lunedì 1 febbraio 2016

Seminario del 12 dicembre 2015 Docente invitato: Cinzia Crosali

In-conscio non è non-conscio

 In Posizione del’inconscio Lacan riprende gli interventi fatti al Congresso di Bonneval nel 1960 dove era stato invitato dallo psichiatra Henry Ey. La stesura del testo risale al 1964 quando gli fu richiesta da Ey che non aveva predisposto la registrazione del Congresso ma aveva colto l’importanza dell’intervento di Lacan.  Vedremo le implicazioni di questo intervallo temporale di quattro anni. Il Congresso di Bonneval del 1960 (30 ottobre - 2 novembre) era centrato sul tema dell’inconscio. 
Lavorare, indagare e interrogarsi sul concetto di inconscio significa tout court interrogarsi sulla psicoanalisi sulla sua origine e sull’invenzione di Freud. Possiamo affermare che Freud ha inventato l’inconscio. Lacan lo dice chiaramente: prima di Freud l’inconscio “non è”. Semplicemente “non è” [Posizione dell’inconscio, in Scritti, p. 833]. Tutto quello che può essere indicato come contrario alla coscienza, sempre che la coscienza possa far riferimento a un concetto univoco, tutto ciò che non avrebbe l’attributo di coscienza, non corrisponde all’inconscio freudiano: “Non è una specie che definisce nella realtà psichica il cerchio di ciò che non ha l’attributo (o la virtù) della coscienza”  [Ibidem]. L’Inconscio freudiano non è il non-conscio (nella parola “in-conscio” il prefisso “in” non funziona come negazione, come nei termini in-consapevole, in-capace, in-credibile…).
Già in Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano Lacan scriveva che “[…] la coscienza è un tratto […] caduco nel fondare l’inconscio sulla sua negazione” [Ivi, in Scritti, p. 801]. Lacan considerava quindi la parola “inconscio” difficile da usare proprio perché fa riferimento alla coscienza, ma non volle cambiarla per rispetto a Freud che l’aveva scelta. Così si era espresso al tempo di Televisione, quando Jacques-Alain Miller gli aveva fatto osservare, la bizzarria del termine inconscio “L’inconscio - che strana parola!” [Televisione, in Altri scritti, p. 507]. Lacan aveva risposto che Freud non ne aveva trovata una migliore e che non era il caso di tornarci sopra. Però, due anni dopo, aveva cambiato idea e aveva introdotto quel termine che per noi, oggi, fa da bussola alla preparazione del Congresso dell’AMP che si terrà a Rio de Janeiro nel 2016: parlêtre, “parlessere”, il neologismo con cui Lacan nell’articolo Joyce il Sintomo preconizzava di poter sostituire il termine di inconscio freudiano: “Ne discende la mia espressione di parlessere che si sostituirà all’ICS di Freud (si legga: inconscio): fatti in là che mi ci metto io, dunque!” [Joyce il Sintomo, in Altri scritti, p. 558].  Il parlessere è il corpo parlante, un tema che si intreccia con l’attualità perché ciò che è stato colpito negli attentati di Parigi del 13 novembre scorso è proprio il corpo parlante, vivo, il parlessere che, come diceva Patricia Bosquin-Caroz in una recente intervista, fa legame sociale con la sua singolarità sintomatica e con il suo modo di godere (cioè di andare a sentire un concerto, di bere un aperitivo con gli amici o di andare allo stadio). 


I tre periodi dell’insegnamento di Lacan

Sebbene proposto nel 1960 al Congresso di Bonneval, Posizione dell’inconscio è riscritto e rimaneggiato da Lacan nel 1964, quindi la sua stesura è contemporanea al Seminario XI, I quatto concetti fondamentali della psicoanalisi e risente dell’elaborazione di Lacan in quel momento.  Rispetto all’insegnamento di Lacan, ci situiamo nel cosiddetto periodo classico, tra il primo, quello inaugurale di Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi [1953], e l’ultimo periodo, che Miller fa iniziare dagli anni Settanta. È importante considerare questi tre periodi perché la nozione di inconscio non  rimane la stessa; essa incontra torsioni e discontinuità in cui, come accade spesso per le nozioni lacaniane, le nuove proposte non annullano ma inglobano le precedenti. Sinteticamente possiamo dire che nel periodo inaugurale dell’insegnamento di Lacan, la caratteristica fondamentale dell’inconscio è l’intersoggettività, attraverso le varie forme del riconoscimento. Nel secondo momento, il periodo classico, l’inconscio è abbordato in quanto struttura secondo le leggi del linguaggio. Nell’ultimo insegnamento, il periodo dell’Altro che non esiste, dell’interpretazione come equivoco, l’inconscio è un apparecchio di godimento.
Il punto di partenza di Lacan rispetto all’inconscio è di pensarlo come interpretabile. Le formule notsono: “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”, concetto chiave del Rapporto di Roma [1953], insieme a “l’inconscio è il discorso dell’Altro” [Il Seminario. Libro II. L’Io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, p. 105]. Lacan non cesserà, fino alla fine del suo insegnamento, di rimaneggiare questo concetto fondamentale della psicoanalisi che è l’inconscio.

