”.
Scrive questa novità introducendo un equivoco nel proprio sostantivo: invece di ma pensée, parla di mon pen-se: cioè una maniera di pensare che non ignora questa falla ma che l’incorpora nel riflessivo, per cui l’agente del pensiero non è l’io o la coscienza ragionante ma la falla. Questa nuova maniera di pensare ci invita – dice Miller – a unirci al nodo, ad abbandonare il pensiero come riferimento al corpo (…) a pensare fuori dalla forma, fuori dal riferimento all’immaginario.” Il nodo è presentato come illustrazione del reale, di ciò che resiste all’immaginazione e al pensiero, e la scommessa di Lacan è dimostrare il reale mediante il nodo. “Si tratta – dice Miller – di una pedagogia, di una dolorosa educazione dell’occhio, quell’occhio che ha fatto del corpo e proprio tramite l’astrazione, una sfera che è, per eccellenza, la buona forma.”
Se la tendenza “normale” del pensiero ci rende inclini a comunicare un’idea rotonda, senza difetti, chiara, chiusa, in cui le cose pensate abbiano un senso compiuto, è perché la tendenza normale spinge a ignorare la falla, a coprirla. Lacan ci invita a esercitarci nel pensiero rigoroso che si attiene alla difficoltà strutturale, cioè, il reale della struttura, senza ovviare gli inciampi: è un fatto che con i fili ci aggrovigliamo continuamente, ci imbrogliamo. Da qui l’importanza di aprire bene gli occhi, di non addormentarci quando maneggiamo i fili per annodarli come si deve, non valgono tutte le mancanze ma solo quelle che si corrispondono  alla logica della struttura.
“…Ma per quanto riguarda quello che chiamo il reale ho inventato, giacché mi si è imposto. (…) il reale fornisce quell’elemento che può  farli stare insieme [ l’immaginario e il simbolico].
Si tratta di qualcosa che posso dire di considerare ne più ne meno come il mio sintomo. Voglio dire che questo è il mio modo di portare al suo grado di simbolismo, alla seconda potenza, l’elucubrazione freudiana. (…) è nella misura in cui Freud ha veramente fatto una scoperta – supponendo che questa scoperta sia vera – che si può dire che il reale è la mia risposta sintomatica.” 
Non è che Freud non avesse un’intuizione del reale, l’essenziale perà di ciò che Miller denomina “l’interpretazione freudiana” della psicoanalisi, e che Lacan denomina elucubrazione, conferisce al sintomo un valore di verità, il cui senso inconscio sarebbe intrappolato nei significati rimossi. Essendo la rimozione equivalente a un “giudizio che rifiuta e sceglie”, l’analisi, orientata a togliere la rimozione e ad accedere all’inconscio, permette di rivelare quel senso e farsi responsabile di quel giudizio, fin’ora ignorato, che si trova all’origine del sintomo.
Una nuova versione del sintomo
In questo seminario Lacan presenta una nuova versione del sintomo che scrive con i latina [la scrittura abituale in francese è con la y greca] e la h: sinthomo. Questa nuova denominazione del sintomo è la sua risposta particolare alle impasse della psicoanalisi freudiana. Un nuovo nome del sintomo, che recupera una sua antica scrittura e per la quale Lacan si autorizza attraverso Joyce: “…l’iniezione del greco in ciò che io chiamo lalingua mia, vale a dire il francese. Se mi sono permesso questa modifica ortografica, è perché Joyce, nel primo capitolo dell’Ulisse, formulava  l’auspicio  che si ellenizzasse…”

 non si tratta in nessun modo di separarsi da Freud, si tratta di essere, come Joyce, “eretico nel modo giusto”, per scegliere la via giusta d’accesso alla verità.
