lunedì 15 ottobre 2012

Seminario dell'Istituto freudiano di Milano. Lezione del 12 maggio 2012. Lettura del Seminario XXIII


Mi è stato chiesto di parlare del Seminario XXIII in una prospettiva particolare: le trasformazioni del sintomo nella cura. Il suggerimento mi è molto piaciuto, perché è vero che, nelle diverse letture che ne ho fatto, il Seminario XXIII ci dà la possibilità di pensare il sintomo come qualcosa la cui struttura è diversa dal punto di vista delle particolarità cliniche. Ci dà anche la possibilità di introdurre una dimensione di singolarità che va decisamente al di là di ogni idea di struttura. Questa pluralità del sintomo si applica a un solo individuo, come Lacan mostra con il caso di Joyce. Penso che gli strumenti che il Seminario XXIII ci fornisce siano perfettamente adatti per continuare il dibattito sulle questioni che ci interessano ora nel Campo freudiano, e in particolare sulla discussione che penso faccia parte delle psicosi ordinarie, dibattito che riguarda le psicosi infantili e l’autismo. Su questo argomento, l’autismo, attualmente nel Campo freudiano c’è un dibattito molto vivace, che si potrebbe riassumere nella domanda: l’autismo è una psicosi oppure no?
Se avete seguito il dibattito nei diversi numeri usciti di Lacan quotidien avete potuto vedere che J.-A. Miller, in un suo breve intervento, ha menzionato il fatto che anche nel Campo freudiano ci sono psicoanalisti che non considerano l’autismo come una psicosi. Io penso però che la prospettiva offerta dal Seminario XXIII ci permetta di andare al di là di un dibattito posto solo in termini di struttura e, forse, la questione del sintomo autistico può essere discussa in termini più precisi a partire dalla diversità delle soluzioni sintomatiche. Nel Seminario XXIII, negli esempi che dà a partire da Joyce, applicabili però ad altri casi possibili, Lacan sviluppa una nuova idea di sintomo.
Questa idea deve essere pensata a partire da una definizione dell’inconscio che ha cominciato a svilupparsi nell’insegnamento di Lacan a partire dal Seminario XX, e che presuppone un punto di svolta in questo insegnamento. Possiamo domandarci se abbiamo tratto completamente le conseguenze di questa nuova definizione dell’Inconscio. Anche se, in modo completo, evidentemente non è possibile. Trarre tutte le conseguenze possibili dell’ultimo insegnamento di Lacan penso sia  l’orientamento che J.-A. Miller tiene nel suo corso.
Questa definizione dell’inconscio include una novità: una dimensione della lettera diversa da quella cui aveva fatto riferimento Lacan in un testo classico come “L’istanza della lettera dell’inconscio”. La definizione del sintomo, nel Seminario XXIII, deve essere intesa da una parte considerando questa nuova dimensione della lettera, dall’altra a partire da uno sviluppo di tutte le modalità di godimento che Lacan ha cominciato a considerare a partire dal Seminario XX, a partire da una differenza tra il godimento fallico e il godimento supplementare. Questo vuol dire che occorre una nuova definizione di sintomo che tenga conto di questa divisione in seno al godimento, e che consideri anche la constatazione del fatto che non c’è Altro. Per questo possiamo dire, con Lacan, che il nodo è una conseguenza di quel che ha iniziato ad affermare a partire dal Seminario XIX, ovvero che non c’è Altro. 
 Il sintomo, in questa prospettiva, deve essere inteso come un’operazione del soggetto che, al tempo stesso, risponde alla problematica dell’opacità del godimento, e anche all’inesistenza dell’Altro. In rapporto allo sviluppo della questione del godimento nel Seminario XX, penso si possa dire che nel Seminario XXIII Lacan fa un passo ulteriore, perché le modalità del godimento fallico e del godimento supplementare introducono la dimensione della lettera come una cifra di godimento, che è in rapporto con l’idea freudiana di fissazione.