Scomunica e pluralizzazione del Nome-del-Padre

Vediamo le specificità di questo momento, il 1964, anno del Seminario XI e di Posizione dell’Inconscio. Il Seminario XI è molto importante perché si situa in un momento cruciale dell’insegnamento e della vita di Lacan. È l’anno in cui Lacan tiene per la prima volta il Seminario all’ENS (École Normale Supérieure), introdotto da Althusser, e non più a Sant’Anne dove lo aveva tenuto per una decina d’anni. Non si tratta solo di un cambio d’indirizzo, ma di un cambiamento obbligato in quanto Lacan era stato “scomunicato” dall’IPA (Associazione Internazionale di Psicoanalisi), nel senso che era stato depennato dalla lista degli analisti didatti. È Lacan stesso che usa la parola “scomunica” nel primo capitolo del Seminario XI e si paragona a Spinoza, non senza sottolineare che l’analogia si spinge fino alla irrevocabilità, infatti all’espulsione di Spinoza dalla sinagoga, il kherem, era stata aggiunta la chammata, che significa “per sempre”, esattamente come accadde a Lacan. Punto cruciale della sua vita per quanto riguarda la sua posizione nella comunità analitica internazionale e anche nel suo insegnamento in quanto viene messa in questione l’unicità del Nome-del-Padre. Ricordiamo che quell’anno Lacan aveva previsto di fare un Seminario intitolato I Nomi-del-Padre, al plurale, di cui terrà una sola lezione.  All’ENS (École Normale Supérieure) non proseguirà questo Seminario, che resterà, come dice Jacques-Alain Miller, il Seminario inesistente [Commentaire du Séminaire Inexistant, in Quarto, n. 87].
Inoltre, è proprio nel 1964, e precisamente il 21 giugno, che Lacan fonda la sua Scuola: l’École freudienne de Paris.
Un anno importante, dunque, non solo a causa di questi avvenimenti, ma perché essi si intrecciano e si articolano con un avanzamento fondamentale dell’insegnamento di Lacan che, da questo momento,  troverà il suo orientamento nel reale. Il reale c’era anche prima, ma era in disparte. Dal Seminario VII il reale acquista una rilevanza e si articola con il godimento che si sposta dal registro dell’immaginario a quello del reale. Tuttavia, in questo Seminario, per raggiungere il godimento occorreva una sorta di effrazione, di forzatura, di azione eroica e tragica, così come è ben espresso da Antigone e quest’impostazione continuerà fino al Seminario X. Dal Seminario XI, cioè dal 1964, c’è un avanzamento epistemologico per cui il godimento non è più legato all’azione eroica e trasgressiva ma è di struttura, è normale ed è ciò con cui ha sempre a che fare l’analista nella sua pratica clinica.