Grazie a quel che Lacan scopre nella singolarissima scrittura di Joyce riesce a imprimere alla psicoanalisi un passo da gigante, superando il modo in cui Freud si è incagliato con la sua elucubrazione, come possiamo leggere in Analisi terminabile e interminabile. Nella struttura del sintomo – al di là del suo senso inconscio, derivante dal fatto di essere una formazione dell’inconscio “strutturato come un linguaggio” – si tratta di riuscire a estrarre il reale, il modo particolare di godimento, l’osso, il nocciolo attorno al cui si è formato il sintomo. La cura analitica deve orientarsi verso quel reale, e questo cambiamento ha portato con sé un cambiamento nella concezione dell’interpretazione, corrispondente anche a una nuova versione del simbolico. Fino ad ora il simbolico è presentato come luogo dell’ordine, delle leggi che strutturano il campo della parola. La funzione del linguaggio, secondo questo seminario, viene dal fatto di bucare il reale, di “mangiarlo” attraverso la funzione della denominazione. E questa funzione è correlativa di una nuova concezione dell’umano, il trouman
: un essere bucato e vincolato al godimento del corpo: l’essere parlante, parlêtre, parla e gode di lalingua, - che si scrive tutto attaccato, per indicare che si tratta di un concetto analitico, non linguistico. La versione freudiana del sintomo è correlativa al soggetto dell’inconscio, al soggetto rappresentato dai significanti. La versione del sinthomo lacaniano, ottenuta a partire da quello joyceano, è correlativa al parlêtre. La sua definizione è essere un “evento del corpo”. E solo la psicoanalisi può rivelarne la logica interna.
Del mistero all’enigma
Mi sono formata nella tradizione cattolica. È stato necessario un lungo percorso analitico per decifrare il modo in cui quel discorso mi aveva influenzato. Da brava cattolica non ho letto la Bibbia, il catechismo è bastato per chiudere quella porta con i significati assoluti del bene e del male. Grazie a Lacan l’ho ripresa, grazie all’affascinante Joyce di Lacan, e leggo Le Sacre Scritture cercando di essere eretica “nel modo giusto”. È molto divertente, come lo è Joyce e, a volte, Lacan. Hérésie fa equivoco in francese con R.S.I.
 Arriva da Haeresis che significa “opinione singolare”, e di solito viene intesa come  messa in questione dell’ortodossia. Capisco che il modo giusto di essere eretica presuppone siano distinti i tre registri per orientarsi nell’esperienza. Non basta dichiararsi ateo per destituire Dio, e Joyce lo dimostra molto bene, bisogna usare il potere dell’equivoco per fare esplodere il senso assoluto dei significati religiosi dalle parole che danno consistenza ai fantasmi.
Nel seminario, è chiaro che il Joyce di Lacan non è quello degli universitari, ai quali il geniale irlandese considerava di dover dar da fare per trecento anni. Per il momento si può dire che ci sta riuscendo.  Joyce, l’illeggibile, lo scrittore di enigmi, è battezzato da Lacan: Joyce, il sintomo, il sinthomo.
Nell’introduzione al seminario Lacan ci spiega che Joyce ha scritto in un inglese, e aggiunge qualcosa dicendo che bisognerebbe scrivere l’elangues, termine in cui troviamo lalingua, come scrive Lacan, e l’elan, lo slancio vitale
, l’esaltazione propria della mania, definita in questo caso come sinthomo. Vale la pena metterlo a confronto con un passaggio successivo del seminario dove troviamo una definizione della vita:”…si crea una lingua nella misura un cui in ogni istante le si dà un senso. La si dà un ritocco, senza il quale la lingua non sarebbe viva. È viva in quanto viene creata in ogni momento. Di conseguenza non c’è inconscio collettivo. Ci sono solo inconsci particolari, in quanto ognuno, in ogni momento, dà un piccolo ritocco alla lingua che parla.”
 La psicoanalisi ci invita a un effort de poésie, a approfittare del ritocco che abbiamo fatto alla nostra lingua, senza saperlo, per  creare il nostro sintomo in cui dimora il nostro “slancio vitale”, il nostro godimento.
Denominare Joyce le sinthome fa già parte di questa notevole eresia lacaniana, perché sin  significa, in inglese, “peccato”. Nel seminario XXIII assistiamo a un nuovo Genesi, la nascita, non dell’uomo, ma del sinthuomo, come scrive Miller, nella misura in cui non c’è parlêtre senza sintomo, senza il mistero dell’incarnazione del sintomo.
Se Lacan ha sempre considerato la Chiesa Romana come l’unica vera, è perché, a differenza di altri miti o teorie, essa è riuscita a costituire una di-mensione (dit-mension) sul godimento del corpo in cui è presente una struttura trinitaria, la mancanza costitutiva dell’essere umano, (sebbene con il senso del peccato), e l’assenza di rapporto sessuale. Leggiamo in Encore che Gesù vale per la storiella della passione, dove racconta la via crucis del corpo. Le immagini barocche, afferma Lacan, distillano godimento, catturano lo sguardo con le sue scopie corporee, e danno senso ai fantasmi, ma non danno  forma all’impossibile rapporto tra i sessi.
