lunedì 27 giugno 2016

Intervento di Giovanna Di Giovanni tenuto alla Sezione Clinica di Milano 2015-2016 LA SOLITUDINE TRA MADRE E BAMBINO: VENIRE AL MONDO

“Nasce l’uomo a fatica ed è rischio di morte il nascimento”, scrive il poeta [G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante, in: “Poesie”, Mondadori, 1987, p.85]. Da subito, la vita e la morte, il corpo e la parola si intrecciano in modo indissolubile e che resta misterioso. Un corpo nasce da un altro corpo ed è già segnato dalle parole che lo hanno preceduto, dal significante che barra il legame con la madre.
Il rischio di morte è da subito non solo fisica, ma anche di possibile non-assenso all’ingresso nel mondo significante umano [J. Lacan, Il Seminario. Libro III. Le psicosi (1955-1956), Einaudi, 1985, p. 56]. Il corpo allora può restare nei frammenti della biologia e non accedere al discorso e all’immagine illusoria e unificante. Il dramma schizofrenico si situa lì. È prima di tutto nella madre che il taglio simbolico occorre sia presente, a sua stessa insaputa. Quello fisico non è sufficiente.
La madre, infatti, contrariamente a ciò che si dice, non dà la vita, la trasmette soltanto, ne è lo strumento inconsapevole, però in modo assai più pregnante dell’uomo. La madre infatti è attraversata da una contraddizione insanabile, mette il suo stesso corpo, lo cede in certo senso, al servizio del bambino, di questo parassita che la abita, ma nello stesso tempo deve ritrarsene perché il figlio non    rimanga una parte di lei stessa, amata o odiata secondo le circostanze.
Freud, nel parlare del bambino, sottolinea, come farà anche Lacan, la prematurità e l’impotenza con cui l’essere umano viene al mondo, rispetto anche alle altre specie animali. Prematurità e impotenza che, dice, “il bisogno di essere amato, bisogno che non abbandonerà l’uomo mai più” [S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia (1925), in Opere, vol. X, Bollati Boringhieri, p. 301].
L’essere umano nasce “infans”, muto, senza parola, nudo e senza nome, dovrà riceverlo dall’Altro e sarà il primo indelebile marchio del linguaggio in cui si è trovato immerso, il primo segno della contraddizione insanabile che lo attraversa. Il nome proprio è, con il corpo stesso, quanto di meno “proprio “ ognuno hanno. Già lì, infatti, nel nome, il soggetto si fa rappresentante fin nel corpo, del desiderio dell’Altro, della trasmissione intergenerazionale che l’ha segnato prima di nascere biologicamente.   
Prima ancora di emettere suoni, sia pure inarticolati, il bambino è già parlato dal discorso parentale, da quello della madre. Non è senza parole, anche non espresse, di amore, di dolore, di paura e anche di odio, che la madre porta in sé questo essere vivente e nuovo che è il bambino.    
Il bambino, parassita e sconosciuto, che la madre cerca di assimilare - si può dire addomesticare - durante la gravidanza, con le parole che gli rivolge, il nome che gli prepara insieme agli oggetti per accoglierlo.
La madre, con la gravidanza, acquista una pienezza non solo fisica, che la donna nel suo sentirsi mancante non ha e che può divenire pericolosa per lei stessa e per il bambino, o perché la respinge o perché vi si accomoda e può sentirsi svuotata dopo il parto [J-A. Miller, Dei sembianti nella relazione tra i sessi, in: “La Psicoanalisi”, n.45, Astrolabio, 2009, p.15].
Si situano qui le diverse varietà di baby-blues, depressioni post – partum, che non necessariamente si manifestano alla nascita del bambino. Molte donne dicono della gravidanza, per lo più con un godimento che va oltre la gioia, alcune con giustificato timore.
Può essere un esempio la madre che, dopo alcuni giorni, non ha voluto più allattare il bambino per il timore del troppo di godimento che aveva provato e di dove questo poteva portarla.
Perché, se è vero che ogni essere umano è solo e sperimenta la derelizione, la donna in gravidanza  si trova in una pericolosa e paradossale solitudine a due.
Il bambino, pur se ancora non nato, è lì pronto a colmare ogni sua mancanza, proprio con la realtà del suo bisogno, della sua immaturità e completa impotenza [J. Lacan, Due note sul bambino, in: “La Psicoanalisi”, n.1, Astrolabio, p.22]. Per questo è importante che la madre non si immerga nella sua solitudine di godimento del figlio, ma abbia intorno chi le può ricordare che, pur madre, è anche sempre una donna.