Pulsazione, apertura e chiusura – nassa

 I concetti sintetizzati in Posizione dell’inconscio, sono trattati più estesamente nel Seminario XI dove Lacan rinnova il concetto di inconscio.  L’inconscio è ripreso in termini di “pulsazione temporale” [Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, p. 140], è apertura e chiusura, è alternanza di movimento. Ci troviamo di fronte a un concetto chiave, di svolta. Presentare l’inconscio come pulsazione, come una funzione temporale di apertura e chiusura, significa allontanarsi dall’idea di inconscio come memoria. Anche Lacan aveva all’inizio definito l’inconscio come una memoria sotto forma significante, come un’iscrizione indistruttibile, come un testo fatto di geroglifici e quindi da decifrare. Questo poteva far pensare a qualcosa di fisso, quindi a qualcosa di scolpito in un sistema, come i caratteri assiro-babilonesi scolpiti sulla pietra.
L’inconscio come memoria è un sistema immobile e non pulsante. La funzione temporale di apertura e chiusura cambia completamente l’idea di inconscio come memoria statica ed evoca qualcosa di vivo, che pulsa, respira. In una conversazione con Miller avevo usato, come evocazione dell’apertura e chiusura dell’inconscio, l’immagine della balena di Pinocchio: una grande bocca che si apre e si chiude. La balena è addormentata e ha il raffreddore, quindi apre e chiude la bocca per respirare e Pinocchio dovrà cogliere al volo il momento dell’apertura per saltar fuori, insieme a Geppetto. A Miller era piaciuta questa metafora del pesce, la trovava in sintonia con la metafora della nassa usata da Lacan proprio per spiegare il funzionamento dell’inconscio nel Seminario XI: “Quando vi parlo dell’inconscio come di ciò che appare nella pulsazione temporale, può venirvi in mente l’immagine della nassa che si chiude e in fondo a cui deve realizzarsi la pesca del pesce. Secondo la figura della bisaccia, invece, l’inconscio è qualcosa di riservato, di chiuso all’interno, in cui noi dobbiamo penetrare dal di fuori. Dunque presentandovi questo schema, rovescio la topologia dell’immagine tradizionale” [Ibidem]. La nassa è un arnese che usano i pescatori soprattutto per catturare le aragoste. Ha la forma di un cesto, di un contenitore, fatto di materiale intrecciato o reticolare che si deposita sul fondo dell’acqua. La nassa ha un’imboccatura che rientra a forma di imbuto che si stringe verso l’interno. Quindi l’entrata è molto più larga dell’uscita. È quest’imboccatura che si apre e si chiude, otturata da qualcosa che produce la chiusura, che blocca la possibilità dell’apertura. Che cos’ è questo impedimento? In altri momenti era stato il transfert a essere considerato come potenzialmente ostacolante. Esso è indispensabile al funzionamento del dispositivo analitico, ma può anche esserne l’ostacolo, produrre la chiusura dell’inconscio. Qui, invece, non è l’inganno del transfert, la tromperie du transfert che chiude l’apertura dell’inconscio ma l’oggetto a che, collocandosi nell’imboccatura della nassa, è aspirato e ottura l’ingresso impedendo l’apertura. Non è proprio un tappo, perché questo tipo d’imboccatura esclude l’uso del tappo, piuttosto un otturatore, preso nell’aspirazione, quasi nella suzione del dispositivo. È con queste parole che Lacan lo descrive nel Seminario XI: “Possiamo concepire la chiusura dell’inconscio per mezzo dell’incidenza di qualche cosa che gioca il ruolo dell’otturatore – l’oggetto a succhiato, aspirato, nell’orifizio della nassa” [Ivi, p. 141].
I movimenti di apertura e chiusura non avvengono in modo ritmico e alternato, come potrebbe essere la respirazione della balena raffreddata che apre e chiude la bocca mentre dorme. Questa apertura avviene in modo aleatorio, si produce in modo contingente, imprevedibile e incalcolabile. L’inconscio è in questo senso “disruttivo”, per usare un termine  proposto da Miller: “L’inconscio come soggetto (che viene al posto dell’inconscio come sapere), è qualcosa che si produce e si manifesta in modo aleatorio, esso è  disruttivo” [Le us du laps, lezione del 15 dicembre 1999]. [In italiano “disruttivo” indica l’apertura improvvisa di un circuito elettrico].
Siamo di fronte a un rimaneggiamento del concetto di inconscio che ora è ridefinito attraverso il suo battito temporale, attraverso l’intoppo, l’incrinatura. Non più una memoria ma un movimento, non una bisaccia chiusa ma una nassa la cui forma mette in dubbio la staticità e la distinzione dell’interno e dell’esterno, così come altre figure della topologia lacaniana, la banda di Moëbius o la bottiglia di Klein. Infatti, nel movimento di apertura, l’inconscio svela il suo spazio, ossia mostra che non c’è un dentro. Lacan dice: “Ci si accorge così che è la chiusura dell’inconscio a dare la chiave del proprio spazio, e particolarmente dell’improprietà che risulta dal farne un “dentro””. [Posizione dell’inconscio, p. 842]. Quindi possiamo intendere che è nell’effetto di apertura che qualcosa s’intravede dell’inconscio ma che subito, chiudendosi, scompare, e non permane chiusa dentro perché non c’è “dentro”.
Se nel Seminario XI e in Posizione dell’inconscio, l’inconscio è presentato attraverso la modalità del taglio, dell’apertura-chiusura, della pulsazione, significa che non è più articolato come un linguaggio?  No, il linguaggio continua a essere centrale, tanto centrale che è condotto alla sua radice, al cuore, cioè al significante e al suo battito. Il battito di cui si tratta è quello del significante. Possiamo aggiungere, andando oltre Posizione dell’inconscio, che il significante batte sulla sostanza vivente, batte sulla sostanza godente. Significante in quanto causa del soggetto. Infatti, il soggetto non è causa di se stesso, e questo lo troviamo scritto in modo chiaro già nelle primissime pagine di Posizione dell’inconscio: il soggetto “[…] non è causa di se stesso, ma porta in sé il verme della causa che lo scinde. Perché la sua causa è il significante senza il quale non ci sarebbe nessun soggetto nel reale” [Ivi, p. 838]. Quindi il soggetto dipende da qualcosa di esterno a lui, il soggetto non è il punto di partenza, il punto di partenza è l’Altro. Ma non dobbiamo neppure pensarlo in termini psicologici, come se ci fosse un soggetto smarrito, scombussolato, che trova finalmente il suo punto di partenza nell’Altro, che lo inquadra e lo indirizza, che gli dà la dritta, la parola giusta, il significante che gli serve… Non è ciò che vuol dire Lacan. Questo soggetto smarrito non esiste prima del significante che lo causa. L’Altro del significante preesiste al soggetto. Il soggetto sorge