Sempre nel seminario XX Lacan definisce il reale come “il mistero del corpo parlante, è il mistero dell’inconscio”. In questi tre termini: il reale, il corpo parlante e l’inconscio, dice Miller,  sorge come una condensazione dell’insegnamento di Lacan, che supponiamo deciso a dar forma logica a un’altra di-mensione del corpo, cioè, quella analitica, giacché non si è riusciti a produrre un mito meno cretinizzante sulla falla del godimento di quello della mela maledetta.
Ci viene detto che nei cosiddetti “misteri del Rosario”: i gaudiosi, dolorosi e gloriosi, a cui Giovanni Paolo II aggiunsi un quarto, i luminosi, “si meditano i misteri della nostra fede”. Sono vincolati alla incarnazione di Dio nel corpo, e si suppone, in verità, che la passione sofferta in questa persona sia stata il godimento per un'altra”.
Il mistero dell’incarnazione della parola, il mistero del godimento della parola nel corpo, gli affetti, il pathos del sintomo, possono snodarsi nell’esperienza analitica, una volta trasformato il mistero in un enigma da decifrare, una volta ottenuto il voler dire dell’evento del corpo, cioè, l’inconscio. (Miller).
L’analisi deve operare in modo tale che si possa distinguere la peculiarità del quarto anello, il sintomo, che si appoggerà ai tre (R, S, I), tre supporti (…) soggettivi, cioè, personali.
 Perché cosa? Per poter, allora, fare uso del sintomo. Senza questo, sintomo mantiene il suo carattere di pezzo staccato, di cui si soffre, che funziona male, che è qualcosa di cui non è possibile trovare una funzione.
L’importante è capire che questo pezzo racchiude in sé “una logica segreta” che l’analisi permette di rivelare, perché il soggetto possa con questa spingersi per andare nel mondo, per funzionare in un modo diverso. Questo pezzo staccato sarà la lettera del sintomo, la cui affinità con il reale si dimostra in virtù della sua identità, del suo essere lo stesso, di ciò che non cambia, a differenza del significante che è, per definizione, differenza.
Dalla mano di Joyce
Crediamo a Lacan quando dice che “grazie a Joyce, tocchiamo qualcosa a cui (lui) non avevo pensato”. 
 Di cosa si tratta? Forse, della sentenza che, in parole di Buck Mulligan riceve Stephen all’inizio di Ulisse: “…porti dentro il maledetto marchio dei gesuiti, solo che iniettato al rovescio”.
 Il testo di Joyce è interamente costruito come un nodo borromeo, afferma Lacan, cosa che a lui sfuggiva. Lacan da un esempio di una frase di carattere borromeo: “Ti domando rifiutare ciò che ti offro, perché non è questo”. Nella costruzione della frase si percepisce la torsione, il nodo di tre buchi, R, I, S,: ti domando, rifiutare ciò che ti offro, non è quello.
A differenza di Freud, che aspettava di veder cadere il mito religioso, il metodo dei nodi, secondo Lacan, ci si presenta “privo di una speranza di rompere in qualche modo il nodo costitutivo del simbolico, dell’immaginario e del reale. A questo riguardo, diciamolo con lucidità, esso rifiuta qualcosa che costituisce una virtù, perfino una cosiddetta virtù teologale”. E qui comincia una dichiarazione affilata e sorprendente: “la nostra apprensione analitica del nodo costituisce il negativo della religione”.
In Stefano eroe possiamo seguire la metodica messa in questione da parte di Joyce della religione, la composizione della sua particolare hérésie, che prende forma nel personaggio di Stephen. “Stephen è Joyce in quanto  decifra il proprio enigma”
. In un appassionante scambio dialettico con i suoi amici, con i preti e con i suoi famigliari Joyce-Stephen abbandona la credenza in Dio, – ciò non vuol dire che abbandona quei significanti, perché questi costituiscono “la materia del suo pensiero, la sua armatura”. Nel suo percorso Joyce comincia a credere nel suo sintomo di artista. Lacan riprende l’argomento di Stephen:” Non è stato Dio a commetter quell’affare che chiamiamo Universo. Si imputa a Dio qualcosa che pertiene all’artista, il cui primo modello è, come tutti sanno, il vasaio.”