Che la madre si viva anche come donna è fondamentale fin da prima della nascita del bambino, per lei e per il nuovo nato, perché la solitudine a due lasci il posto al taglio che permette la relazione umana. Occorre che la donna acconsenta a perdere qualcosa della “pienezza” acquisita per accettare la mancanza, resa presente dal suo corpo stesso con le trasformazioni che sfuggono a qualsiasi determinazione cosciente.
Paradossalmente, il modo per non lasciare sommergere la donna nella madre con la sua completezza, specie nell’avanzare della gravidanza, è quello che il mito ci tramanda, la protezione della madre e del bambino. È attraverso quest’oblatività paterna che, mentre mette a lato la sua fallacità, l’uomo la arricchisce, e la madre può sentirsi ancora una donna per un uomo, nel suo divenire madre.
Percorso complesso e sempre a rischio. Il concepimento e la gravidanza infatti comportano una metamorfosi profonda sia della donna che dell’uomo. Entrambi, ciascuno a suo modo, scoprono una nuova dimensione della solitudine umana, banco di prova per una nuova relazione che includa il bambino. Altrimenti, nonostante tutte le apparenze di famiglia, il figlio troverà ad accoglierlo un guscio materno già pronto, continuazione di quello nel corpo della madre, dove ella lo collocherà e da cui sarà poi molto difficile muoversi. Il primo prezzo dell’esistere infatti è nella rinuncia a una parte di sé, quella comune fin nel corpo tra la madre e il bambino. Il bambino “infans” ancora non ha la parola ed è l’Altro che lo parla, lo “interpreta”, con quanto di equivoco e malinteso può esserci in questo.
È l’Altro che dà un senso ai suoni che il bambino emette e a tutto il movimento del suo corpo. La pulsionalità del bambino si intreccia al linguaggio da subito, al discorso della madre, dei genitori, scava solchi nel corpo e in essi si incanala la libido del soggetto, facendone un essere umano irripetibile e solo.
Da subito, da prima di nascere, l’essere umano si trova preso nel linguaggio, necessario per vivere e che può anche costringerlo fino alla fine fisica o psichica. Senza la parola rivolta a lui infatti il bambino non vive, come osservava già Spitz [R. Spitz, Il primo anno di vita del bambino, Giunti-Barbera, 1972], e confermano le moderne indicazioni nei reparti di neonatologia [M. Szejer, Des mots pour naitre, Gallimard, 2003].
Anche se non parla, il bambino intende, fa sue le parole dell’Altro e ancora di più il desiderio, che esse veicolano o celano.  La voce infatti è il primo elemento percepito dall’essere umano, insieme al maneggiamento del corpo. Paure, timori e anche troppo di godimento passano dalla madre ai sensi del bambino, plasmano il suo corpo e tracciano le vie per il suo essere nel mondo umano. Le pulsioni infatti sono l’eco nel corpo che ci sia un dire [J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII. Il sinthomo (1975-1976), Astrolabio, 2006, p.16].
Senza questo dire, senza la parola dell’Altro, sorge l’angoscia, il segnale della derelizione solitaria insostenibile.  Lacan ci dice che l’angoscia è “il sentimento che sorge dal sospetto di essere ridotti al nostro corpo” [J. Lacan, La Terza, in: “La Psicoanalisi”, n.12, Astrolabio, 1993, p.33]. Questo corpo che è “nostro” e che ci è estraneo e che solo la parola che veicola l’amore, l’interesse particolare, può tenere insieme.
L’amore infatti, già nel mito, è lo struggimento per l’unità perduta e l’anelito a riottenerla. Il dualismo corpo-parola, corpo-anima, è fin dalle  origini del pensiero occidentale, corpo e pensiero non coincidono, non hanno alcun legame “naturale” fra loro. Il corpo è invece in frammenti e solo il montaggio pulsionale può portare una fuggevole soddisfazione, con la delimitazione delle zone erogene. Montaggio e delimitazione, impossibili al soggetto schizofrenico, il cui lamento è proprio sull’invasione di godimento doloroso nel corpo, che sfugge e rende irraggiungibile qualsiasi soddisfazione.
Lacan dirà: “sono dove non penso”, sottolineando la divisione dell’essere umano fra biologia e linguaggio, con il termine “parletre” che lo sancisce. Il corpo e le sue manifestazioni, i suoi sintomi sono al centro già della scoperta di Freud, con le “malattie che parlano, per farci intendere la verità di ciò che dicono” [J. Lacan, Intervento sul transfert (1951), in: “Scritti”, vol.1, Einaudi, 1974, p. 210].