dall’articolazione di due movimenti, che Lacan precisa nel Seminario XI e poi in Posizione dell’Inconscio: l’alienazione e la separazione. “[…] l’alienazione non è […] il fatto di trovare nell’Altro il punto di partenza. […]  L’alienazione risiede in quella divisione del soggetto che abbiamo appena designato nella sua causa” [Posizione dell’inconscio, p. 844]. È chiaro che questo soggetto non è quello della psicologia, e neppure il soggetto istintuale. Nelle prime pagine di Posizione dell’inconscio Lacan rimprovera quegli psicoanalisti che non distinguono l’inconscio dall’istinto o dall’istintuale e denuncia gli usi erronei del termine “inconscio” che non hanno niente a che vedere con la psicoanalisi. Lacan denuncia vigorosamente quello che chiama “l’errore centrale della psicologia” [Cfr. Ivi, p. 834], cioè l’errore di considerare la coscienza come un fenomeno unitario e univoco, avente funzione di sintesi d’ogni esperienza sensoriale. Questo non è sostenibile per Lacan. Il campo sensoriale non è affidabile, quindi non è adeguato per la costruzione dei concetti, non permette di unificare esperienze che vengono da campi diversi non riducibili. Allora di cosa possiamo fidarci?
 Lacan fa ricorso qui al cogito cartesiano, lo utilizza come momento privilegiato, aggiungendo quanto sia fraudolento estendere questo privilegio ai fenomeni provvisti di coscienza [Cfr. Ibidem]. Quindi separa e distingue il cogito dalla coscienza. Mostra come il cogito segni una rottura con le sicurezze illusorie che provengono dall’intuizione. Cartesio è stato un interlocutore privilegiato di Lacan che, lungo il suo insegnamento, ha maneggiato in molti modi il cogito fino a rovesciarlo. Cartesio con il cogito voleva fondare la conoscenza su basi indiscutibili e certe: se le basi non sono sicure, se sono soggette al dubbio, allora la conoscenza non è certa. Posso dubitare delle conoscenze empiriche e intellettuali che non resistono all’argomento del sogno e a quello di un dio ingannatore, di un genio maligno. Tuttavia il dio ingannatore che riesce a persuadermi che il mondo esterno esiste, mentre esso è finzione, non potrà persuadermi che io non esisto. Altrimenti, non potrebbe neppure imbrogliarmi. Se mi imbroglio, devo per forza esistere. Se dubito significa quindi che esisto, e questo è vero almeno ogni volta che pronuncio o evoco questa proposizione.  “Dubito, quindi esisto” è una prima tappa del cogito. Cartesio farà un passo supplementare considerando questa tappa come una verità troppo evanescente.  Il fatto di dubitare non può essere il fondamento della mia esistenza. Posso pensare senza dubitare ma non posso dubitare senza pensare. Se il dubbio è un aspetto del mio pensiero, allora sarà il pensiero il fondamento della mia esistenza. Se dubito penso, se penso sono. La proposizione “penso, dunque sono” diventa una conoscenza con valore inalienabile, una verità indiscutibile con valore chiaro e distinto. Tuttavia per garantirsi questa verità una volta per tutte senza dovere ogni volta dimostrarla, visto che la memoria è ingannevole, Cartesio dovrà ricorrere a un Dio buono che non imbroglia, e quindi troverà la soluzione nella perfezione divina come garanzia suprema delle verità eterne.
L’articolazione del cogito attraversa tutto l’insegnamento di Lacan e si intreccia con l’elaborazione del concetto di inconscio. Questi rimaneggiamenti interrogano il rapporto dell’inconscio con il pensiero, fino a sostenere la debilità del pensiero, nel senso dell’impotenza del pensiero a cogliere il reale.
Qualche anno prima del congresso di Bonneval, nel testo L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud del 1957, Lacan proponeva una torsione del cogito a partire dalla scissione del soggetto, la Spaltung freudiana, la fenditura, refente: “[…] penso dove non sono, dunque sono dove non penso. [...] Ciò che si deve dire è: non sono, là dove sono il trastullo del mio pensiero; penso a ciò che sono, là dove non penso di pensare” [L’istanza della lettera nell’inconscio in Scritti, pp. 512-513]. Commenta tale ragionamento arzigogolato chiamandolo: “Questo mistero a due face” [Ibidem]. Mi ha colpito l’uso della parola “mistero”, la stessa sulla quale ci interroghiamo a proposito del “Il reale […] è il mistero del corpo parlante, è il mistero dell’inconscio” come dice Lacan, in Ancora, concludendo la lezione del 15 maggio 1973 [Il Seminario. Libro XX. Ancora, p. 125]. Lacan riprende il cogito anche nell’articolo Scienza e verità [1965], dove lo scompone in due parti: “[…] penso, “dunque sono” con le virgolette intorno alla seconda clausola […]” [Scienza e verità, in Scritti, p. 869]. Questo significa che io sono colui che pensa, “dunque sono”. Un’espressione che indica come l’atto di pensiero sia un effetto del linguaggio. È una riformulazione che riannoda il cogito cartesiano alla struttura del linguaggio.  
Ne La logica del fantasma, Lacan introduce il cogito rovesciandolo nella formula “non penso, dunque sono”. E ciò è evidente quando facciamo un lapsus, un lapsus che può metterci a disagio, che ci affrettiamo a correggere, scusandoci della nostra sospensione del pensiero: “scusate, ero distratto, non so dov’ero”. “Ero distratto” significa: “non ero dove stavo pensando”, proposizione in cui l’essere e il pensare non vanno insieme. Nel resoconto del Seminario La logica del fantasma, Lacan dice che “La psicoanalisi postula che l’inconscio, […] è invocabile dall’“io non penso” […]” [Ivi, in Altri scritti, p. 320]. Anche nella posizione dell’analista: l’analista quando opera è implicato nell’atto più che nel pensiero. Lacan diceva che, a proposito dell’atto analitico, l’analista opera ma non pensa, opera in quanto non pensa; l’analista non pensa l’atto ma pensa la psicoanalisi.
L’ultima citazione sulle torsioni del cogito è in Radiofonia in cui Lacan dirà: “Per il soggetto l’inconscio è ciò che riunisce in lui le sue condizioni: o non è o non pensa”[Radiofonia in Altri scritti, p. 414].
In Posizione dell’inconscio però non abbiamo ancora questo rovesciamento così esplicito, anche se la coppia alienazione-separazione introducendo il vel, cioè la scelta forzata ed esclusiva tra essere e senso, ci avvia su questo uso del cogito rovesciato se poniamo il senso sul versante del pensiero e l’essere sul versante dell’esistenza.
Jacques-Alain Miller, nel corso Donc [lezione del 25.05.94], diceva che i due cerchi intersecanti, i cerchi di Eulero, sono usati da Lacan proprio per rappresentare in modo divertente il cogito cartesiano. E riduce l’ uso di Lacan della teoria degli insiemi a una formula molto semplice:

                                                                       COGITO

                 
                                       Être                                                          Pensée

“L’insieme di sinistra, lo chiamiamo l’essere, l’insieme di destra, lo chiamiamo il pensiero, e l’ “io penso, io sono” è l’intersezione fra I due. […] Quindi a sinistra, si tratta dell’essere meno la parte che è pensata, […]. L’ “io non penso” è così un “io sono”, ma è un “io sono” senza l’ “io penso”. Dall’altra parte abbiamo il pensiero meno l’essere, cioè un “io non sono”” [Ibidem].  A questo punto Miller si domanda “A che cosa ci serve questa dicotomia? Nella logica della cura, l’articolazione che propone Lacan, è un’articolazione di posizione che permette di andare dall’uno all’altro: andare da “io sono”, che è “io non penso”, a “io non sono”, cioè andare dal fantasma all’inconscio che è fatto di pensieri                                                                      

                                   io non penso                                              io non sono
                        (fantasma)                                                 (inconscio)

[…] [Si passa] dalla prima posizione, “io sono” […] che rappresenta l’identità egoica che rigetta l’inconscio, alla seconda posizione, “io non sono”, cioè all’inconscio, al prezzo di sacrificare l’essere dell’io” [Ibidem]. Nella prima posizione “[…] abbiamo il soggetto che si immagina essere padrone della sua identità e che quindi rigetta l’inconscio […]. Per contro, l’inconscio sono pensieri e, […] il soggetto non sa dov’è e quindi è correlativo a un “io non sono” [Ibidem].
In Posizione dell’Inconscio Lacan, dopo aver sottolineato il privilegio che il cogito comporta, si interessa al concetto hegeliano di coscienza. Il concetto hegeliano di “coscienza di sé”, il Selbstbewusstsein, poggia sul presupposto di un sapere assoluto e sulla possibilità di potervi accedere. Invece, già per Freud, non c’è un accesso così lineare al sapere assoluto, anzi il pensiero può sbarrare l’accesso al sapere, e al posto di “io so che io penso” c’è piuttosto un “io non so che io penso”, c’è un buco, c’è un sapere mancante che è poi all’origine del desiderio di sapere.  
Éric Laurent, nel seminario L’Autre qui n’existe pas et ses comités d’éthique [lezione del 5.03.97], diceva che in Posizione dell’inconscio ci sono due usi del cogito: l’uso che ne fa la scienza, e l’uso nel registro del pensiero. Se l’esperienza del pensiero punta alla certezza di sapere, “Per la scienza, il cogito segna al contrario la rottura con ogni sicurezza condizionata dall’intuizione” [Posizione dell’inconscio, p. 834] e Laurent sottolinea questo “al contrario” che differenzia il cogito della scienza dal cogito del pensiero.
Quindi, nessun sapere assoluto e nessuna azione unificatrice della coscienza. I fenomeni della coscienza restano erratici. C’è solo un caso in cui questa unificazione avviene, ma si tratta d’un fenomeno immaginario: l’unificazione dell’immagine dell’io allo specchio, la “[…] cattura immaginaria dell’io ad opera del suo riflesso speculare […]” [Ivi, p. 835], dice Lacan alludendo allo stadio dello specchio, costitutivo dell’Io ideale. Sappiamo che l’Io ideale è l’Io immaginario, è l’Io dello stadio dello specchio. Lacan concepisce la differenza tra Io ideale e Ideale dell’Io come differenza tra l’immaginario e il simbolico. Ma la cattura immaginaria dell’Io, proprio perché si riferisce allo stadio dello specchio, situa anche il soggetto sul piano della rivalità duale, dell’aggressività, della lotta. Questa funzione unificatrice della cattura immaginaria produce tensione e misconoscimento. Non permette la conoscenza. Quindi l’istanza unificatrice ha solo la consistenza virtuale dell’immagine. La psicologia si sbaglia a voler porre sulla coscienza e sull’unificazione dell’io le basi della solidità della realtà psichica. Lacan vuole, in questo senso, prendere le distanze dalla pretesa scientificità della psicologia, ma anche interrogare il rapporto della psicoanalisi con la scienza. Se nel suo primo insegnamento aveva cercato di dare solidità scientifica alla sua ricerca basandosi sulle leggi della linguistica e dello strutturalismo, ora, nel 1964, nel Seminario XI e in filigrana nel testo Posizione dell’inconscio, interroga diversamente la posizione della psicoanalisi nei confronti della scienza.   Separa e distingue il soggetto cartesiano dal soggetto psicologico ma anche dal soggetto dell’inconscio e il soggetto cartesiano subisce una torsione. Qui, l’inconscio è considerate come taglio in atto. È l’inconscio pulsante, disruttivo, che si apre e si chiude, e che quindi fa intravedere qualcosa, ma solo per un attimo, per poi richiudersi. È l’inconscio del battito temporale, della scansione, del taglio, diverso dall’esperienza del cogito cartesiano dove il pensiero ha una presa sull’essere, lo fissa, lo stabilisce. La differenza sta nell’introduzione da parte di Lacan della dimensione temporale, della discontinuità, che rende i fenomeni della coscienza sempre erratici, frammentari, e quindi la realtà psichica è sempre inafferrabile, non assimilabile alla realtà del cogito e al suo carattere ontologico. 
Nel Seminario XI Lacan dice che lo statuto dell’inconscio è molto fragile sul piano ontico, quindi non è ontico, ma etico [Cfr. Ivi, p. 34]. Qualche pagina prima diceva che “La faglia dell’inconscio [è] pre-ontologica […] [perché] ciò che è proprio dell’ordine dell’inconscio, è che non è né essere né non-essere, ma è del non-realizzato” [Ivi, p. 30].  
Molte sono le critiche che in Posizione dell’inconscio Lacan rivolge alla psicologia, dicendo che la modalità della psicologia, che tratta la coscienza come un oggetto di studio, sono da mettere sul conto di ciò che Hegel chiama la Legge del cuore e il delirio di presunzione [Cfr. Ivi, p. 835]. Lacan si riferisce qui a una delle figure della “Ragione attiva” secondo la quale l’individuo, deluso per la non realizzazione di se stesso attraverso il piacere, tenta in modo presuntuoso di appellarsi al sentimento e di cercare la felicità degli altri (l’esempio è Rousseau), ma senza riuscirvi perché anche così l’individuo non riuscirà a incarnare la virtù e fallirà in questo tentativo presuntuoso di salvare il mondo. Nello stesso modo, pretendere di occuparsi e di salvare la coscienza degli altri, o la mente degli altri, è una presunzione della psicologia che non solo si erige su questo piedistallo, ma riceve anche onori accademici e scientifici. E lo fa mettendosi al servizio del mercato, occupandosi di ideali che sono servi della società, della società dei consumi naturalmente. Ciò che Lacan sottolinea come scandaloso è che la psicologia arruola in questa sua presunzione anche Freud, lo arruola per sostenere idee incompatibili con la psicoanalisi; per esempio per sostenere l’ideale della mistica femminile, così come l’americana Betty Friedan  metteva in evidenza in quegli anni con i suoi lavori sulla condizione della donna. Siamo all’inizio degli anni Sessanta e Friedan criticava le volgarizzazioni di Freud usate per puntare il dito sui difetti delle donne americane che non si piegavano al loro ruolo di madri e spose devote.  Quindi la “mistica femminile” è intesa da Friedan come inganno e condizionamento a favore della segregazione delle donne per convincerle a rinunciare ai loro sogni di realizzazione professionale e intellettuale, producendo come conseguenza notevoli problemi d’infelicità, depressione e alcoolismo. 