, il fare che racchiude il vuoto, come ha dimostrato nel Seminario VII. Qualcosa a cui Lacan non aveva pensato …e che riesce grazie a Joyce… Credo si riferisca al simbolico nella sua funzione di denominazione. Ha trascorso il suo insegnamento sostenendo il potere del simbolico nella sua funzione di comunicazione, di creazione di senso. L’incontro con Joyce  lo porta a disfarsi del suo insegnamento anteriore.
Nella struttura borromea, trinitaria del parlêtre, il simbolico svolge la funzione di buco, e non è più importante dell’immaginario e del reale. L’immaginario costituisce il corpo, gli dà consistenza, e il reale, ex-siste agli altri due, è il parassito la cui intrusione permette di distinguere gli altri due.
Freud inaugurò il discorso analitico con il peculiare dialogo con i nevrotici. La radice inconscia dei sintomi mostra che essi funzionano come difesa di fronte al reale. Ciò avviene mediante l’operazione della rimozione, nella cui struttura si scopre il senso edipico. Lacan riesce a smuovere questo edificio freudiano grazie a quel che insegna Joyce, che definisce come “disabbonato all’inconscio”. In questa operazione il concetto stesso d’inconscio esce indenne. (Miller).
Ciò vuol dire che Joyce non si interessa al suo sintomo per produrre senso, ma che la sua arte illustra un uso del simbolico tale che, grazie al potere dell’equivoco, riesce a fare esplodere il senso unico, moltiplicando i sensi. Si tratta del uso di lalingua nella sua dimensione di suono più che di senso, giungendo anche a giocare con l’equivoco interlinguistico, fino a distruggere la lingua inglese con il suo testo intraducibile, Finnegans’ Wake.
L’Ulisse è stato scritto iniettando senza-senso nel racconto religioso. Per esempio, quando dice che Adam era una M’Adam, o quando ironizza toccandosi il fianco: La mia duodecima costola non c’è più. Sono il “Ubermensch”.
In Stefano eroe e nel Ritratto dell’artista da giovane leggiamo diversi passaggi in cui possiamo seguire i momenti di creazione, la genesi del suo sinthome, a partire della carenza della funzione paterna.
Joyce non ha avuto un padre rispettabile, ha avuto un padre indegno, ubriacone, irresponsabile, che non gli ha insegnato niente, che lo ha trascurato in tutto tranne che inviarlo dai buoni padri gesuiti, la Chiesa Diplomatica. Lacan situa il desiderio di essere un artista di cui si occupi il mondo intero come compensazione di tale carenza paterna.
In vari passaggi appare chiaro che Joyce non credeva nel padre e che si dà conforto, si appoggia “al nome che gli è proprio - ecco ciò che Joyce valorizza a spese del padre.”
 Con il suo Ego d’artista, il suo piccolo piedistallo costruito per elevarsi, il suo S.K.Beau, che fa giocare nell’equivoco con sgabello (escabeau), riesce a riparare la fallacia del nodo per via della quale l’immaginario restava slegato come si vede nel episodio delle botte. Questo errore di annodamento lascia slegato l’immaginario per via della preclusione del fallo. Lacan lo descrive dicendo che “aveva il pisello un po’ moscio”. Joyce riuscirà a raddrizzarlo con la sua arte.
Ciò non significa che lo scrittore non parli del padre, al contrario, l’Altro di Joyce “è carico di padre”, è “radicato nel padre”. Joyce ne esplora la mancanza e indaga nel modo particolare la sua versione, la sua per-versione.
Alla fine di Ritratto… Stephen conclude la sua ode alla vita con una preghiera: Odl father, old artificier, stand me now and ever in good stead. Lacan ci dice che è diretta al padre. La traduzione italiana riporta: ”Antenato mio” e permette di pensare che potrebbe trattarsi di una invocazione al potere del simbolico, del sapere-fare proprio del artista.
Nell’Ulisse, dice Lacan, andrà a cercare il padre in diversi modi, senza mai trovarlo, anche se, precisa: “… evidentemente un padre c’è da qualche parte, ed è Bloom, un padre che si cerca un figlio, ma Stephen gli oppone un non fa per me. Dopo il padre che ho avuto non ne posso più. Basta con i padri.”