C’è un’ulteriore una prospettiva che mi sembra importante. Se nel Seminario XX Lacan introduce la questione della sessuazione, che mostra il vicolo cieco dell’identificazione. Nel Seminario XXIII, in rapporto al nuovo concetto di sintomo, Lacan va al di là: introduce qualcosa dell’identificazione che si aggiunge al trattamento del godimento attraverso la sessuazione. Ciò significa che con questa nuova modalità del sintomo Lacan pensa ci sia una via di identificazione che ha la funzione di supplenza rispetto all’inesistenza dell’Altro, che mette in scacco, sul piano strutturale, la possibilità dell’identificazione per cogliere il godimento. 
Nel lavoro di Lacan su Joyce vediamo che ci sono diversi modi di trattamento, da parte del soggetto, del problema dell’opacità del godimento. Come ci sono diverse modalità di godimento, ci sono anche diversi modi di trattamento possibile del problema del godimento da parte del soggetto. Con questa diversità di trattamenti si pone la questione  del loro eventuale collegamento.
Il Seminario XXIII ci mostra che il sintomo, per uno stesso soggetto, include operazioni differenti, ma contempla anche la possibilità di un annodamento tra queste operazioni differenti che dà l’opportunità di rispondere alla questione “Chi sono?” in un modo che va al di là dei paradossi e dei limiti dell’identificazione. 
Una buona parte del lavoro di Lacan su Joyce, con questa nuova definizione del sintomo, è in rapporto con un aspetto paradossale precedentemente segnalato: il fatto che l’oggetto, che in principio è  differenza assoluta, può dar luogo a un tipo d’identificazione. Questo introduce la sola possibilità di innalzare la singolarità assoluta del soggetto a un tipo di identificazione che è dell’ordine dell’identità. Come però vediamo nel Seminario XXIII, e più generalmente in tutto l’ultimo insegnamento di Lacan, il vero paradosso è che affinché il soggetto possa costruire questa modalità di identità deve integrare quello che per lui ex-siste nel modo più radicale. Per pensare questo paradosso bisogna considerare la funzione della lettera nell’inconscio come qualcosa che può partecipare al tempo stesso a una dimensione dell’identità del soggetto, ma senza, contemporaneamente, smentire l’idea di una esteriorità radicale, di una “ex-sistenza”. 
Alle due modalità che possiamo trovare descritte nel Seminario XX, bisogna quindi aggiungere un’altra condizione: il godimento della lettera in quanto tale. La lettera nell’inconscio non è legata alla dimensione della rappresentazione e neppure, in modo primario, alla dimensione del senso: la differenza dei sintomi deve essere pensata come differenti modi di trattamento del godimento.
La prospettiva del Seminario XXIII è coerente con l’idea che il sintomo sia un modo di godimento, ma ci obbliga a pensare “come” e “con che tipo specifico” di godimento e “in che modo specifico concreto per ogni soggetto” il proprio sintomo possa essere trattato – e sia in grado di trattare – i differenti tipi di godimento. Abbiamo da una parte il godimento della lettera, come qualcosa del simbolico che si introduce nel reale, un godimento legato al senso, dall’altra un godimento che resta sempre estraneo al simbolico. 
Penso che questa idea di pluralità dei godimenti e dei trattamenti dei godimenti, si possa riscontrare nel caso di Joyce. Tutto il lavoro che Lacan fa sul caso di Joyce parla di una dimensione molto diversa del suo sintomo, e tiene conto di cose molto diverse. Per esempio, considera un rapporto complesso con la questione della credenza, che non può essere riscritta in termini troppo semplicistici, come un oggetto radicale. Poi c’è il problema del posto di una donna, la moglie di Joyce, Nora, che per altro verso è un abbozzo di soluzione che avrebbe potuto essere delirante, ma che non si è sviluppata in tale direzione, e che Lacan cerca di cogliere, di identificare, con riferimenti molto discreti. Joyce, inoltre, avrebbe avuto la possibilità di occupare il posto di salvatore. Se questo si fosse sviluppato avrebbe dato luogo a una posizione classica di paranoia megalomane, e penso si possano trovare nella lettura del Ritratto dell’artista da giovane indicazioni sottili e discrete di una possibile soluzione delirante, il cui contenuto religioso sarebbe stato significativo.