Lacan critica con energia gli psicologi che si permettono di citare impunemente Freud per difendere i loro ideali servili, cioè servi degli interessi del mercato, ma critica anche gli psicoanalisti che si sono ben meritati una certa diffidenza perché “[…] fanno del loro meglio per rientrare nei ranghi della psicologia” [Ibidem]. È per questo che il Congresso di Bonneval è stata un’occasione importante, a partire proprio dal tema proposto, l’inconscio, sul quale la psicoanalisi ha la responsabilità etica di far sentire la sua voce. 
Il testo di Lacan indica e articola la posizione dell’inconscio, ma soprattutto la posizione della psicoanalisi nei confronti della psicologia, della scienza. La responsabilità della psicoanalisi di affermare la propria posizione etica non può essere evitata, ed è questo il momento, per Lacan, di far sentire la presenza dell’inconscio [Cfr. p. 836]. Per noi è molto attuale, perché parlare di inconscio, in certi ambienti, è sempre desueto.  Lacan coglie tale responsabilità in quest’occasione, quando è invitato da Henry Ey a riassumere i suoi interventi a Bonneval di quattro anni prima. Coglie l’occasione di questo articolo per “[…] spiegar[si] sulla [sua] dottrina dell’inconscio in quel momento” [ Ivi, p. 837].
Il primo fondamento di questa dottrina è che “[…] gli psicoanalisti fanno parte del concetto di inconscio perché ne costituiscono la destinazione” [Ibidem]. Dopo Bonneval non si può più parlare di inconscio senza la presenza reale dell’analista. Ma, in fondo, questo era già presente nella formula “l’inconscio è il discorso dell’Altro”, formula che si può leggere ora, dopo Bonneval, considerando l’analista come incluso nel posto dell’Altro.
Lacan scrive che “[…] la presenza dell’inconscio, situandosi nel luogo dell’Altro, va cercata in ogni discorso nella sua enunciazione” [Ibidem] e il soggetto dell’enunciazione è il soggetto dell’inconscio.  L’inconscio deve essere rivolto a qualcuno, non a uno qualsiasi, ma all’analista affinché lo metta al lavoro. E l’inconscio si rivolge all’analista attraverso la parola, l’enunciazione.  Inoltre, l’analista deve essere “[…] “messo in causa”, cioè sperimentarsi soggetto alla scissione del significante” [Ibidem]; senza questa condizione non c’è transfert. Solo se l’analista consente a essere sembiante dell’oggetto a nella catena significante, si produce un transfert particolare che permette all’analizzante di supporre all’analista un sapere sull’oggetto che causa il suo desiderio.
Tra l’altro, Lacan ci dà anche una serie di indicazioni cliniche su quello che è l’esercizio delle funzioni dell’analista: “[…] far da supporto al discorso del paziente, ristabilirne l’effetto di senso, mettercisi in causa col rispondergli, così come col tacere […]” [Ibid., p. 838]. Questo permette di distinguere la psicoanalisi dalla psicoterapia, permette di parlare di transfert distinguendolo dalla suggestione.
Dire che l’analista fa parte del concetto di inconscio perché ne costituisce la destinazione, significa parlare della seduta analitica, della posizione dell’analista nel transfert. Grazie al transfer l’analizzante si rivolge all’analista come soggetto supposto sapere, gli suppone un sapere. Da una parte c’è la supposizione dell’analizzante, dall’altra c’è la posizione dell’analista che ha la responsabilità dell’inconscio, la responsabilità di farlo esistere a partire dal dire dell’analizzante. L’analista che ascolta il dire dell’analizzante coglie qualcosa che parla del soggetto senza che lui lo sappia. 
In due formule, molto stringate, Lacan esprime il processo per cui il soggetto si trova ad essere effetto della divisione significante: “Dunque al soggetto non si parla. C’è chi parla, ça parle, di lui, ed è lì che egli si apprende […]” [Ibidem]. Nella parola “apprende” c’è qualcosa anche dell’“apprensione”, non solo dell’apprendere. È interessante questa frase perché coglie la divisione in atto.  Qualcos’Altro parla e lui si sente parlare e, quando lo si ascolta, può cogliere per un attimo quel qualcosa che sapeva senza saperlo: una parola, un significante. Mi viene in mente il caso di una ragazza che ricevo in studio per problemi che chiama “psicosomatici”: attacchi di panico, paura, angoscia, paura delle malattie. È ipocondriaca. Ha una sorella più grande di due anni, adottata. La sorella è stata adottata perché i genitori non riuscivano ad avere figli. Hanno adottato la bambina e, come spesso succede, la madre rimane incinta di lei, la figlia naturale. Dice di averlo sempre saputo, ma quando, adolescente, glielo hanno detto, ne ha fatto una tragedia con pianti, crisi e grida. Non capisce il perché. La famiglia è perfetta, i genitori sono perfetti, non sa spiegarsi il perché di questo e continua a girarci attorno col pensiero. Finché arriva un sogno in cui la sorella cammina e, dal collo, cadono sulla neve delle gocce di sangue e pensa a una ferita. Macchie di sangue sulla neve. Continua a pensare: “Non mi viene in mente niente”. Lei chiama le associazioni “legami”. “Non ho legami, non ho legami”. Improvvisamente sente unirsi “legami” e “sangue”. “Non ho legami e sangue”. E si passa ad un’altra scena dove dice: “Ma non avevo mai pensato al sangue come tale”. Aveva molta paura del sangue. I legami di sangue sono quelli che non ci sono con la sorella, che esistendo mette in dubbio la sua esistenza poiché, se c’era la sorella, lei non aveva bisogno di esserci e se ci fosse stata lei, la sorella non ci sarebbe stata. Sono incompatibili nel progetto. Improvvisamente il significante “sangue” si collega a “legami” e apre su altre scene che riguardano sia “i legami di sangue” che  “fatti di sangue”, ossia, emerge una certa aggressività. Questo è un esempio per dire come un significante di un sogno faccia irruzione sulla scena e ça parle, come questa parola parli del soggetto, della sua storia e apra qualcosa che permette di apprendersi, di capire.
Dire che c’è chi parla, ça parle de lui, significa che il soggetto è parlato dal linguaggio. E che al soggetto non si parli comporta che non siamo più, in questo testo del 1964, nella dialettica del soggetto con l’Altro, della circolazione della parola da uno all’altro, ma nel momento del soggetto come effetto del significante. Lacan dice: “ […] prima di sparire come soggetto sotto il significante che diviene […], egli non era assolutamente niente” [Ivi, p. 839]. Prima di incontrare il linguaggio, prima di incontrare il significante non esisteva. È il significante che esiste prima.
Il vivente incontra il significante e da questo incontro nasce il soggetto. L’incontro con il significante è contemporaneo alla domanda “Cosa vuol dire?” “Che cosa significa?” Tale domanda, che sorge nel vivente, fa nascere il soggetto che poi si chiede “chi sono io?” Potrebbe rispondere: “Sono lo stesso significante da cui sono nato e sotto al quale sparisco, divento questo significante”. Il soggetto sorge grazie a questo significante, dura un attimo e poi si eclissa.
Se il soggetto avviene e subito dopo scompare nell’atto di articolazione significante, quindi nel dire, appare chiaro che il soggetto dell’inconscio corrisponde per Lacan al soggetto dell’enunciazione perché lì si mostra il desiderio. Dice: “[…] la presenza dell’inconscio, situandosi nel luogo dell’Altro, va cercata in ogni discorso nella sua enunciazione” [Ivi, p. 837]. L’inconscio appare con il suo movimento di pulsazione nel dire del soggetto al di là del detto.