Echi nella terra freudiana
Queste frasi del seminario risuonano nella nostra terra freudiana. Hanno una enorme portata. Con questo seminario infatti Lacan diceva di poter andare a passo da gigante grazie all’aiuto di Joyce. Basta padre con il seminario XXIII. “Sono, nonostante mio pesare, erede di Freud” dice ad un certo punto, ma questo non lo obbliga a sostenere la tradizione freudiana del padre nella psicoanalisi. E questo si concretizza nell’assioma: “Del nome del padre si può fare a meno a condizione di servirsene”. È un altro modo di dire che si tratta di essere, come Joyce, eretici nel modo giusto.
La clinica lacaniana offre agli esseri parlanti, uno per uno, la possibilità esplorare il carattere singolare della mancanza del padre, fino a estrarre la logica del sinthomo. È un invito a smettere di credere nel padre per credere in ciò che ognuno ha creato, in ciò che si è inventato nel quadro della sua falla, come risposta a questa. È un invito a usare del proprio sinthomo, a sostenersi su esso per muoversi, per ottenere rispettabilità, per riuscire a situarsi in un discorso. È il sinthomo-roule, el sinthomo eretico, che si distingue, seguendo Miller, del sinthomadaquin, che gioca sull’equivoco con San Tommaso d’Aquino, la cui teoria estetica fu valorizzata da Joyce come base della sua dottrina sull’artista.
Miller differenza, il sinthomo slegato dalla struttura e preso nel suo reale, da quello che considera il sinthomo ortodosso, perché lo innalza a parvenza, lo rende manichino, velato dagli accessori: il buono, il bello, il vero. Il primo, invece, il sinthomo-ruota-che-ti-spingo priva il sinthomo del suo madaquinismo, della sua idealizzazione, della sua sublimazione. Ciò non impedisce che il corpo implicato voglia elevarsi con l’opera d’arte a un S.K. Beau. 
 L’etica del seminario si accompagna con una estetica della lettera.
Ezer kegnedo
L’eresia lacaniana si completa con una trovata formidabile nel testo del Genesi. Nella Bibbia leggiamo: ” L’uomo ha dato nome a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e a tutti gli animali dei campi, però per l’uomo non trovò un aiuto adatto a lui”. La Creazione, dice Lacan, è chiamata divina solo perché si riferisce alla denominazione, che si raddoppia con la chiacchiera del parlêtre. Eva, L’Evie, che in ebraico significa la madre dei viventi, usa la chiacchiera per parlare con il serpente, successivamente designato come mancanza, il sin, il primo peccato, la funzione fallica, che svolge la funzione di limite, perché manca, è necessario il “non devi”. In questo si rivela la logica della cosa, perché per orientarci nella struttura abbiamo bisogno della negazione, un impossibile che ordini il possibile. Se tutto è possibile, il godimento diventa erratico, porta al delirio.
Secondo la traduzione di Andrè Chouraqui – nella cui si riferisce Lacan – il testo dice qualcosa molto diverso: “Dio crea un aiuto contro di sé”: ezer kegnedo. Da questo passaggio Lacan estrae una nuova definizione del pensiero, l’apensiero, derivato della tesi che, in realtà, si pensa contro un elemento che prende il valore di reale. La donna come oggetto a è, quindi, un prodotto del discorso, e la sua funzione reale avviene con questa operazione. La donna resiste al pensiero poiché non c’è un significante per La donna.
Un nuovo cogito ironico si enuncia nell’equivoco: Je le panse, (omofono a je le pen-se, donc je le suis), donc je l’essuie: “Io lo guarisco, quindi lo sudo”. Questo pensiero infatti, – sorto dall’esperienza dell’inconscio, non prodotto dalla contemplazione, né dall’armonia tra l’essere e il pensiero, ma che si annuncia come risultato di un sapere che stenta ad arrivare – resiste al pensare. Da qui nasce il suo valore, quando può essere nominato qualcosa di questo reale.
Il nodo funziona, su questo piano dell’apensiero, come ostacolo e, al tempo stesso, come sostegno. È un miscuglio di oggetto e ostacolo che Lacan nomina obsjet. Si inaugura così un nuovo sapere che Lacan denomina folisofia, “meno sinistra del cosiddetto Libro detto della Sapienza contenuto nella Bibbia, sebbene questo sia dopotutto il meglio che si possa fare per fondare la sapienza sulla mancanza, che è l’unico fondamento che essa possa avere”.
Sorprendente è la nuova definizione dello psicoanalista: “È un aiuto che può considerarsi come l’inversione dei termini del Genesi, l’ipotesi dell’inconscio si sostiene su questo buchino solo se può fornire un aiuto. L’ipotesi dell’inconscio, come sottolinea Freud, solo può sostenersi se si suppone il Nome del padre. Supporre il Nome del padre, è Dio”.