Occorre differenziare alcuni momenti del sintomo di Joyce e, grosso modo, si potrebbero far corrispondere ai discreti e sommessi riferimenti biografici reperibili in primo luogo nel Ritratto dell’artista. Vi sarebbero poi alcune allusioni nell’Ulisse, che rivelano le differenti operazioni rispetto al padre e mostrano, per esempio nel personaggio di Bloom, la rinuncia ironica da parte di Joyce a trovare una soluzione dalla parte del padre, sia nel senso di trovare un sostituto paterno, sia in quello  di incarnare il figlio che salverebbe il padre, una via megalomane che potremmo considerare ancora abbastanza classica. Solo nell’ultimo tempo di Finnegans Wake si può considerare ci sia la stabilizzazione di un nuovo ordine, dove il trattamento del godimento, da parte di Joyce, va nel senso di una certa operazione sulla lettera, una lettera pura, disabbonata dall’inconscio transferenziale.  Non è però una lettera completamente scollegata dal legame sociale, perché in quest’operazione sul godimento, per così dire autistico, nella lettera è inclusa una costruzione sintomatica denominata da Lacan l’”Ego di Joyce”, oltre ad alcuni elementi sicuramente diversi riferiti a un Nome per il soggetto.  
Penso di avervi dato un’idea della differenza tra le diverse opzioni che potremmo trovare in Joyce, e potremmo dire che si tratta di diverse scelte sintomatiche. 
Sarebbe importante riuscire a pensare in base al modello di Joyce, per poterlo applicare a casi diversi. Bisognerebbe pensare a queste trasformazioni sulla struttura del sintomo, e pensare il sintomo come un annodamento che si può trasformare, che ogni volta deve o può tener conto di tutta una serie di modalità di godimento, facendo ricorso, per rispondervi, a diversi elementi della struttura. In una dimensione più microscopica, per esempio, in modo più dettagliato, si può vedere come per ogni soggetto, in ciascun momento della sua vita e della sua analisi, si formulino queste diverse modalità di trattamento del godimento.  Nel caso di Joyce si può vedere che c’è tutto un lavoro dei cambiamenti a proposito della lettera, ma ci sono anche modificazioni in rapporto al senso, ci sono operazioni su una struttura che possiamo chiamare l’Ego, e ci sono tutte le operazioni che hanno rapporto con la  denominazione.
Nel Seminario XXIII c’è una questione importante, una novità, che ci permette di pensare la dimensione del godimento fissato alla lettera in rapporto al godimento supplementare, problema introdotto da Lacan nel Seminario XX. Nel Seminario XXIII cominciamo a vedere come la questione del godimento supplementare, legata alla problematica della sessuazione e al godimento dell’Uno, abbia due dimensioni: una è l’infinitizzazione, l’iterazione infinita del godimento dell’Uno, l’altra è la fissazione. Joyce mostra come un soggetto tenti di trovare una soluzione attraverso un’operazione che tiene conto, contemporaneamente, di queste due dimensioni, nella presenza dell’Uno senza l’Altro, per quel che riguarda l’inconscio reale, e per altro verso in rapporto alla diversa operazione che la denominazione.  
È un altro modo d’integrare l’operazione dell’Uno del godimento, dove paradossalmente si presuppone la possibilità di una supplenza del legame sociale. Su questo rischio qualcosa: è un’ipotesi che formulo io. Penso che nella denominazione ci sia una sorta di stabilizzazione tra la dimensione dell’Uno radicale, profondamente autistica, di fissazione del godimento, ma che per l’appunto questa stabilizzazione è inclusa, attraverso l’operazione di denominazione, in un legame sociale di supplenza. Per questo mi sembra che nell’analisi che Lacan fa della soluzione sintomatica di Joyce, bisogna poter distinguere due dimensioni profondamente diverse del suo sintomo. Da un lato c’è la dimensione megalomane dell’Ego joyciano, quella che Lacan descrive col termine di “sgabello”, ma c’è anche un rapporto con il nome di Joyce, con il Nome stesso: l’ipotesi che arrischio è che la denominazione assunta dal soggetto ha un rapporto con il consenso. Le premesse di quest’idea si possano trovare nel caso di Schreber, dove c’è tutta una dimensione di spinta alla donna, già pensata da Freud come un versante megalomane di Schreber, che implica però anche un consenso: il soggetto psicotico si abitua all’idea di essere un oggetto. Inizialmente Schreber contrasta l’idea di essere un oggetto di godimento per l’Altro. Da un lato lotta disperatamente, si affanna, si sforza in questa dimensione, ma da un altro lato il soggetto trova una certa pacificazione nel consentire a questa posizione. Nel consenso ci sono due cose che non sono sullo stesso piano: possiamo vedere da un lato, l’oggetto, quello che il soggetto sarebbe per l’Altro, ma dall’altro lato – credo che Lacan abbia insistito su questo punto – c’è l’operazione significante stessa, dove è in gioco il significante stesso della donna di Dio, che non è esattamente un oggetto ma è un significante. Crediamo quindi che anche Schreber acconsenta, accetti un significante che denomina. Nel caso di Schreber la denominazione denomina un godimento del soggetto. 