Nel Seminario XI, alla fine del capitolo XI, Lacan diceva che “[…] il transfert è la messa in atto della realtà dell’inconscio” [p. 142]. Non più ripetizione, chiusura dell’inconscio a causa dell’inganno, dell’illusione dell’amore, ma transfert come messa in atto, come apertura dell’inconscio. La messa in atto dell’inconscio bisogna intenderla nella nuova prospettiva dell’inconscio, inteso non come catena lineare ma come pulsazione. E i movimenti di apertura e chiusura dipendono dalla presenza dell’analista. Lacan integra anche il transfert nella nozione di pulsazione temporale dell’inconscio.
Nel Seminario XI Lacan dice che “la realtà dell’inconscio […] è la realtà sessuale” [Ivi, p. 145] e, verso la fine di Posizione dell’inconscio, da cosa sia rappresentata la sessualità nell’inconscio. “Non c’è altra via attraverso cui si manifesti nel soggetto un’incidenza della sessualità. La pulsione in quanto rappresenta la sessualità nell’inconscio […]” [Ivi, p. 852]. Il fatto di parlare di pulsione pone un problema con la definizione di “inconscio strutturato come un linguaggio”. Miller, nel corso Silet del 1994-1995, afferma che l’inconscio strutturato come un linguaggio ha pagato il prezzo della proscrizione della pulsione e che dal 1964 Lacan si sforza di cogliere la pulsione nel simbolico. Dirà: “Posizione dell’inconscio […] non è altro che uno sforzo per integrare la pulsione nell’ordine significante” [Silet, in La Psicoanalisi, n. 23, lezione del 17.05.95, p. 166]. E ancora: “Così la pulsione, che Lacan metteva al bando, ha domandato diritto di cittadinanza: Si verifica in effetti uno sviluppo, di cui si possono seguire le trace, e allo stesso tempo si verifica un taglio nel momento in cui si è compiuta con pieno diritto questa ammissione. Questo taglio è databile. E’ databile al 1964, che è l’anno del Seminario XI e anche della redazione dello scritto che si intitola Posizione dell’inconscio […] Possiamo quindi dire che questo momento - questo momento marcato dal Seminario XI e da questo scritto – ha il valore di un momento di concludere sulla pulsione. Questo non vuol dire che poi Lacan sia rimasto su quel punto. Vuol dire che c’è una scansione – una scansione forte” [Silet, in La Psicoanalisi, n. 19, lezione dell’11.01.1995, pp. 226-227]. La scansione risiede in questo: “ […] a quella data, e non prima, la pulsione […] è ammessa al rango di concetto fondamentale della psicoanalisi”[Ibidem]. Questo significa che a partire dal 1964 la pulsione è integrata all’inconscio: la catena inconscia è articolata in termini di pulsione. Fino a questo momento Lacan aveva privilegiato il sistema simbolico assegnando un posto marginale alla pulsione. Ora, nel 1964, nel Seminario XI, Lacan fa della pulsione un concetto essenziale dell’esperienza analitica e anzi ne parla come se fosse un’evidenza che s’impone in ogni pratica clinica, mostrandosi quasi stupito che qualcuno possa criticarlo di averla trascurata e possa accusarlo di “[…] non so quale negligenza di ciò che ogni analista conosce per esperienza, cioè il pulsionale. Nell’esperienza, in effetti, noi incontriamo qualcosa che ha un carattere incontenibile nonostante le repressioni – d’altro canto, se ci deve essere repressione è perché c’è qualcosa al di là che spinge. Non c’è bisogno di andare molto avanti nell’analisi di un adulto, basta avere una pratica con i bambini per conoscere quell’elemento che costituisce il peso clinico di ciascuno dei casi che dobbiamo maneggiare e che si chiama pulsione» [Il Seminario. Libro XI. I Quattro concetti fondamentali della psicoanalisi p. 158].
Perché prima la pulsione aveva avuto una posizione marginale? Miller lo spiega dicendo che, per un certo tempo, Lacan aveva legato la libido al narcisismo, quindi l’aveva relegata al registro dell’immaginario, mentre quello che riguardava il soggetto era fuori dal godimento. Con la promozione del fantasma, Lacan situa un punto di contatto tra l’immaginario e il simbolico, un nodo tra il godimento immaginario e il soggetto nell’ordine simbolico. Così nella formula $<>a egli articola il soggetto dell’inconscio, il soggetto effetto del significante e quindi dell’ordine simbolico, con a, considerato inizialmente come d’ordine immaginario. Poi Lacan assegnerà l’oggetto a al registro del reale e dal Seminario XI e da Posizione dell’Inconscio, lo utilizzerà per trattare il godimento [Cfr. J.-A. Miller, Silet, in La Psicoanalisi, n. 20, lezione dell’ 8.02.95, p. 250].  
Riposizionare la pulsione, l’analista, il transfert, la libido, il soggetto, il significante, la ripetizione, significa elaborare un inconscio che non ha una posizione statica, fissata e univoca, ma una posizione dinamica, temporale e pulsante.
Un paio d’anni dopo la stesura di Posizione dell’inconscio, Lacan utilizzerà un’espressione poetica, metaforica, per dire che cos’è l’inconscio: “[…] per me l’inconscio, è Baltimora, all’alba”. Così si esprime: “Molto presto, questa mattina, mentre riflettevo su quello che vi avrei detto, ho visto il giorno levarsi  su Baltimora ed era un momento molto interessante perché non faceva  ancora completamente chiaro, un’insegna al neon m’indicava ogni minuto che l’ora era cambiata e evidentemente il traffico era già intenso. E ho fatto l’osservazione che tutto quello che vedevo, sì, ad eccezione di alcuni alberi in lontananza, era il risultato di pensieri, di pensieri sempre attivi nei quali il ruolo dei soggetti non era così evidente. In ogni caso, ciò che è chiamato il Dasein per tentare di definire il soggetto, era proprio là in questo spettatore piuttosto intermittente o evanescente. La migliore immagine che io possa dare di ciò che per me è l’inconscio, è Baltimora all’alba” [De la structure en tant qu’immixtion d’un Autre préalable à tout sujet possible [1966]. Conferences a Baltimore in http://www.acheronta.org/lacan/baltimore-fr.htm, pp. 2-3]. Ça parle de lui, c’è qualcosa che parla del soggetto, nel dire del soggetto qualcosa si dice a sua insaputa, qualcosa parla di lui, della sua verità. Il soggetto dell’enunciato voleva dire qualcosa ma il soggetto dell’enunciazione dice altro, ed è questo che interessa alla psicoanalisi. Sempre nelle conferenze americane, Lacan dirà che per lungo tempo studiosi e ricercatori che si sono occupati delle questioni dello spirito, hanno avanzato l’idea dell’unità come il tratto più importante della struttura. Se questo vale per l’organismo che si sviluppa e funziona come un’unità, la questione diventa più difficile quando questa idea di unità si applica alla funzione dello spirito perché esso non è una totalità in sé. Lacan considera che non c’è niente di meno conosciuto, e nello stesso tempo di più certo, dell’aspetto sensibile dell’essere vivente. Che cosa intende con questa espressione? “[…] questa cosa insondabile capace di sentire qualcosa tra la nascita e la morte, capace di conoscere tutte le forme di pena e di piacere, in una parola […] ciò che chiamiamo il soggetto del godimento. […] Se l’essere vivente rappresenta qualche cosa di pensabile, sarà prima di tutto come soggetto del godimento […]. Se godo un po’ troppo, comincio a soffrire e modero i miei desideri. L’organismo sembra fatto per evitare troppo godimento. Saremmo tutti probabilmente tranquilli come ostriche, non fosse per questa curiosa organizzazione che ci forza a superare la barriera del piacere o forse semplicemente a sognare che la forziamo e quindi la superiamo” [Ivi, pp. 5-6].