In francese no (come negazione) ha lo stesso suono di Nom (come nome). Il “buchino” è la mancanza che, si suppone, deriva della proibizione paterna. La negazione, cui operazione fonda il simbolico per il soggetto, coincide con l’operazione del nome del padre. “… la psicoanalisi prova che del Nome-del-Padre si può fare a meno”. 
 Se il Genesi conclude istituendo il Padre, Dio, lo psicoanalista aiuta a concludere la sua destituzione metodica fino a arrivare all’A barrato, fino a mostrare il suo carattere di finzione, intessuta come un bordo, come un ricamo del reale. Il nome limita, fa buco nella massa informe del godimento.
Lo psicoanalista lacaniano deve poter sostenere questa corda con fermezza, è ciò che lo lega alla logica della struttura, per legarsi alla sapienza della falla, che rende possibile l’orientamento verso il reale, verso il modo della falla singolare che abita il sinthomo di ciascuno. Occorre tenersi a questa corda che è, in realtà, un buco, per non sbandare versi altri discorsi, per non coprire la falla con il senso. Questo,  infatti, dice Lacan, porta a farfugliare , a scivolare nel bla bla.
La clinica continuista, la clinica del sinthomo, presuppone si prendano in considerazione le strutture per aiutare il soggetto a orientarsi nella struttura. Il sinthomo, nella nevrosi, è il risultato delle analisi che durano, secondo gli sviluppi di Miller in Sottigliezze in psicoanalisi (Choses de finesse en psychanalyse). Lo sappiamo dai testimoni della passe. La nevrosi è una struttura consistente e ci vuole un lungo percorso perché le finzioni possano costruirsi e ridursi. Ci vuole tempo perché possano operare i necessari spostamenti nel godimento, la sua riduzione. L’inconscio stesso assumerà carattere di finzione nell’ultimo insegnamento di Lacan. Il concetto di finzione o parvenza allude a una fabbricazione , sul piano della poiesis, della produzione, del fare.
 Finzione simbolica che il soggetto costruisce a partire da che cosa? Dal reale, il godimento opaco, ciò che non ha struttura di finzione.
Arrivati al nocciolo, al modo del godimento più particolare, si tratta di spegnere la sete di senso del sintomo. Nel caso dell’isteria, spegnere la sete del padre, per riuscire a destituirlo nel modo giusto.  A differenza della psicosi, infatti, nella nevrosi la difesa rivela la credenza nel padre, e si coltiva piuttosto la sua impotenza, la sua idealizzazione, il suo disprezzo.
“Il sinthomo è ciò che rimane una volta interpretato, una volta attraversato il fantasma, una volta che è conquistato il disessere. Il sinthomo non è dialettico, rappresenta, ripercuote il Una sola volta, e quando è colto, appare che la totalità è uguale a una delle parti”. (Miller Corso del 04/05/2011).
In definitiva, il sinthomo è il nome più proprio perché è il nome del godimento. È l’antitesi della certezza fantasmatica di chi afferma: “Sono come sono” istituendo così l’essere, trionfo della difesa per cui il sintomo si manifesta egosintonico all’io, come dimostrò Freud.
La psicoanalisi ci aiuta a abbandonare l’opposizione al reale, al godimento, il cui rifiuto riporta solo  sofferenza e costituisce, dunque, un notevole svantaggio come fonte di felicità, cioè, come risorsa per realizzare la nostra finalità vitale” (Freud, Il disaggio nella civiltà.)
Per concludere, riprendo le parole di Freud nelle quali trovo l’essenziale dell’etica che orienta la nostra clinica del sinthomo.
“La felicità, considerata in senso limitato, la cui realizzazione sembra possibile, per ogni individuo è semplicemente un problema di economia libidica. Nessuna regola, al riguardo, vale per tutti; ognuno deve cercare il proprio modo di essere felice. La scelta del cammino da seguire sarà influenzata dai più diversi fattori. Tutto dipende dalla quantità di soddisfacimento reale che ci si può aspettare dal mondo esterno e dal grado d’indipendenza rispetto a esso e, per finire, dalla forza di cui l’individuo dispone per modificarlo secondo i propri desideri.” (Sigmund Freud: Il disagio nella civiltà).
Vilma Coccoz
Traduzione di Florencia Medici

Nessun commento:

Posta un commento