Il soggetto assume il Nome sempre in rapporto a un Altro. Un Nome presuppone sempre un Altro, anche se su un piano diverso che non nella presupposizione dell’inconscio transferenziale. Se c’è un Nome, un nome di godimento, è implicata una dimensione di un Altro, per quanto minima.
Se veramente pensiamo che la supplenza possa produrre qualcosa sul piano del consenso, la  denominazione opera a un livello fondamentale nella psicosi, un livello che potremmo descrivere come preclusione del godimento stesso del soggetto, alludo al fatto che questa modalità essenziale di far esistere un Altro non è tuttavia in rapporto con l’inconscio transferenziale. 
Un caso abbastanza noto di un cosiddetto autistico, Daniel Tammet, spiega qualcosa di paradossale che mi ha fatto riflettere. Anche se la dimensione della lettera che denomina un godimento autistico del soggetto può essere pensata in opposizione a un Altro, si potrebbe tuttavia pensare a diverse gradazioni d’inesistenza: Daniel Tammet racconta che quando era bambino provava sofferenza quando si accorgeva che la lingua degli altri non nominava nulla della sua sofferenza. Sentiva allora il bisogno di inventare una lingua costruita a partire da esperienze corporee, vale a dire da eventi di corpo. Spiega però, in modo molto interessante, che da quando sentiva di aver trovato dei significanti adatti per denominare questo godimento, cominciava a non sentirsi più solo. Questo è straordinario perché mostra come anche un soggetto che si dice autistico – considerando tutto quello che può esservi di problematico nella definizione di “autistico” – soffra di sentirsi solo. In particolare, comincia a sentirsi meno solo dal momento in cui riesce a costruire una lalangue, questo mi ha fatto pensare come in un certo qual modo la denominazione del godimento sia, anche se difficile da pensare, una supplenza di un legame sociale carente. Il problema è come pensare queste differenti operazioni sul sintomo, al di là delle differenze strutturali cui siamo abituati.
L’insegnamento del Seminario XXIII, al di là della psicosi, vale per qualsiasi analisi: è la constatazione dell’impossibilità di trovare una soluzione all’opacità del godimento soltanto attraverso il senso. Bisogna inoltre tener conto di operazioni del soggetto che, restando fedeli alla struttura fondamentale del sintomo, si modificano per tentare di rispondere alle questioni che il godimento, nella sua opacità, continua a proporre al soggetto. 
Possiamo egualmente dire che il sintomo, nella sua struttura iniziale, non può dare una risposta nella misura in cui è troppo orientato alla soluzione del godimento attraverso il senso. Se l’idea di una traversata del fantasma continua ad avere per noi una relativa validità, credo possiamo pensarla però in una prospettiva diversa. Credo che si possa dare una risposta diversa alla questione del godimento, diversa da quella del senso: al di là del fantasma soggiacente a un sintomo, orientato nella ricerca di un senso, e al di là di quel che è fuori senso, si può dare un valore nuovo alla lettera inclusa nel godimento. Questa lettera, inclusa nel godimento da sempre, richiede un nuovo uso. Questa lettera del sintomo non può essere trattata attraverso il senso, esige un trattamento diverso. 