Domanda
Ha detto che a questo livello dell’insegnamento di Lacan lo statuto dell’inconscio è dell’ordine del non pensato. Non conosco in maniera approfondita l’insegnamento di Bion, ma mi è venuto in mente come questo possa accordarsi ad un discorso che vede la psicoanalisi come un apparato per pensare.

Risposta
Non pensato è l’atto. Dicevo che l’atto dell’analista interviene senza che sia possibile premeditarlo, organizzarlo. Un intervento di taglio, di coupure, che è solo sul dire dell’analizzante: un movimento, un alzarsi, fino ad arrivare a quello che veniva attribuito al maestro Zen come il calcio o l’abbaiare… non arriviamo a queste caricature, ma c’è qualcosa che è del corpo. Per questo ci vuole il corpo dell’analista.

Domanda
La citazione che lei ha fatto sul godimento mi rinvia alla questione del Seminario VII dove Lacan dice che c’è qualcosa che ci sbarra la via al desiderio. Il motivo per cui l’essere umano abbia così tanto bisogno di andare verso questo al di là che ostacola il desiderio, è una cosa di cui ancora non sono riuscito a farmi un’idea che in qualche modo mi soddisfi. Lei che idea ne ha?

Risposta
È l’incidenza della pulsione di morte che è importante, ed è così disturbante da non esser accettata, accolta, elaborata… tant’è vero che tutta la psicoanalisi post-freudiana ha cercato di sbarazzarsene, trasformandola nell’aggressività che bisogna superare, qualcosa da assorbire e velocemente liberarsene. Nel voler superare le barriere vedo questo. Lei ha fatto riferimento al Seminario VII. Bisogna prendere la misura rispetto all’insistenza della pulsione di morte, farne qualche cosa, non annullarla, non retrocedere, non considerare che sia da guarire, perché non guarisce, è strutturale. Quindi è da mettere in gioco in ciascuno, e vedere come in ciascuno si collega prima al proprio sintomo, poi  al come farsene qualcosa per vivere.


Marco Focchi
Vorrei brevemente prolungare le cose importanti che hai detto. La dimensione dell’inconscio mi sembra molto ben espressa dall’immagine di Lacan che hai evocato: “l’inconscio è Baltimora all’alba”, sorta di pensieri in fluttuazione, lampeggiamenti, percezioni… Un piano da cui il soggetto è assente, infatti lui si osserva in un certo senso dall’esterno. È un modo di rendere espressivamente questa immagine più leggera, qualcosa che Lacan aveva già introdotto nel seminario Le désir et son interprétation con un riferimento ad un testo di Sartre, La Transcendance de l’Ego, uno scritto molto complesso di Sartre, il primo con cui Sartre entra sulla scena filosofica, e che Lacan utilizza proprio per mostrare un piano da cui il soggetto non necessariamente è presente, anzi non c’è. Può esserci questo piano senza che la soggettività sia implicata, e quindi inscriversi poi.

Trascrizione: Michela Occhi
Preparazione redazionale: Giuseppe Perfetto

Revisione: Emanuela Scattolin

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