Oltre la possibilità di dire si situa con l’ultimo Lacan il nucleo inesplorabile del corpo nella sua solitudine.  Il corpo stesso infatti è il risultato di un “montaggio”. Alla nascita il bambino non sa di averlo, imparerà a percepirlo attraverso le cure, le parole che accompagnano il nutrimento, lo svezzamento, l’educazione sfinterica, il maneggiamento del corpo.
Si pongono qui le basi del rapporto che avrà da adulto con gli aspetti pulsionali del corpo, ma per questo occorre che ci sia chi gli rivolge la parola, chi “nomina” il suo corpo nei suoi primi bisogni. Le parole e gli atti, in un certo senso, scrivono sul corpo, ne fanno un’unità fino allo stadio dello specchio, rivelatore dell’avvenuta o meno organizzazione pulsionale. Sono le parole a dare vita e unità al corpo, altrimenti in frammenti. Il corpo fa comunque enigma all’essere parlante, con il suo incontro impossibile tra biologia e rappresentazione del soggetto nel mondo simbolico.
Lo sviluppo infatti di questo corpo non ha nulla di naturale, per tappe, non stadi evolutivi, ma contingenza, tukè, stigmate di vittoria o di sconfitta. Queste prime tracce saranno impossibili da cancellare e l’essere umano dovrà imparare a farne qualcosa, ad esempio con somatizzazioni nell’isteria, con rappresentazioni nell’ossessività, modi diversi della rimozione oppure il soggetto negherà inizialmente l’assenso all’ingresso nel simbolico, nell’insondabile decisione dell’essere [J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica (1946), in: “Scritti”, vol. 1, Einaudi, 1974, p.145].
Il cammino per la relazione umana con gli oggetti di amore e di soddisfazione, per lenire la solitudine ineliminabile, passa all’inizio per il “narcisismo primario”, dove può subire un arresto. La scoperta di Freud ci dice anche che tutto il corpo è erogeno, percorso dalla pulsione, che ha la sua origine in stimoli interni e da cui non è possibile una fuga ma solo un accomodamento singolare.
Già il fort-da del bambino introduce una scadenza significante, che designa l’oggetto e anche il soggetto stesso [J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, 2003, p. 60sg].  Presenza - assenza, perché solo la presenza angoscia. Lacan dirà che è l’assenza possibile, con la mancanza che comporta, a dare la sicurezza dell’esistenza, del ritorno dell’oggetto anelato, che non sarà mai quello agognato. 
L’importanza dell’immagine allo specchio non è in quanto tale, perché l’immagine non ricopre, non unifica, di per sé il caos corporeo, ma mette in evidenza, insieme all’unicità, la relazione tra questa immagine e il soggetto, la cui assenza appare nella psicosi, nell’autismo.        
Ciò che permette questa relazione tra il bambino e l’immagine, tra il soggetto e il corpo è la parola dell’Altro e il desiderio che essa veicola come risposta alla domanda umana: cosa sono per l’Altro?  Scrive Lacan: “Il primo detto decreta, legifera, è oracolo, conferisce all’Altro reale la sua oscura autorità” [J. Lacan, Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano (1960), in: Scritti, vol. 2, Einaudi, 1974, p. 810]. Da qui nasce l’identificazione a un tratto, che la parola scrive sul corpo e che diventerà l’insegna di quel soggetto.
Come nasce il soggetto, come si incarna il significante nel reale? Quello che possiamo     vedere nei diversi movimenti è il modo di costituirsi del soggetto, l’origine resta oscura, come la fine. Non vi è comunque nell’uomo alcun movimento istintuale, paragonabile a   quello delle altre specie animali, ma sempre un passaggio nella Domanda. Dalla Domanda all’Altro alla Domanda dell’Altro, il significante, la parola che si iscrive fa nascere il soggetto e insieme introduce il senso della morte [J. Lacan, Posizione dell’inconscio (1964), in: Scritti, Vol.2, Einaudi, p. 851]. 
Il soggetto nasce fra alienazione e separazione-recupero di un minimo di godimento intorno all’oggetto a, “moneta spicciola de La Cosa” [J-A. Miller, I sei paradigmi del godimento (1999), in: “La Psicoanalisi”, n. 26, Astrolabio, 1999]. Il corpo, da parlato alla nascita, diviene parlante, ma ogni frammento di piacere sancirà la solitudine del soggetto. Non esiste   quindi uno stato fusionale madre –bambino, né prenatale, né iniziale della vita, ma solo la parola che media il passaggio e scrive nel corpo, introducendo l’essere dalla biologia senza nome alla vita umana, alla nostalgica e solitaria ricerca dell’oggetto perduto.

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