All’effetto attraverso il senso, di diritto primario, si aggiunge un effetto di diritto secondario che sia paradossalmente capace di mettere a frutto il godimento autistico attraverso la denominazione, costruendo un legame sociale, per quanto fragile per ragioni di struttura, giacché l’Altro non esiste. 
Mi riferisco ora a un caso a partire da un significante costruito tra i due livelli che sono quello de la langue, come elemento traumatico per il soggetto nella sua singolarità e, al tempo stesso, quello che diviene la lingua, nel suo uso familiare. 
Voglio aggiungere qualcosa che ho omesso quando ho detto che occorre distinguere il sintomo di Joyce dalla dimensione megalomane, dalla dimensione di pura denominazione. Ho tralasciato di dire che c’è una distinzione utile che può orientarci: la dimensione megalomane ha rapporto con l’attributo, con l’aggettivo, mentre il nome in quanto tale è una cosa diversa. Si può prendere un significante come un nome o come un aggettivo, e si può tentare di pensare che ciò è in relazione con trattamenti diversi del godimento.
È un caso che ho costruito a partire da un significante in spagnolo. La parola in spagnolo è “sin verguenza”: senza vergogna, svergognato, sfrontato, sfacciato, crapulone, illimitatamente avido, che non si nega nessun piacere, neppure i più osceni. Questa parola contiene un equivoco per il soggetto in questione perché si tratta di un uomo il cui sintomo importante è la “vergogna”, che gli pone tutta una serie di problemi: da giovane, per esempio, lo ostacolava quando cercava di abbordare delle donne, perché aveva vergogna di porsi come uomo di fronte ad una donna. L’analisi ha fatto emergere che questo aveva un rapporto col fatto che lui aveva vergogna del padre.
In un passaggio dell’analisi, il soggetto si è reso conto che il suo rapporto con il significante della vergogna era contrassegnato da una grande ambiguità: si trovava in situazioni in cui si rendeva conto di aver superato i limiti e lui, spesso piuttosto inibito poiché provava vergogna, si trovava a fare come degli acting out che gli davano buoni motivi, dopo, di vergognarsi davvero.   
Ad un certo punto nell’analisi, a partire da questi acting out si è prodotta una sorta di allucinazione, ma non come un’allucinazione che viene dall’esterno, bensì come una sensazione interiore, la sonorizzazione di un pensiero che era, allo stesso tempo, un ricordo: era la voce del nonno che diceva, e quasi gridava, “svergognato”. Questa parola del nonno aveva rapporto con una particolarità della storia familiare. Il nonno diceva di non avere un padre. Perché? Come questo analizzante ha potuto poi ricostruire, senza sapere in quale momento della sua vita abbia cominciato a prenderne coscienza, il padre del nonno aveva fatto qualcosa di talmente tanto vergognoso da giustificare che il nonno dicesse che non era più suo padre. D’altro canto, anche il nonno materno aveva fatto a sua volta qualcosa di vergognoso. La madre aveva mantenuto un legame con il nonno, con il proprio padre, ma  non gli rivolgeva quasi mai rivolgeva la parola. Bisogna aggiungere che questo nonno era sordo. Il  significante “svergognato” è una voce del Super-Io che cade nel punto di mancanza del padre, il quale, attraverso una struttura paradossale, aveva prodotto nel soggetto effetti contraddittori: da un lato il soggetto aveva vergogna del padre, e aveva vergogna di essere uomo, ma dall’altro lato non poteva impedirsi di comportarsi in modo vergognoso.  
Penso che nell’analisi, in un caso come questo, si tratti di introdurre una dimensione di non senso tra le due tendenze contraddittorie rispetto al senso, per permettere la scelta di un “senza vergogna”, e potersi denominare come qualcuno che non abbia vergogna, senza per questo essere “crapulone”. Si tratta quindi di spogliare questo significante del suo peso di aggettivo, di attributo, e di assumerlo come un nome di godimento a partire dal quale il soggetto sia in grado di riconoscere, in una serie di situazioni, di avere sempre una possibilità di scelta, di poter mettere in questione la vergogna e di poter rinunciare alle azioni compulsive che alimentano la vergogna. Il soggetto scopre allora che “senza vergogna” era un significante de lalingua, e che si trovava sempre in scacco nel tentativo di dare un senso a questo elemento de lalingua attraverso il fantasma. Scopre poi di mettere a profitto il corpo e gli atti per dare un senso a questa immaginazione superegoica. Direi che qui qualcosa passa dell’aggettivo superegoico “crapulone”. Tale aggettivo non dice niente alla dimensione che il soggetto mette a profitto per costruire un nuovo modo di presentarsi all’Altro, ma abbiamo detto che per tener conto della dimensione del sintomo come plurale non c’è soltanto l’aspetto della denominazione, occorre tener conto di altri aspetti del godimento: c’è la vergogna di essere uomo e di presentarsi come uomo a una donna, che paradossalmente si traduceva in situazioni in cui superava i limiti, per esempio situazioni in cui si era trovato ad essere infedele alla donna con cui stava in quel momento. Era la vergogna di presentarsi come uomo per una donna a portarlo a trovare una soluzione nella ripetizione, tentando incontri con altre. Questo inoltre alimentava la difficoltà di presentarsi come uomo per una donna. C’è quindi il problema di che cosa fare per cercare di situare la propria posizione in relazione alla sessuazione. Questo prende per lui il verso di consentire a essere denominato uomo da una donna, di consentire cioè, senza vergogna, a essere denominato uomo “per” e “da” una donna: questa l’operazione stabilizza in lui quel che era sempre attivo per via dello scacco al padre. L’impossibilità di consentire di essere l’uomo di una donna nel momento in cui superava i limiti produceva infatti una femminilizzazione immaginaria, fenomeno che risultava enigmatico. Di un uomo che accede a più donne si dice infatti normalmente che è piuttosto maschile ma, come J.-A. Miller diceva nel suo corso l’anno scorso, gli effetti perturbatori del godimento supplementare non si trovano solo nelle donne ma, per un uomo, negli effetti di un’eccessiva messa in gioco del godimento fallico. 
Questo era collegato in un altro modo sintomatico al problema del padre: la vergogna del padre non era soltanto la vergogna che il padre provocava in lui, ma veniva da una confessione che il padre gli aveva fatto quando era bambino. Il padre gli aveva detto di avere avuto un figlio prima di lui, scopriva dunque di avere fratello maggiore, e gli aveva confidato che dopo questo primo figlio avrebbe voluto una femmina. Se lui fosse stato una donna si sarebbe chiamato Laura. Sentiva dunque che una parte dell’amore del padre si rivolgeva a una femmina, e che se voleva essere amato da lui doveva esserlo come una femmina. Aveva vergogna del padre, ma aveva anche vergogna di riconoscere che, in un certo qual modo, godeva di essere amato non soltanto come un bambino ma come una femmina. 
Per questo motivo il fatto di consentire di portare il nome di un uomo come nome di godimento per una donna per questo paziente è una sorta di cessione di godimento, ma al tempo stesso gli permette, a partire da questo, di smettere di alimentare, di nutrire, la macchina che produce vergogna. Credo che possiamo vedere in questo caso diverse trasformazioni in analisi a partire dalla lettera di godimento, dove si vede che a partire da una rinuncia alla via del senso, la lettera può essere pensata diversamente e può essere messa a profitto in una diversa operazione. Quest’uomo può presentarsi come uomo per una donna. Allo stesso tempo valorizza i suoi sforzi e i suoi tentativi per riuscire ad avere buoni risultati nel campo professionale, dove finalmente si presenta all’Altro senza vergogna, anche se sa di trovarsi sempre in un certo qual modo di fronte alla risonanza di questo significante, nome per lui di un godimento di cui deve sempre tuttavia far qualcosa. È però qualcosa di cui può assumersi la responsabilità in ogni momento della sua vita. Giustamente, possiamo aggiungere, perché questo significante nomina qualcosa della lingua dell’inconscio reale di quest’uomo, e avrà sempre delle risonanze. Il senso non è qualcosa che viene esclusivamente dall’Altro: il soggetto può farne la propria lettura e assumersene la responsabilità.

Eric Berenguer
Trascrizione di Giuliana Carrino
Revisione di Giuseppe Perfetto

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